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La società contemporanea è caratterizzata da una progressiva estraneazione dei singoli dalle decisioni comuni e dal ‘potere’.

Questo crea un grande distacco tra i governanti ed il resto della popolazione e lede il diritto prioritario di decidere del proprio destino.

Mi sembra caratteristica dei nostri tempi l’assenza di un’avvertita riflessione progettuale sul ‘modello’ organizzativo più consono alle necessità del presente.

Il dibattito, quando c’è, è portato avanti esclusivamente dai ‘politici’ ed è frammentario, episodico ed umorale, mancando una riflessione organica e prospettica. Non di rado è rissoso e confuso.

Faccio un esempio, centrale per la vita del Paese: la Costituzione. Chi invoca cambiamenti si concentra su aspetti che appaiono secondari e sfilacciati perché avulsi da una visione organica e prospettica. All’opposto i difensori si spingono a dichiarare che essa è la migliore o una delle migliori costituzioni del mondo. Eppure essa ha lacune vistosissime.

Non meno grave mi sembra l’assenza di disposizioni organiche su uno dei nodi (che in passato aveva arrovellato, dando vita a dibattiti animatissimi) i pensatori ed i riformatori: quello del controllo del potere.

Fin dall’antichità è stata avvertita la necessità di porre argini all’esercizio del potere, non solo attraverso i normali organi della democrazia, ma anche attraverso autorevoli controllori della correttezza ed opportunità delle scelte operate da chiunque ne avesse la facoltà di farle, dalle assemblee popolari ai ‘capi’.

Non essendo ipotizzabile una democrazia assembleare, del tipo di quella ateniese (ad esempio), occorre trovare soluzioni che rassicuri i ‘governati’ sull’utilizzo del potere per il bene comune e non per finalità personalistiche e, spesso, piú o meno vessatorie ed arbitrarie.

Il problema si è posto fin dall’antichità ed è stato affrontato dai pensatori che sono alla base dell’odierna organizzazione politica, che è anche statuale. Si è trattato e ancora oggi si ha la necessità di trovare soluzioni al complesso rapporto tra l’esercizio del ‘potere’ ed il popolo, con la finalità di approdare ad un equo bilanciamento tra le aspettative e le aspirazioni dei singoli uomini ed i detentori del potere.

In primo luogo si è cercato di fare in modo che il popolo non si sentisse escluso dalle decisioni fondamentali che lo concernono. In secondo luogo si è pensato di prevenire o fermare eventuali abusi da parte dei governanti. Particolarmente significativi sono stati gli istituti diretti al controllo dell’esercizio del potere, per assicurare il buon governo e per reprimere l’uso arbitrario ed immotivato del potere.

Se guardiamo all’oggi vediamo che queste istanze sono quanto mai attuali, tanto più che la crescente richiesta di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, ha posto a nudo l’inadeguatezza di due pilastri della ‘democrazia’ occidentale, costituiti dalla rigida affermazione della sovranità statale (o di unioni di stati) e dal principio della divisione dei poteri. Questo fa sí che l’uomo avverta una crescente mancanza di protezione di fronte all’Amministrazione Pubblica ed ai cosiddetti ‘poteri forti’, che appaiono invasivi, in conseguenza del fatto che il limite previsto dalla dottrina della divisione dei poteri in realtà non vi è più.

Del che ci si persuade subito se si guardi all’UE. In esse le cosiddette norme primarie del diritto comunitario sono costituite innanzitutto dalle norme convenzionali, contenute nei Trattati istitutivi della Comunità e negli accordi internazionali successivamente stipulati, al fine di modificarli. A queste norme si affiancano quelle (dette di diritto derivato), derivanti dai regolamenti CE e dalle direttive del Consiglio o della Commissione (atti normativi) e molte altre tutte non provenienti da alcun organo legislativo. È, poi, anche opinione concorde che possano assumere valore normativo le decisioni ed i pareri e che le sentenze della Corte di Giustizia (o del Tribunale di primo grado) finiscono per rivestire efficacia diretta negli ordinamenti degli Stati membri, assumendo, quindi, il carattere fonti del diritto comunitario, poiché l’interpretazione di una norma comunitaria, resa in una pronuncia della Corte di Giustizia, ha carattere di sentenza dichiarativa del diritto comunitario. Come si vede della c.d. divisione dei poteri non resta quasi nulla!

Rimane invece una sorta di paravento che favorisce il consolidamento di oligarchie e burocrazie che fa sentire impotenti.

Perciò s’impone una discussione profonda ed in grado di ridisegnare il ‘modello’ di Costituzione, sia formale che materiale.

Ritengo che la prorompente esigenza di riconoscimento e protezione dei cosiddetti diritti fondamentali stia dimostrando l’inadeguatezza dei pilastri della ‘democrazia rappresentativa’ e richieda una profonda discussione dei principi sui quali essa si fonda; i quali sembrano dare spazio crescente all’affermazione di oligarchie, con conseguente estraneazione del popolo. Il nuovo disegno di Costituzione dovrebbe, invece, muovere dalla costatazione dell’inefficacia e del mancato funzionamento della ‘divisione dei poteri’, per ipotizzare una differente configurazione della società con la riproposizione della centralità dell’uomo, la quale può essere ottenuta solo attraverso forme performanti di controllo del potere, in tutte le sue manifestazioni.

Purtroppo non mi sembra che oggi si intraprenda questa strada.

All’opposto, il nodo era ben presente nelle discussioni sulla città antica e nel pensiero dei secoli XVIII-XIX, dal quale deriva la configurazione delle ‘democrazie’ occidentali.

Perciò mi sembra utile partire da una rivisitazione del passato. In esso il controllo del potere fu ben perseguito: attraverso l’Eforato ed il Tribunato della plebe, al cui modello si appellarono e ancora oggi si rifanno i pensatori dell’età moderna e contemporanea, per proporre un efficace controllo del potere, a favore del popolo.

A dir il vero, le radici della prospettazione di organi in grado di controllare il potere forse risalgono alla pacifica civiltà cretese, nella quale, come ricordava Aristotele, fu creato l’istituto dei Cosmi, per il controllo del potere esercitato dai re.

Sul modello dei Cosmi fu forgiato a Sparta l’Eforato, introdotto secondo alcuni già dal mitico Licurgo, secondo altri piú tardi (130 anni dopo) dal re Teopompo. Gli Efori, dotati di poteri vasti ed incisivi, furono concepiti come freno alla prepotenza dell’oligarchia e dei re.

La ragione del crescente potere degli Efori risiedette nel fatto essi venivano eletti dal popolo e, per questo, erano visti come rappresentanti di esso e quindi anche mallevadori dei diritti dei cittadini. L’ampiezza del potere degli Efori venne bilanciata dalla durata molto breve (soltanto un anno) della magistratura, e dalla possibilità di essere chiamati a rispondere del proprio operato, allo scadere del loro incarico.

Queste caratteristiche hanno fatto sí che l’Eforato sia stato visto come ‘modello’ per chi proponeva il controllo del potere e la partecipazione popolare. Perciò, a partire dal sec. XVII venne riproposto come argine al potere del Sovrano

Nel 1603 Johannes Althusius pubblicava la Politica, opera ritenuta l’atto di nascita del diritto pubblico moderno, fondamentale per il pensiero federalista e la riaffermazione della sovranità popolare. Secondo l’autore nella comunità politica vi è un momento unitario, costituito dalla confluenza tra l’operato dei sommi magistrati che esercitano il potere ed il concorso del popolo (con le sue molteplici forme di aggregazioni), che si esprime attraverso propri rappresentanti diretti: gli Efori. In tal modo la società si organizza intorno ad un’istanza di guida (espressa dai governanti) e ad un’istanza di partecipazione collegiale, che esprime direttamente la volontà della comunità. Perciò sono gli Efori ad avere l’auctoritas e la potestas più elevata, proprio perché promanano direttamente dal popolo, consentendo al popolo stesso di farsi valere realmente di fronte all’azione di governo del sommo magistrato.

Piú tardi Johann Gottlieb Fichte riprenderà le fila del rapporto magistrato-popolo, ma da altra angolatura: non quello positivo della rappresentatività, bensí quello del controllo. Egli ripropose l’Eforato, ma non come potere positivo, bensí come controllo sul potere. L’Eforato sarebbe l’espressione della pluralità degli uomini che il modello basato sulla ‘rappresentatività’ può soffocare, per il fatto che la volontà dei governanti può non essere la sintesi di quella dei governati e certamente è diversa dai voleri particolari dei molti-uomini, che compongono la società.

Le caratteristiche dell’Eforato, tuttavia, sono state spesso anche esaltate nei momenti nei quali si cercava di riposizionare il popolo al centro della vita politica e costituzionale, come avvenne intorno alla metà del secolo XVIII, quando l’Eforato è stato talora ripresentato come modello di giustizia e di difesa delle istanze popolari.

Significativa appare la sua riproposizione ad opera del Pagano, il quale lo ipotizzò come organo idoneo a soddisfare l’esigenza di porre in essere degli efficaci strumenti giuridici volti a impedire ogni forma di usurpazione del potere. Compito dell’Eforato era quello di dare spazio al popolo, per garantirlo contro gli abusi di potere e violazione dei diritti, evitando di diventare a sua volta fonte di potere incontrollato.

La ricerca di una forma di controllo efficace e il ricorso all’Eforato (proprio nell’epoca del Pagano) erano oggetto di attenzione e tensioni anche in Francia, attraverso alcune proposte presentate all’Assemblea legislativa. Nel febbraio del 1793, Jacques-Marie Rouzet propose la creazione di un organo collegiale di 85 membri preposto al controllo della costituzionalità delle leggi, da effettuarsi prima ancora della loro approvazione da parte dell’Assemblea. Ai membri di tale organo, il Rouzet, molto prima che il Pagano redigesse il suo Progetto, dava il nome di Efori. La sua proposta si inseriva all’interno del progetto rivolto ad assicurare la legalità, considerata parte essenziale dei diritti dell’uomo. Ad essa si ispirò anche il ben più articolato e complesso progetto presentato, all’Assemblea, dall’abate Sieyès, due anni dopo, il quale prevedeva l’introduzione di un jury constitutionnaire (da lui denominato altrove anche tribunal des droits de l’homme) incaricato di una triplice funzione: vegliare sulla salvaguardia del dettato costituzionale, proporre dei perfezionamenti della Costituzione ed esercitare un controllo sulle sentenze della giurisdizione ordinaria sulla base del diritto naturale. Conseguenza del giudizio dinanzi al jury sarebbe stata la possibilità di dichiarare “nuls et comme non avenus” gli atti incostituzionali. Benché apprezzato da molti, il progetto del Sieyès venne respinto, ma, l’istanza, della quale si faceva portatore, restò un punto di riferimento, per la cultura europea.

La suggestione di queste proposte arriva ai nostri giorni. In particolare segnalerei il richiamo dell’Eforato in una penetrante proposta di riforma della costituzione italiana, avanzata in tempi recentissimi, la quale ha ripresentato l’Eforato al centro del processo riformatore necessario al giorno d’oggi.

In conclusione, mi sembra di potere osservare che gli Efori e l’Eforato, con le vicende che li hanno accompagnati, siano indicativi di quanto sia pressante la richiesta di una figura idonea ad affiancare agli organi di gestione del potere anche un organismo in grado di operare la mediazione tra i detentori del potere, basandosi sulla fiducia del popolo.

Inoltre, significativamente emerge che la tutela del popolo passa attraverso il rispetto essenziale della legalità, ma talora va oltre le leggi e si profila come garanzia dei diritti dell’uomo ovvero dei singoli nei confronti della coazione che necessariamente accompagna l’esercizio del potere.

L’istanza fondamentale della protezione dei deboli e della difesa dei diritti del popolo sia per gli antichi sia per le età moderna e contemporanea, però, non rimase ancorata all’istituzione spartana dell’Eforato, perché trovò migliore ed efficace collegamento con il Tribunato della plebe.

Il Tribunato suscitò nell’antichità ed ancora promana forti suggestioni, non solo per il fatto che nacque in Roma, i cui destini furono vincenti in tutto il mondo antico e si sono proiettati direttamente nelle età successive, quanto perché evoca l’immagine della contrapposizione tra popolo e potenti in maniera piú diretta e performante.

Ripetutamente nel corso del tempo il Tribunato è stato considerato lo strumento piú immediato ed efficace per la salvaguardia dei diritti e delle aspettative dei cittadini. Del Tribunato si è richiamata la carica potenzialmente rivoluzionaria e la capacità di essere vicino alle esigenze dei cittadini; perciò esso è stato riproposto anche ai tempi d’oggi, riconoscendogli una eccezionale attualità e l’idoneità a contribuire alla soluzione della crisi dello Stato moderno, che ha tutto da guadagnare dal richiamo del modello “giuspubblicistico” dell’antica Roma, particolarmente quello della Repubblica, ritenuto il piú rispettoso della sovranità del popolo. In tale modello i Tribuni erano centrali, al punto che Cicerone arrivava a dire che non si sarebbe potuto parlare di Respublica se non ci fosse stato il Tribunato.

L’origine plebea, il suo inserimento nelle lotte patrizio-plebee, prima, per la riforma agraria e, piú in generale, il suo intervento a favore degli oppressi, dettero all’istituzione un fascino trascinante, che perdura ai tempi d’oggi, tanto che alcuni pensano alla attualizzazione del Tribunato, per rimuovere le cause della crisi di fiducia dei cittadini.

I Tribuni della plebe erano presenti in alcune città medievali: è rivelatrice la circostanza che il governo popolare cittadino instauratosi a Bologna nel 1300 fosse articolato intorno ai Tribuni della plebe e desse vita a costumi che durarono fino al 1700.

Nell’età moderna troviamo il Tribunato al centro del dibattito tra Montesquieu (Charles-Louis de Secondat, barone de La Brède e de Montesquieu) e Jean-Jaques Rousseau riguardo al ‘modello’ piú adatto all’età contemporanea. Al primo, contrario al Tribunato perché convinto che esso fosse inconciliabile con la democrazia rappresentativa di matrice inglese, da lui perseguita, il Rousseau controbatteva con la proposta di introduzione di una magistratura di mediazione (un magistrat intermédiaire) forgiata in assonanza con il Tribunato romano.

I rivoluzionari Robespierre (Maximilien-François-Marie-Isidore de Robespierre) e Babeuf (François-Noël Babeuf, il quale, volendo estremizzare l’affermazione del ruolo del popolo, aveva visto nel Tribunato la soluzione piú pertinente), addirittura mitizzarono il Tribunato. Robespierre però diffidò dei travisamenti degli uomini e propose che fosse il popolo stesso ad esercitare il Tribunato. Babeuf fece del Tribunato il suo modello di eccellenza tanto che (il 5 ott. 1774) ribattezzò il suo giornale (Journal de la liberté) con il nuovo nome di Tribun du peuple e vide nel Tribunato lo strumento per la giustizia e la lotta dei poveri contro i ricchi ed i potenti, nel perseguimento della democrazia popolare al posto della democrazia borghese.

Tra i filosofi il Tribunato, ignorato da Kant, fu riproposto da Schlegel (Karl Wilhelm Friedrich von Schlegel), nella rivalutazione pre-romantica del popolo, il quale vide nell’istituzione di un hochheiliger Tribun lo strumento ultimo di difesa della parte migliore del popolo.

Il Tribunato è stato considerato la figura cui ispirarsi per superare i limiti della ‘democrazia’, consistente nella possibile ‘tirrannia’ della ‘maggioranza’. Si è, infatti, affermato che la sola maggioranza, contrariamente a quanto si crede sulla scorta del modello di democrazia degli Stati Uniti d’America, non può essere garanzia di democrazia, poiché può diventare facilmente ‘oligarchia’, per il fatto che essa “fondando il potere della maggioranza, ha trascurato di sottoporlo a questo sindacato permanente >il Tribunato< di cui tutti i poteri hanno bisogno”.

In quasi tutte le proposte, tuttavia, piú che al complesso dei poteri e delle prerogative dei Tribuni il riferimento prevalente è alla possibilità di opporsi al ‘potere’ dei magistrati e degli organi della repubblica.

Oggigiorno siamo di fronte ad una crisi esponenziale del modello di ‘democrazia rappresentativa’ e del suo preteso radicamento nella divisione dei poteri.

Invero, la distinzione tra le prerogative dei differenti poteri è quasi dappertutto saltata nell’esperienza giuridica degli Stati ed è stravolta nell’UE, dove la maggior parte del potere legislativo spetta agli Stati, al Consiglio ed alla Commissione, mentre il Parlamento ha funzione quasi più di immagine che di organo legiferante. Sono, dunque le formazioni più moderne ad ignorare, nel concreto, la divisione dei poteri e, pertanto, non si comprende il motivo per il quale si debba ritenere come requisito di democraticità il riconoscimento del principio della divisione dei poteri, sul quale sono modellate le Costituzioni contemporanee.

La vera strada, da imboccare con sollecitudine e coraggio, è quella del ridisegno delle Costituzioni; di una nuova stagione costituzionale, la quale, superando l’assetto attuale basato sul richiamo (come si è detto piú formale che effettivo) alla divisione dei poteri, proponga un nuovo ‘modello’, nel quale un ruolo fondamentale e centrale dovrà spettare al Controllo del potere anche al momento del suo esercizio; affidato a soluzioni incisive e performanti, ma con configurazioni molto differenti dalle attuali ed avendo come obiettivo l’affermazione e la tutela dei diritti fondamentali, ai quali va affidato il compito di riconoscimento dell’opposizione alle logiche dei ‘poteri’, pubblici e privati. Esso dovrà essere affiancato da altre soluzioni, con la consapevolezza che non ne basta una, ma occorre un concorso di accorgimenti diretti a indirizzare il ‘potere’ verso il bene comune, garantendo partecipazione e ridando fiducia agli uomini.

Ne deriva un compito immane e arduo, intorno al quale è essenziale avviare un dibattito profondo e ‘diverso’ (rispetto alle discussioni odierne), che faccia emergere soluzioni concomitanti (ad esempio, la temporaneità delle cariche), assate intorno al nodo centrale del controllo del potere anche durante il suo esercizio.

Oggi esso, quando sia possibile, lo è a posteriori e spesso dopo un defatigante lasso di tempo, che talora lo rende poco e non performante, poiché, comunque, non impedisce le distorsioni derivanti dall’uso inappropriato o soverchiante.

Certamente non si può sottovalutare il rischio che la possibilità di eccessivo controllo rischi la paralisi o lo stallo; invero se fosse possibili bloccare ogni decisione degli Organi di potere, in attesa della veriica di congruità ed appropriatezza, si potrebbe compromettere l’efficacia dell’azione degli Organi dello Stato, così come a Roma il ‘veto’ dei Tribuni potevano impedire qualsiasi atto. Ma a ciò si potrebbe rimediare con un semplice accorgimento: l’inversione dell’onere della prova, cioè prevedendo che l’obiezione o il reclamo di apposito Difensore dell’interesse comune imponga all’Organo di dover dimostrare la legittimità ed opportunità del suo atto. Un po’ a modello di ciò che già oggi prevede il Principio di precauzione, riconosciuto principalmente in materia ambientale e per la tutela della salute (in virtù del richiamo ai principi generali dell’ordinamento comunitario, operato dall’art. 1 comma 1 della legge 241/1990. Inoltre, esso ha trovato espressione in diverse disposizioni normative come il Codice del Consumo https://www.diritto.it/il-principio-di-precauzione-nellattivita-della-pa-per-la-gestione-dei-rischi/ – _ftn3, il Codice dell’Ambiente ecc).

Solo cosí si può almeno sperare di superare gli squilibri oligarchici imperanti; solo cosí si possono stanare i nulla dicenti e incanalare la riflessione politica su nodi veri, in grado di operare con qualsiasi ‘maggioranza’.

Dico ciò e chiedo di riflettere su ciò anche a costo di apparire utopico, perché occorre avere presente che a volte l’utopia dell’oggi può diventare la certezza del domani.

Con l’utopia la società ha un ‘futuro’, senza ha solo un ‘dopo’!

Sebastiano Tafaro

Il professor Sebastiano Tafaro classe 1936 è nato a Minervino Murge in provincia di Bari ed è Onorario dell'Università degli Studi di Bari. Animatore e co-conduttore di una serie di dibattiti politici storici e filosofici.