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Uno spettacolo, irriverente, assolutamente singolare  ma denso di altissimo contenuto “Hybris”,  di Flavia Mastrella e Antonio Rezza, in scena al Teatro Kismet di Bari, il 21 e 22 Aprile. Sul palco, oltre a  Rezza, Ivan Bellavista, Manolo  Muoio, Chiara Perrini, Enzo Di Norscia, Antonella Rizzo, Daniela Cavaioli e Cristina Maccioni, l’unica assente  lei Flavia, autrice di tutti gli effetti scenici.

Tra metafora e racconto onirico, riscoperta di se stessi e delle abitudini del quotidiano, lo spettacolo  si incentra su una porta, una porta che si apre o si chiude. C’è Rezza che se la trascina dietro, ci sono gli attori- visitatori-scocciatori che vogliono e non vogliono entrare nella sua casa immaginaria, e lui che vuole e non vuole uscirne per incontrare il mondo. La porta si apre   e si chiude di continuo. Lascia entrare o vieta l’ingresso e immediatamente segna una barriera, stabilisce un potere.  È la porta, simbolo del potere che “protegge” (nel senso che infogna, che insabbia) i disastri, le violenze familiari (impressiona la scena dell’incesto fra figlio e madre disabile su sedia a rotelle) e le altre brutture sociali, qui portate all’esasperazione massima.

Il termine hybris presso gli antichi Greci, significava l’orgogliosa tracotanza che induce l’uomo a presumere della propria potenza e fortuna e a ribellarsi contro l’ordine costituito, sia divino che umano, immancabilmente seguita dalla vendetta o punizione divina.

Ed è proprio la tracotanza dell’uomo rispetto all’essere umano che Rezza evidenzia in Hybris, la violenta  prevaricazione nei confronti degli altri esseri umani. Come ha spiegato lui stesso, in altre circostanze,  “Hybris”- è la sfida dell’uomo alla natura, la convinzione umana di poter dominare la terra con le tecnologie che ci spingono alla rovina. Quella sfida arrogante agli dei o al Dio, quell’insolenza tutta umana che prevarica e distrugge e sta portandoci dritti dritti al transumanesimo, all’insostenibilità ambientale, alla prevaricazione economica dei sempre più ricchi, all’emarginazione dei sempre più numerosi.

Ma andiamo per gradi.

Lo spettacolo inizia con alcuni attori piazzati sul palco, in assoluto e lungo silenzio, vestiti di rosso e di nero, colori che tornano spesso nei colori di scena.

Un ambiente freddo, un “habitat”, come lo chiama Mastrella, con due poltrone da ufficio rosse, un paio di attrezzi ginnici tristi e inutili stelle filanti  appesi sullo sfondo, il trasportino umano per la desolante passeggiata che Rezza compirà alla fine dello spettacolo. L’unico elemento decisamente multicolore invece è costituito dal vestito del protagonista , un pigiamino da Menestrello-Pinocchio, tutto paiettato.

Una bara trasparente piazzata nel centro del palco: all’interno il protagonista, che gorgheggia sonoramente versi senza alcun significato, un grammelot, vale a dire quell’emissione  di suoni senza senso ma simili a parole o discorsi reali, effetto molto usato nel teatro di Dario Fo. Dalla bara viene fuori la testa di Rezza che subito suscita l’ilarità del pubblico.

Il protagonista  inizia a muoversi freneticamente nello spazio, spostando la porta mobile , gesto che connoterà le quasi due ore di performance, accompagnato a battute di spirito, giochi di parole e sferzate  verbali rivolte contro alcuni nemici ricorrenti nei suoi spettacoli. Gli argomenti intorno a cui ruotano principalmente le invettive di Rezza sono vari. Il sottinteso politico dell’opera emerge espressamente quando Rezza fa una battuta contro “Yankee di Merda”, battuta allusiva alla pluto-democrazia americana o ancora contro la violenza sessuale, l’eutanasia, la lotta proletaria. Le frecciatine di Rezza sono anche contro la nostra più grande e fasulla comfort zone: la famiglia, in realtà, luogo di malessere psichico e sociale.

Lo  spettacolo teatrale che ci si presenta è dispotico, non prevede contraddittorio.

Nonostante sul palco tanti attori, è lui, l’unico a tenere la scena, quasi un monologo e gli attori, senza mai assumere un ruolo specifico, entrano ed escono da punti diversi del palcoscenico. I sette attori in scena si muovono come marionette stordite dalle sue parole: li chiama all’appello per decidere chi si deve presentare a chi, chi deve stringere la mano a chi il tutto in un contesto di ribellione e rabbia, contro l’umano e il divino( la famosa hybris dei Greci). E di qua una serie di gag infinite come quella della presentazione delle famiglie dei fidanzati, una performance che dura circa un terzo dello spettacolo, con la ripetizione di nomi e nomignoli dei parenti in maniera ossessiva,  deridendo i “cerimoniali” familiari e sociali.

O ancora la gag con cui invita ad entrare dalla porta le donne, simulandosi il   “ginecologo” di Bari con evidente allusione a fatti realmente accaduti.

Ci sono altri due momenti nei quali l’attore esprime efficacemente  la sua idea della hybris: la scena del  varco metal detector che costringe Rezza a spogliarsi nudo sul palco, senza alcun stupore del pubblico, perché quel  bip che suona incessantemente al passaggio altro non è che l’uomo, il muro che permette a chi non passa, a chi resta al di là, di diventare non visto, non visibile e dunque inesistente. “ero io che facevo bzzz passando”. Geniale.
L’altra scena alquanto inquieta, su cui  però il pubblico reagisce in modo indifferente quasi  naturale è nel simulare un contatto sessuale con un paio di spettatrici in sala: una provocazione, che non  ottiene  alcuna opposizione, come se la funzione  del protagonista gli permetta a ragione qualsiasi libertà.

La tracotanza umana , dunque, a far da sfondo allo spettacolo, la superbia appunto espressa in una energica interpretazione e in esuberante, tracotanza intelligentemente recepita da chi nel pubblico quella tracotanza la detesta! e complice ride con Rezza.
L’interpretazione di Rezza si conclude con una scena in cui il linguaggio si deforma in fischio. Un fischio del quale capiamo nonostante tutto ogni “parola”: bestemmie, invettive al divino. A queste segue il finale, in cui ogni porta sbattuta ha il potere di una fucilata che stende, uno ad uno, al suolo, gli altri interpreti.

Uno spettacolo sconvolgente, si può uscirne seriamente scossi. Ma non è detto che sia un male se ogni tanto qualcuno ci sbatte in faccia l’amara realtà, se qualcuno  un po’ anarchico, ci scombussola le  nostre misere certezze.

In fondo quello di Rezza non è il teatro “normale”: è il teatro di  ricerca e a ben guardare il loro è un lavoro politico in cui analizzano come stiamo  e come siamo tra le mura domestiche e con lo Stato confinante, come ci rapportiamo con l’altro sesso, come viviamo la morte e, come restiamo indifferenti e silenziosi  a chi  ci coinvolge in azioni insensate, come accade ai suoi attori sbattuti da una parte all’altra del palco, senza reagire.

RezzaMastrella  provocano e ci riescono, mostrando sia sul palco, quanto in  generale nella nostra società manchi la reazione al sopruso: più facilmente reagiamo con una imbarazzata risata, piuttosto che una presa di distanza e una ferma protesta. Perché siamo vili!

Testo e foto di Marcella Squeo (riproduzione riservata)

Marcella Squeo

La dottoressa Marcella Stella Squeo è laureata in Giurisprudenza è una giornalista pubblicista e si occupa di cultura, spettacolo, musica e di beneficienza e volontariato facendo parte di diverse associazioni di settore.