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Don Luigi Sturzo, uno dei più importanti protagonisti del cattolicesimo democratico del ‘900 diceva: “Non c’è libertà dove c’è menzogna perché la libertà è figlia della verità”. Un pensiero che appare calzante quando si vogliono fare delle osservazioni sul libro dello storico napoletano Gigi Fiore, precisamente Luigi Di Fiore, dal titolo edito da Utet. Sono pagine diverse dal solito dove si ha la sensazione concreta di quale strada sia veramente da percorrere per arrivare alla verità, una verità che da sempre appare necessaria per chiudere un brutto capitolo della nostra storia italiana, in particolare di quella del Sud. Un periodo storico, quello post-unitario da sempre dibattuto da scrittori e storici attuali appartenente alla categoria del pensiero dominante da cui, nelle proficue letture, si avverte da subito quella strana sensazione di dover dare prevalenza a un copione ben preciso. Far passare i briganti come dei lazzaroni, uomini violenti che uccidevano per dare forza e vigore solo al proprio egoismo egocentrico. Persone che utilizzavano una artigiana strategia militare per conseguire possibili privilegi, cercando, fin dei conti da ex Borboni, in molti casi di pulire il proprio casellario giudiziario. Invece Di Fiore racconta una storia diversa che appare molto vicina alla verità. Una storiografia ufficiale che ha dipinto a lungo le truppe piemontesi come un esercito di liberazione, strumento di riscatto per tutti i “cafoni” del Sud. Invece, da subito, quei militari si dimostrarono una vera e propria forza di repressione a difesa di una dominazione violenta, statale e di classe, con metodi che fornirono ulteriori argomenti a una rilettura storica del processo di unificazione politica della penisola. Una storia di miseria, di soprusi continui, da parte di latifondisti, proprietari terrieri, che da Gattopardi volevano continuare a prevalere nei confronti della classe contadina, quest’ultima alla ricerca continua di un pezzo di terra per dare dignità alla propria famiglia. Chiare le parole di Donatelli Crocco in carcere al capitano Massa che raccoglie il suo racconto per farne poi un libro: “Conosco persone che, dopo la caduta del potere borbonico, si misero a capo della reazione, ebbero nelle loro mani migliaia di scudi, segretamente iniziarono con me, perché colla mia barba sollevassi le popolazioni, e poscia fingendosi liberali tradirono Francesco II come prima avevano tradito Vittorio Emanuele”. Tra tante pagine vale la pena soffermarsi a quelle finali dove alla fine della guerra, dal parlamento di Torino emersero le prime interpretazioni coscienti del brigantaggio come guerra sociale e strumento di inconsapevole conflitto di classe. Una guerra civile utilizzando oltre cento mila soldati costata oltre ventidue milioni e tanti morti per sentenziare alla fine la probabile sconfitta di coloro che consideravano i briganti uomini violenti? Alla fine vuoi vedere che saremo costretti a sostenere che i briganti non erano dei capibanda ma eroi popolari, rivoluzionari romantici costretti a combattere contro un governo miope e tiranno

Oreste Roberto Lanza

Oreste Roberto Lanza

Oreste Roberto Lanza è di Francavilla Sul Sinni (Potenza), classe 1964. Giornalista pubblicista è laureato in Giurisprudenza all’Università di Salerno è attivo nel mondo del giornalismo sin dal 1983 collaborando inizialmente con alcune delle testate del suo territorio per poi allargarsi all'intero territorio italiano. Tanti e diversi gli scritti, in vari settori giornalistici, dalla politica, alla cultura allo spettacolo e al sociale in particolare, con un’attenzione peculiare sulla comunità lucana. Ha viaggiato per tutti i 131 borghi lucani conservando tanti e diversi contatti con varie istituzioni: regionali, provinciali e locali. Ha promozionato i prodotti della gastronomia lucana di cui conosce particolarità e non solo.