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Quasi due ore di tensione ininterrotta, il 5 febbraio scorso, nel teatro del carcere di Lecce.  Con l’aria dimessa di un affettuoso nonnino e con la padronanza di linguaggio che gli compete, il detenuto-cantastorie, davanti al pubblico in sala, muovendosi a passi felpati, introduce quanto si svolgerà sulla scena: la rappresentazione di una storia, o meglio, della fiaba dal titolo “123: La Bella e la Bestia”.  È, questo, il frutto del Quarto Studio del Collettivo “Rosa dei Venti”; gruppo fondato da Luisa Ruggio, scrittrice e giornalista, che dal 2017, attraverso un lavoro   volontario, guida il laboratorio di scrittura Mondo Scritto, attivo in residenza artistica quotidiana, nella biblioteca della sezione maschile di Borgo San Nicola.

Dalle quinte fanno ingresso sul palco gli attori-autori-detenuti; in calzamaglia nera, a piedi nudi per tutta la durata della rappresentazione, la quale si svolge prevalentemente come pantomima, accompagnata da una appropriata colonna sonora. Ricchi di simbolicità i due colori fondamentali in scena, nero e rosso, in forte contrasto tra loro.  Il primo (calzamaglie  nere, neri gli arredi di scena) richiama il buio, l’ignoto, il bosco, la paura, ma anche l’odio, la cattiveria, la violenza, la morte; l’altro riporta al colore del sangue, della vita, del coraggio,  dell’eroismo, ma anche dell’amore,  del martirio e della gloria.  E se anche l’impressione che a dominare la scena sia il nero (l’ignoto, la prigione, la sofferenza, la pena), vero è pure che il rosso è più dinamico e più versatile, ora nella forma di lunga striscia di tela che si dipana  a protezione dagli attori-detenuti, ora come fune (la striscia, attorta su stessa) che li unisce e rafforza in gruppo solidale, ora come simbolo d’amore trionfante sulla morte (e sull’egoismo!): “Bella, a Bestia per terra agonizzante chiede che cosa può fare per lei e quella risponde di volere solo un bacio. Bella, che non badava alle fattezze esteriori, ma alla bellezza dell’anima di Bestia, non indugia, la bacia: ed ecco il miracolo! L’amore puro, disinteressato, tutto per l’altro, vince le trappole dell’incantesimo e riporta  Bestia nelle sue forme naturali: il giovane principe”. 

La parola “amore”, oggi o inflazionata, o “stonata” in bocca alla maggior parte della gente,  nella rappresentazione assurge a valore da raggiungere, lottando contro ignoranza,  pregiudizi, egoismo, discriminazione, esclusione, odio, violenza, assassinio. Emblematici, in tal senso, i movimenti a scatti delle braccia e dei pugni chiusi e minacciosi, proiettati nel vuoto, ma in realtà contro quegli “invisibili” obiettivi “neri”. Gesti e movimenti, invece, piú calmi, armonici e lenti accompagnano parole cadenzate a mo’ di ammonimento e insieme d’auspicio: “Odiamoci di meno, amiamoci di piú!”.  E, intanto,  riappare il colore rosso a dominare la scena nella forma di un finissimo indumento femminile, viva espressione della potenza dell’Amore.   

La rappresentazione scenica, insomma, è ricca di stimoli alla riflessione, di forti suggestioni e profonde emozioni che, letteralmente, catturano il pubblico, il quale, per parte sua, dimostra evidente coinvolgimento in un silenzio quasi religioso. A tratti, la grave atmosfera viene rotta, con il loro sfavillio di gemme incastonate nel racconto,  da coraggiose rivelazioni del vissuto personale di singoli attori-detenuti, rivelazioni-confessioni che giungono direttamente all’anima dei presenti, inchiodandoli in un muto stupore; sembra che dicano, infatti, “i panni sporchi si lavano in …pubblico” per giungere alla vera liberazione.

Piú che una rappresentazione scenica, i protagonisti intendono offrire alla società civile una serie di messaggi, elaborati grazie a processi coraggiosi d’introspezione individuale e studio collettivo, successivamente filtrati attraverso l’arte e la letteratura. Messaggi di umanità, civiltà, rispetto della persona e della sua mai violabile dignità. Se è giusto che chi sbaglia deve pagare per l’errore, volontariamente commesso oppure no, non è civilmente accettabile che la pena debba avere i colori primitivi della vendetta, e della vendetta di Stato.  

“La punizione non dovrebbe esistere” (intendendo il termine punizione come gratuita imposizione di dolore), disse in altra circostanza uno dei protagonisti di questo benemerito Collettivo, riportando alla luce quello splendido pensiero della morale antica (Seneca: “non si addice alla persona saggia avere in odio le persone che sbagliano”), ulteriormente nobilitato dal cristianesimo (Sant’Agostino: “interficite errores, auxiliamini errantibus” – odiate a morte gli errori, ma aiutate a correggersi chi sbaglia). Ho definito benemerito il Collettivo, perché con grande fatica, dedizione, convinzione e coraggio è impegnato nello studio per una migliore conoscenza della propria e dell’altrui personalità, con dei risultati concretamente assai positivi. La punizione può ben essere rappresentata da un’attività alternativa, mirante innanzi tutto a far sentire in chi sbaglia il peso del male commesso, ma anche necessariamente per consentirgli di non disperdere “l’umanità buona di cui ognuno è portatore”, come sostiene lo scrittore Gioacchino Criaco nella sua “Cronaca di una giornata del congresso di Nessuno Tocchi Caino nel carcere di Opera” (il Riformista, 24/12/2019, pp.1+3); il quale, assai opportunamente approfondendo, si dice convinto che: ”…per migliorare il carcere serva migliorare quelli di fuori, dargli la possibilità di essere migliori, perché non sanno davvero quanto inutile dolore, oltre ogni necessità, venga inflitto a quelli che stanno dentro. Non potranno mai sapere quanta selvatica primordialità contengano i durissimi regimi carcerari di un Paese che si sente troppo buono”!

Già, riecco il villaggio della fiaba. Con la sua imperante ipocrisia e atteggiamenti di altezzosa distanza, con la diabolica manipolazione della verità e il pervicace contrasto al diritto umano alla conoscenza, il villaggio continuerà a tenere prigioniere tutte le persone, fino a quando, senza alcun tornaconto immediato o remoto, esse non avranno scelto l’Amore, quell’Amore che consente, amando, di essere amati, di sentirsi liberi, onorando l’altrui libertà.

Comprensibili ragioni di ordine pubblico impediscono che questa rappresentazione venga replicata in altri luoghi al di fuori del carcere; ma, in virtú della sua alta valenza educativa, essa merita di essere conosciuta e meditata, in special modo dai giovani delle scuole della nostra provincia (come già accade), con visite concordate tra le autorità competenti (e, comunque, quando l’attuale emergenza sanitaria, diffusa in varia consistenza in tutto il mondo, sarà null’altro che un triste ricordo).

Michele Traversa

Direttore responsabile e Editore di LSDmagazine. Esperto di turismo, spettacolo, gastronomia e tecnologia. Attento alle strategie social media e preparato all'interazione tra gli strumenti che questi offrono e la diffusione dei loro contenuti. Collabora con le principali riviste del settore turistico, italiane e straniere, autore di libri e documentari di viaggio e di mostre fotografiche.