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"venereLa vita fa di noi quello che siamo in un momento imprevedibile.” (Leopold von Sacher-Masoch)

I am tired, I am weary, I could sleep for a thousand years, a thousand dreams that would awake me, different colors made of tears.” (Velvet Underground)

Tra le adolescenziali letture proibite che molti di noi hanno clandestinamente condiviso, un posto di tutto rilievo era stato senza dubbio guadagnato sul campo dalla produzione letteraria di Leopold von Sacher-Masoch, autore austriaco vissuto a cavallo del 1800 e morto nel manicomio di Mannheim dove era stato rinchiuso dalla moglie per parafilia, la patologia che successivamente, proprio in suo “onore”, fu denominata masochismo; tra quei libri si stagliava il romanzo “Venere in pelliccia”, inserito nella raccolta “L’eredità di Caino”, che aveva la velleità di affrontare la storia della civilizzazione, e pubblicato nel 1870 (!). Vi si narravano le singolari vicende amorose di Severin von Kusiemski, un nobile galiziano, e della giovane, ricca, smaliziata e bellissima (e – ci sia concesso, in ossequio alla sua scelta di vita votata alla ricerca del piacere e del godimento – particolarmente allegra) vedova Wanda von Dunajew, cui l’uomo, in segno di pura venerazione, quella stessa che Proust nella “Recherche” definiva “il sentimento che tributiamo sempre a coloro i quali esercitano senza freni il potere di farci del male”, si offre, in qualità di sposo o, semmai, di schiavo, confessandole la sua inconfessabile propensione psichica, causata da un trauma infantile, ad associare il piacere a condizioni di sofferenze e maltrattamenti fisici e di mortificazioni ed umiliazioni psicologiche, giungendo sino a paragonarsi blasfemamente ai Martiri che raggiungono l’estasi durante il loro estremo sacrificio. Wanda, conscia della propria incostanza affettiva, gli propone di sottoscrivere un contratto in cui è prevista la convivenza per un anno, accettando, dopo essere stata in principio riluttante, di sottoporlo ad ogni tipo di crudeltà, riducendolo al suo servo personale, ad una sua proprietà, finanche ribattezzandolo Gregor per spogliarlo, oltreché dei suoi averi, anche del suo nome, e minacciandolo di morte, di cui nessuno potrebbe accusarla in virtù di una lettera in cui lo stesso Kusiemski ha dichiarato il proprio intento suicida. La malsana relazione giunge al termine solo quando Wanda farà frustare il suo spasimante dal rude ufficiale greco Alexis Papadopolis, di cui è innamorata, di fatto liberando Severin dal suo giogo e, nel contempo, guarendolo dalla sua malattia, nella rinnovata convinzione che “chiunque permetta lui stesso di essere frustato, merita di essere frustato”. Solo dopo la morte dell’autore, Aurora von Rümelin, moglie dello stesso dal 1873 e per una decina d’anni, celandosi sotto lo pseudonimo di Wanda (ancora!) von Sacher-Masoch, ha dato alle stampe un libro di memorie, confermando quel che si era sempre sospettato: “Venere in pelliccia” è un romanzo fortemente autobiografico, in cui Kusiemski era lo stesso Sacher-Masoch, Wanda von Dunajew era Fanny Pistor, anch’essa scrittrice, e Papadopolis era l’attore italiano Salvini, mentre la fine della torbida storia d’amore tra i protagonisti non portò, in realtà, alcun giovamento alla psiche di Masoch, che continuò ad essere perdutamente attratto dalla dominazione, dalla frusta e dalle pellicce.

Ecco, questa troppo a lungo celata e taciuta cultura, a metà tra lo scientifico e l’erotico, acquisita negli oziosi pomeriggi giovanili, e che oggi abbiamo qui avuto la gioia inaspettata di poter sfoggiare, ci è stata quasi del tutto inutile allorquando ci siamo accostati alla messa in scena della “Venere in pelliccia”, la produzione di Pierfrancesco Pisani, Parmaconcerti e Teatro di Dioniso che ha affollato per una – purtroppo – sola replica pomeridiana e domenicale il Teatro Palazzo di Bari nell’ambito del suo interessantissimo cartellone annuale, tratta non dal discusso capolavoro letterario bensì dalla sagace commedia teatrale – che a quello comunque si richiama – di David Ives, immortalata a perenne memoria nel film del 2013, che ebbe lo stesso Ives come co-sceneggiatore, uno dei più recenti tra quelli partoriti dal genio di Roman Polański, qui ripreso pedissequamente nella traduzione di Masolino D’Amico per la regia di Valter Malosti e l’interpretazione dello stesso Malosti e di Sabrina Impacciatore.

La trama è nota. In una notte buia e tempestosa, un noto regista sta per abbandonare la ormai deserta sala teatrale in cui per tutto il giorno si sono succeduti i provini di uno stuolo di pseudo attrici, alla ricerca della ideale protagonista del suo adattamento della “Venere in pelliccia” di Masoch, la sua Wanda von Duajew, quando irrompe una giovane donna, affascinante quanto provocante, che, pur affermando di conoscere la “Venere in pelliccia” solo attraverso il celeberrimo brano dei Velvet Underground di Lou Reed e Nico, lo prega di farle fare la sua audizione, nonostante le – appena – tre ore di ritardo. Il regista, dapprima riottoso, cede alle insistenze della sconosciuta, che peraltro si chiama Wanda come la protagonista, concedendole di provare la parte direttamente con lui; la donna, che, entrando ed uscendo ininterrottamente dal personaggio, si rileverà molto più arguta, colta, preparata ed intelligente di quanto volesse far credere, ed, infine, di ben altra entità e, finanche, natura da quella prospettata, instaurerà un gioco al massacro in cui solo uno prevarrà.

Ma se in Polański l’operazione era più che sfacciatamente indirizzata a farsi elegiaca arringa a difesa dell’universo femminile e femminista, forse per – chi può dire se e quanto tardivamente – autodenunciarsi, autoscagionarsi ed, infine, autoassolversi dalla annosa ed irrisolta vicenda della accusa di violenza sessuale ai danni della tredicenne Samantha Geimer, elemento autobiografico evidenziato dalla perfetta corrispondenza fisica – che era anche un richiamo allo sdoppiamento Masoch / Kusiemski del romanzo – tra il regista polacco e l’interprete maschile Mathieu Amalric, quasi una fotocopia, un clone del giovane Polański, nella trasposizione, la prima in Italia, di Malosti, ottimamente supportato dalle scene e dal disegno luci di Nicolas Bovey, dal suono di G.U.P. Alcaro ed, infine, dai costumi di Massimo Cantini Parrini, che talvolta richiamano un altro caposaldo erotico come “Histoire d’O” o finanche il capolavoro pasoliniano “Salò”, vengono risaltate – grazie anche alla maestria degli interpreti – tante altre chiavi di lettura, non tutte di facile lettura (“Tutti siamo facilmente spiegabili, ma restiamo inestricabili” avrebbe detto Masoch).

Ovviamente anche qui è presente e centrale l’eterna lotta tra uomo e donna, ma il gioco di specchi, la macchina di rimandi, di contrapposizioni e coincidenze, di collisioni ed incontri, di corrispondenze d’amorosi sensi ed esplosioni di rancorose diatribe, è assolutamente perfetta e, servendosi di una – forse solo apparente – aporia, Malosti realizza una analisi assolutamente compiuta e tagliente, in cui finalmente la donna avrà la sua vendetta, la sua riabilitazione, il suo riscatto, la sua redenzione, forse la sua resurrezione dopo secoli di crocifissione. E la sovrapposizione tra autore / adattatore, interprete e personaggio, che – in assenza di un Amalric – è ben evidenziata dalla decisione di battezzare “Valter Malosti” il malcapitato regista della finzione, lungi dall’avere i sussulti espiatori polańskiani, se non per la sola appartenenza al genere maschile, qui si manifesta, a nostro modesto parere, per richiamare la croce e la delizia del teatro stesso; utilizzando l’espediente del “metateatro”, del teatro nel teatro, del teatro che riflette su di sé e si fa autoanalisi, che diviene metafora di se stesso, Malosti sembra voler definitivamente distruggere la convenzionale “quarta parete”, portando in scena quella schizofrenia sana che – inutile nasconderlo – talvolta prende anche gli attori, quel corto circuito in cui non c’è più uomo o donna, non c’è regista o attrice, ma – azzardiamo – solo la – finalmente – libera rappresentazione della personale esperienza di dissociazione, conflitto e disgregazione psichica dell’io dell’autore (Masoch, per intenderci), e, forse, del suo inconfessabile e rimosso inconscio, di quell’intimo caos psicologico di cui Wanda stessa potrebbe essere una proiezione. Diceva Masoch: “Credo che ogni creazione artistica si sviluppi nello stesso modo con il quale questa femmina sarmata si è formata nella mia immaginazione. Dapprima esiste nello spirito di ciascuno di noi una disposizione innata ad afferrare un soggetto che sfugge alla maggior parte degli altri artisti; poi si aggiungono a tale disposizione le impressioni della vita che presentano all’autore la viva immagine della quale esiste già il prototipo nella sua immaginazione. Questa immagine lo intriga, lo seduce, lo cattura poiché viene incontro alla sua disposizione e corrisponde alla sua natura d’artista che, allora la trasforma, e le dà un corpo e un’anima.”; così quando, al termine dello spettacolo, il protagonista si troverà a condividere la condanna che fu di Penteo in preda alle Baccanti, non più mosse da Dioniso (ricordate il citato nome della Compagnia?) ma dalla divina Afrodite / Venere, discesa sulla Terra per vendicarsi degli uomini, in una immagine che sembra rubata al Martirio (e qui torna Masoch) di San Sebastiano del Mantegna, non tardiamo a pensare che sia l’autore stesso che, lanciando il suo grido di dolore, che diventa un tutt’uno con le note wagneriane, sta capitolando sotto i colpi del suo personaggio che gli si è rivoltato contro, intendendone prendere il sopravvento.

Certo che un’operazione del genere, scevra da stucchevoli e ridondanti sermoni, può essere realizzata solo con l’apporto di ironia ed acume costanti, doti presenti in dosi massicce negli eccelsi adattamento e regia malostiani, e di due grandi, eclettici e versatili protagonisti. Ebbene, se l’Arte del primattore è già stata da noi lodata di recente su queste stesse telematiche pagine (non si è ancora spento il nostro applauso per il suo pirandelliano “berretto a sonagli”) anche per saper trarre il meglio dalle sue interpreti, lasciateci elogiare senza mezzi termini la prova di Sabrina Impacciatore, stella di accecante luminosità nell’italico panorama attoriale; la sua Wanda, coatta e burina ed, allo stesso tempo, aristocratica e superba, vale molto di più – credeteci – di quella cinematografica, che aveva le fattezze della bellissima Signora Polański, Emmanuelle Seigner, con cui gareggia in eros, ma che senza dubbio surclassa in simpatia e versatilità, riuscendo, con la sua recitazione, a trasportarci nel blindato regno dell’istinto che ogni uomo vuole difendere, mettendoci di fronte ad uno specchio che riflette i nostri stessi segreti, il mondo imperscrutabile che dimora in ognuno di noi: indomabile forza della natura, sfrontata e ritrosa, sicura di sé e bisognosa di accoglienza, credibile tanto nella irriverente ignoranza quanto nella profonda sapienza, umana e carnale come una prostituta dei sobborghi eppure eterea ed impalpabile come un’antica sacerdotessa delfica, è lei la seduzione nel suo distillato più puro, è lei la perfetta incarnazione della nostra Venere postmoderna.

Michele Traversa

Direttore responsabile e Editore di LSDmagazine. Esperto di turismo, spettacolo, gastronomia e tecnologia. Attento alle strategie social media e preparato all'interazione tra gli strumenti che questi offrono e la diffusione dei loro contenuti. Collabora con le principali riviste del settore turistico, italiane e straniere, autore di libri e documentari di viaggio e di mostre fotografiche.