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"fp1"Vivere, non riesco a vivere, ma la mente mi autorizza a credere che una storia mia, positiva o no, è qualcosa che sta dentro la realtà. Nel dubbio mi compro una moto (…): far finta di essere sani. Far finta di essere liberi, sentirsi liberi, forse per un attimo è possibile, ma che senso ha se è cosciente in me la misura della mia inutilità. Per ora rimando il suicidio e faccio un gruppo di studio (…): far finta di essere sani.”.

Le parole di questo capolavoro del Maestro Giorgio Gaber non ci hanno mai abbandonato, mai, ma da un po’ sono riaffiorate nella nostra mente in tutta la loro deflagrante potenza. Ed è solo uno dei tantissimi risvegli determinati dalle Fibre Parallele, la compagnia barese da tempo punto di riferimento dell’intera drammaturgia nazionale, e dal loro più recente spettacolo, La beatitudine, che, per nostra somma fortuna, è andato in scena al Teatro Abeliano di Bari nell’ambito dell’annuale cartellone del Teatro Pubblico Pugliese. Una pièce – diciamolo subito – di sì rara bellezza e molteplici chiavi di lettura che – a distanza di parecchie ore dalla visione – rende ancora difficile affidare alla pagina telematica le sensazioni, le emozioni, anche solo gli impulsi che ne sono derivati; perché raccontare de La beatitudine vuol dire riferire di noi, del nostro quotidiano, di quel senso di irrisolto che ormai accompagna ogni nostro incerto passo."fp2"

Il coinvolgimento è totale sin dai primi istanti, quando, nella sala illuminata, gli attori, sul palco a sipario aperto, sembrano invitarci a prendere il nostro posto nella rappresentazione stessa, quasi a voler immediatamente eliminare il sottile confine tra palco e realtà, tra finzione e verità: “Eccoci qua. Siete qui davanti a me, ci siete, siete reali. Vi vedo. Io ci sono mi posso toccare, se mi do uno schiaffo mi fa male. Se tocco questa sedia, la sento, esiste davvero. Tutto è iniziato a succedermi quando per la prima volta ho pensato: e se non fosse così? Se tutto ciò non fosse reale? Ho iniziato a confondere le cose, ho iniziato a non fare più differenza tra quello che è reale e quello che non lo è. Non sono pazza. Almeno non del tutto. Non è una questione di fantasmi o di presenze soprannaturali. È tutto frutto di ciò che sono. Di ciò che siamo. Esseri fragili. Imperfetti.” recita il magnifico prologo, iniziando a tratteggiare un’iperbole che si svelerà solo nell’altrettanto stupendo epilogo.

Nel mezzo, quattro personaggi in cerca di vita, quattro solitudini che si agitano maldestramente e nervosamente su di uno spazio indefinito, senza contorni, esseri umani solo per memoria, anch’essi indefiniti, senza più colori, oscuri reduci di una esistenza sfiorata, ipotizzata, forse solo sognata, che talvolta affiora non a dare nuova speranza o ad indicare una via, semmai a creare crepe, solchi sempre più invalicabili nella già provata anima; ma se, come diceva Giordano Bruno, “l’ignoranza è la madre dei sensi beati”, i "fp3"nostri protagonisti decidono di ignorare la loro stessa insoddisfacente realtà, agognando, tendendo, aspirando quasi, ad un momento di inconscia, irrazionale, irresponsabile beatitudine che, al fine, si rivelerà effimera, fallace, menzognera persino.

“Ad un acuto dolore segue una più acuta fantasia” canta un altro nostro Maestro, Ivano Fossati; e senza dubbio deve essere così se Licia, per riscattarsi dalla traumatica esperienza dell’aborto, si costruisce una realtà sintetica, sintetizzandola nell’adozione di Cosimo, un pupazzo, un’intelligenza artificiale di spielberghiana memoria, un collodiano burattino incapace però di (tra)mutarsi in bambino nonostante le attenzioni della amorevole madre e del riluttante padre Riccardo, sposo dimenticato ed infine dimentico della sua stessa natura umana, che sceglie di consumarsi pur di non riconoscere la fine della sua esperienza coniugale, o se Danilo, costretto dalla distrofia muscolare ad essere schiavo tanto della sedia a rotelle quanto, e soprattutto, della anziana madre Lucia, entrambe impegnate con premurosa diligenza ad impedire qualsivoglia movimento, guizzo o sussulto del giovane, fosse anche quello sessuale, ha bisogno per sopravvivere di inventarsi un passato da podista, anzi da vero centometrista, immagine di chi vive la vita sino in fondo, bruciando piuttosto che spegnendosi lentamente.

Quando anche la fantasia non potrà più assicurare la sopravvivenza, occorrerà decidersi:"fp4" “continuare così – come cantava sempre Gaber – per i figli, per tutti, la risata davanti agli altri, tutto tranquillo, regolare, il tradimento piccolo borghese, la falsità, la commedia, la meschinità, e poi, e poi, e poi …” ovvero far cadere il velo, procurare l’implosione, lasciare che le coppie scoppino e si confondano, anche avvalendosi (e quanti di noi nella quotidiana realtà cadono ancora in queste trappole mentali) del sortilegio cialtrone ed illusorio del mago Cosma Damiano, nome che riporta immediatamente alla mente tanto i Santi Medici, probabilmente gli unici ritenuti capaci di operare una cura miracolosa per i dolori patiti, ma anche il figlio/pupazzo; quando opteranno per la seconda soluzione, incuranti anche della presenza di Cosimo (probabile richiamo al capolavoro neorealista di Vittorio De Sica e Cesare Zavattini “I bambini ci guardano”), allora, e solo allora, questi quattro pianeti, questi quattro isolamenti, questi quattro elettroni carichi di negative vibrazioni entreranno in collisione distruggendo l’atomo stesso che li ha generati, schegge impazzite di una realtà che si annienta e si frantuma come fossero i piatti del “servizio buono”, quello che si utilizza solo quando la presenza di ospiti richiede una patina di perbenismo, che, ormai, non ha più ragion d’essere e che può, pertanto, essere definitivamente distrutto. Ma è questa la realtà? O questa è la finzione? Ed è meglio conoscere il destino cui andiamo incontro o restare nella nostra beata inconsapevolezza? Tocca a Cosma Damiano, svelatosi finto mago raccontandoci un illuminante episodio della vita del suo mentore, vero mago e pastore, mostrarci le due vie, i due sentieri, ma senza indicare la giusta soluzione ad una equazione che, probabilmente, è irrisolvibile per definizione, lasciandoci in bilico sul precipizio, esitanti sul bivio, nell’irresoluta precarietà della nostra umanità, in un "fp5"messaggio finale che a noi ha suggerito mai sopiti né risolti interrogativi sulla interruzione dell’esistenza umana e sul nostro anelito di eternità: “è tutto nella vostra testa”, ripeterà più volte, prima di invitare gli attori – e noi con loro – ad alzarsi per andare a cena, infrangendo per una volta ancora, l’ultima, il muro che divide la scena dalla platea.

La prova recitativa di Licia Lanera, Lucia Zotti, Riccardo Spagnulo, Danilo Giuva e Mino Decataldo è a dir poco eccelsa, soprattutto in quell’ineffabile barcamenarsi tra la (dis)umana realtà (o presunta tale), che – spesso – ha gli spiccati accenti della baresità, e la finzione (o presunta tale), la fantasiosa e fantastica proiezione di sé in cui anche il linguaggio diviene ideale, compiuto, aulico; se nei primi riesce a far ridere anche delle nostre miserie, operazione senza dubbio ardua, è in questi secondi frangenti che l’impareggiabile scrittura di Riccardo Spagnulo si fa oltremodo ispirata, raffinata, solenne, lambendo se non addirittura incontrando la migliore poesia. La regia di Licia Lanera, supportata dalle ottime luci di Vincent Longuemare, è addirittura perfetta,"fp6" assolutamente tagliente, finanche aguzza, mai accondiscendente, talvolta giustamente asfissiante ed, al contempo, di raro ipnotismo, e seduce lo spettatore attirandolo in un vortice da cui non è possibile sortire se non dopo averne toccato il fondo, peculiarità che possono senza dubbio riconoscersi anche alla scelta musicale ricaduta sugli islandesi Sigur Ròs, cui fa da sapiente contraltare il finale affidato al mitico Rino Gaetano ed alla sua “Le beatitudini”. Tutto questo – e molto di più – fa sì che l’ultima opera delle Fibre Parallele possa essere considerata solo un altro tassello della loro indiscussa ed indiscutibile costante evoluzione che – crediamo – sia ben lungi dal poter essere considerata definita.

Michele Traversa

Direttore responsabile e Editore di LSDmagazine. Esperto di turismo, spettacolo, gastronomia e tecnologia. Attento alle strategie social media e preparato all'interazione tra gli strumenti che questi offrono e la diffusione dei loro contenuti. Collabora con le principali riviste del settore turistico, italiane e straniere, autore di libri e documentari di viaggio e di mostre fotografiche.