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"Ziguli"Se hai un figlio handicappato, due più due non fa mai quattro. Non puoi capire fino in fondo che cosa significhi vivere con un figlio disabile se non sei suo padre o sua madre. Con lui è come camminare in un prato pieno di margherite: non sai dove mettere i piedi, per paura di schiacciarle.” (Massimiliano Verga)

Quando si tratta il tema della disabilità, o, nei termini impostici dalla nostra società (finta) perbenista, del “diversamente abile”, si è – forse giustamente – sempre pervasi da un velo di benevola comprensione e comune afflizione, soprattutto quando si è in presenza di quanti vi convivono, che fa giungere i “non interessati” a pronunciare frasi sciocche e scioccanti – ove invece, a nostro modesto parere, si dovrebbe avere il coraggio di affermare tutta la propria inadeguatezza ad affrontare l’argomento – che osano equiparare l’handicap ad un dono, una cosa di cui, cercando di superare la nostra finita natura mortale, si dovrebbe essere finanche felici. È bene, dunque, che qualcuno ci spiazzi e ci confonda, mostrandoci anche il lato oscuro della luna, squarciando il velo dei facili giudizi, sollevando il pesante sipario e mostrandoci la realtà, senza pietismi ma anche senza alcuno spirito di rivalsa o di vendetta nei confronti dei “normali”, e neppure perpetuando un tentativo di affrancarsi dal dolore, dalla fatica e dalla frustrazione che implica la quotidiana condivisione con il malato, finalmente denunciando, a se stesso prima che al mondo intero, le (poche) luci e le (tante) ombre di un così inestricabile legame, di un rapporto assolutamente totalitario.

È quello che è riuscito a fare Massimiliano Verga, docente di Sociologia del diritto, con il suo libro edito nel 2012 “Zigulì. La mia vita dolce amara con un figlio disabile”, in cui ha raccontato i primi otto anni di suo figlio Moreno,secondo di tre figli, nato sano e colpito, dopo sole tre settimane di vita, da una lesione cerebrale che lo ha reso epilettico e lo ha privato della vista e della parola, e, per l’effetto, riescono, da cinque anni a questa parte, a realizzare ogni sera Francesco Lagi e Francesco Colella, rispettivamente regista ed unico interprete di “Zigulì”, la produzione dei Teatrodilina tratta proprio da quel testo, finalmente giunta al Teatro Abeliano come ultimo titolo dell’annuale cartellone dei Teatri di Bari per quanto riguarda l’ottima rassegna “To the theatre”, che ha goduto dell’irrinunciabile ed impagabile direzione artistica di Licia Lanera.

Su di un palco completamente vuoto – come peraltro accade spesso nelle stanze che ospitano tali disabilità – entra il protagonista della nostra storia, intento a mettere in ordine i piccoli giocattoli disseminati per terra, resti di una festa presumibilmente, e – più difficilmente – i pezzi della sua vita o, quantomeno, di quella parte di vita consacrata al servizio di suo figlio o, meglio, dell’handicap che ha trasformato suo figlio in un’entità sconosciuta, straniera ed aliena; il tappeto casalingo si trasforma così in un campo di battaglia su cui contare i sopravvissuti, come i tre palloncini colorati colmi di elio che, ancora inesplosi, occupano la scena (probabilmente rappresentazione dei tre figli del protagonista), e, soprattutto, raccontare il vissuto (Ma a chi? A se stesso? A suo figlio o ai suoi figli? Ad un dio assente e, forse, riluttante?), enunciare i fatti e le sensazioni in ordine sparso, senza alcuna soluzione di continuità, in una miscellanea di sentimenti che, non includendo la compassione, passerà dalla disperazione alla carità, dalla inadeguatezza alla cattiveria, dalla comprensione alla bestemmia, dalla tenerezza alla spietatezza, dalla fragilità alla crudeltà. Parole – e prima ancora pensieri – che fanno male per quanto risultano vere, che non disdegnano le offese (“Il tuo cervello è grande quanto una caramella zigulì”), che giungono sino ad annoverare l’omicidio/suicidio quale estrema soluzione, che mostrano tutta l’inadeguatezza dell’essere umano di fronte ad una prova sì disumana, che ce lo riconsegnano nudo ed indifeso non solo per le difficoltà che affronta in ogni istante ma anche per i sogni che ancora lo animano, che gli fanno sperare che tutto possa tornare in un attimo alla normalità, che questo atroce incantesimo si possa spezzare con un solo cenno del capo del ragazzo, che si possa tornare alla vita e ripensare a “questa vita” come ad un brutto incubo. Ma quando le illusioni verranno, come sempre, irrimediabilmente ed impietosamente disilluse, la risposta del protagonista sarà una affermazione di totale e rinnovato impegno, una dichiarazione d’amore che culmina nella splendida lettera/testamento indirizzata agli altri due figli (“Non posso pretendere che voi lo amiate come l’ho amato io, ma almeno provateci e, quando sarò morto, se non ci riuscirete, allora fate in modo che altri lo possano amare”) che legherà ad uno dei tre palloncini prima di consegnarlo al vento, quasi fosse un messaggio in bottiglia per qualcuno che si reputa molto lontano, e ad un volo libero, lo stesso che si era auspicato e mai si è avverato per il figlio sfortunato.

La regia di Francesco Lagi, ottimamente supportata dalla scarna scenografia di Salvo Ingala, dal disegno sonoro di Giuseppe D’Amato e dalla musica originale creata da Alessandro Linzitto, è essenziale ma assolutamente convincente, e Francesco Colella è semplicemente sublime, padrone della scena e di tutta la sua immensa Arte attoriale, alle prese con un monologo che ha in lui la perfetta incarnazione; per dare vita all’amore infinito che nasce da quel rapporto menomato, minorato per definizione ma più sano di tanti altri, Francesco si fa fine affabulatore e poliedrico clown, con la forza della parola che gareggia con quella del corpo, teso a rendere ogni gesto, anche il più straordinario, come fosse normale, pienamente credibile in ogni istante, così da non concedere al pubblico altro che la più completa condivisione, se non addirittura immedesimazione, con il personaggio. E lo spettacolo diviene un’esperienza indispensabile, che supera il confine tra palco e realtà ed inonda la sala, avvincendoci, insegnandoci un codice espressivo inedito che, invero, non è solo verbale o fisico, ma è qualcosa di indefinibile, che, passando attraverso il corpo, l’energia, la sensibilità dell’attore, costringe lo spettatore a riflettere ed a confrontarsi con il limite, con l’idea di non essere forti, infallibili, invincibili ad ogni costo, spingendoci in un vortice di emozioni da cui non si riesce a riaffiorare mai, neppure una volta tornati nelle nostre tranquille casalinghe esistenze.

Michele Traversa

Direttore responsabile e Editore di LSDmagazine. Esperto di turismo, spettacolo, gastronomia e tecnologia. Attento alle strategie social media e preparato all'interazione tra gli strumenti che questi offrono e la diffusione dei loro contenuti. Collabora con le principali riviste del settore turistico, italiane e straniere, autore di libri e documentari di viaggio e di mostre fotografiche.