Tempo di lettura: 7 minuti

"brasile"Da Nicola Mascellaro, nostro storico collaboratore riceviamo e volentieri pubblichiamo uno stralcio del suo ultimo libro Notti Magiche (Di Marsico Edizioni).

Il Mundial dunque torna in Sudamerica anzi, in Brasile, per la seconda volta dopo 64 anni.

Come mai dopo tanto tempo? Perché il Brasile, la terra dove il calcio è una religione, non si è candidata prima per ospitare il torneo mondiale? Ragioni politiche? Economiche?

Niente affatto! Il popolo carioca doveva semplicemente cancellare anche il ricordo di quel primo Mondiale perso in casa nel 1950: era una macchia indelebile su quella loro immacolata maglia bianca tanto che due anni dopo hanno dovuto cambiarla con la gloriosa ‘verde oro’ conquistando ben 5 titoli mondiali.

Ma cos’accadde di così traumatico in quel lontano Mondiale del 1950?

Il torneo carioca inizia il 24 maggio. Le nazionali iscritte avrebbero dovuto essere 16, ma all’ultimo momento si riducono a 13. Le ‘piaghe’ politiche, ideologiche ed economiche della seconda guerra mondiale erano ancora aperte.

Rinunciano la Scozia e la Turchia, l’India viene squalificata perché pretende di far giocare i suoi calciatori a piedi nudi com’era loro abitudine. Si dovette perciò rimaneggiare i quattro gironi e formare invece, due da quattro, uno da tre e un altro girone composto di due sole squadre.

L’Italia entra nel girone a tre squadre composto da Svezia e Paraguay; all’Uruguay va meglio perché ha come unica avversaria la Bolivia alla quale infligge 8 gol e va direttamente al girone finale. I gironi sono all’italiana: si gioca una sola gara. Chi fa più punti si qualifica al girone finale, anch’esso all’italiana. La squadra che realizza il massimo punteggio vince il titolo.

L’Italia avrebbe anche potuto aspirare al terzo titolo se il 4 maggio 1949 un tragico incidente aereo sulle colline di Superga a Torino, non avesse distrutto la squadra più forte del campionato italiano e forse d’Europa, zeppa di nazionali.

"brasile1"La disgrazia del ‘grande Torino’ finisce per condizionare la comitiva Azzurra che decide di fare il lungo viaggio in Brasile sulla motonave ‘Sises’. Partiti il 4 giugno da Napoli, arrivano a Rio, e poi a San Paolo, sedici giorni dopo. I calciatori sono stressati, stanchi e spenti. Sulla nave non hanno potuto allenarsi e i pochi palloni che si sono portati appresso, sono finiti in mare.

L’Italia affronta la Svezia il 25 giugno e, sconfitti per 3 reti a 2, sono in pratica fuori dal Mondiale. A nulla serve la vittoria sul Paraguay una settimana dopo perché alla Svezia è bastato un pareggio per passare il turno al girone finale.

Ma ai ‘leoni’ inglesi accade di peggio.

I ‘bianchi’ di Sua Maestà britannica sono alla loro prima esperienza in un Mondiale. Ai precedenti tre tornei non hanno inteso partecipare. Loro erano i ‘maestri’, gli inventori del calcio, non avevano nulla da imparare dal calcio sudamericano.

Favoriti dal sorteggio che li vede confrontarsi con il Cile, Stati Uniti e Spagna, i ‘leoni’ d’Inghilterra azzeccano il primo risultato, 2 a0 a Rio contro il Cile, ma perdono gli altri due incontri: 1 a 0 il 29 giugno nello stadio semivuoto di Belo Horizonte contro i cugini americani e altra sconfitta con la Spagna a Rio di fronte a 74mila spettatori quasi tutti d’origine spagnola.

L’assurda, imprevedibile sconfitta contro gli undici degli Stati Uniti pesa come un macigno, bruciare da far male sull’orgoglio degli inglesi. Quei ragazzi venuti da un Paese senza l’ombra di una cultura calcistica, quei figli di emigranti europei, per metà italiani, quei giovani volenterosi, quei ‘pellegrini’ che nella vita reale si guadagnano da vivere facendo mestieri diversi, alla prima occasione della loro vita si permettono il lusso di battere i maestri del calcio. Una vergogna, uno scandalo.

"brasile2"Dopotutto chi erano quei ‘calciatori’ che hanno così ‘brutalmente’ appannato l’aureola degli inglesi? Erano mestieranti, comparse in un mondo elevato ad arte: Charlie Colombo era macellaio; Gino Pariani, operaio in una fabbrica di lattine; Nicholas Diario, commesso in un supermercato; Harry Keough, un difensore d’origine polacca, postino; Joe Maca operaio in una ditta di carta da parati; Larry Gaetjens, il centravanti che segna l’unica rete della partita, lavapiatti in un ristorante di New York. Poi un insegnante di educazione fisica, due, tre altri calciatori con nomi italiani, fra cui Frank Borghi, il portiere, che lavora in un’impresa di pompe funebri. Gli unici calciatori che militavano in una vera squadra, erano i fratelli Eddie e John Souza di origini portoghese.

Una selezione raccogliticcia insomma, i soliti spacconi americani che invece di essere grati per aver avuto il privilegio di giocare con undici ‘maestri’, hanno avuto la sfrontatezza di vincere la gara demolendo, in un colpo solo, un secolo di storia del blasonato calcio anglosassone.

Quando l’arbitro italiano Generoso Dattilo fischia la fine del peggior incubo della nazionale inglese, i ‘leoni’ di sua Maestà escono dal rettangolo di gioco che sembrano undici fantasmi. Nessuno ha avuto il coraggio di alzare gli occhi sulla tribuna, nessuno ha voluto vedere i tifosi americani che sventolavano la loro bandiera a stelle e strisce.

Una figuraccia senza precedenti: «shame on you» mugugnarono i compassati tifosi al loro ritorno in Patria. I futuri, violenti ‘Hooligans’, che più tardi devasteranno gli stadi di mezza Europa, sono ancora in fasce!

"brasile4"Eppure le lacrime più amare di questo Mondiale non sono state ancora versate.

Il 16 luglio nel nuovo spettacolare stadio Maracanà di Rio de Janeiro, già zeppo di 173.850 spettatori paganti ma con oltre duecentomila presenti, tanti cuori palpitanti sui nove anelli del più grande tempio calcistico del mondo, quel 16 luglio tutti attendono i padroni di casa per l’ultima sfida mondiale: Brasile-Uruguay valevole per la Coppa del Mondo.

La selezione brasiliana è al settimo cielo, è in una condizione atletica strepitosa, considerata la migliore del torneo è arrivata alla finalissima rifilando sette reti alla Svezia e sei ai ‘diavoli rossi’ spagnoli;

I ‘Celeste’ uruguayani, invece, hanno gonfiato la rete della Bolivia per otto volte, ma con le semifinaliste, Spagna e Svezia, hanno ottenuto un pareggio e una vittoria di misura sulla forte formazione svedese.

Perciò, la classifica del girone, prima dell’incontro con l’Uruguay, è così composta: Brasile punti 4, Uruguay 3, Spagna 1, Svezia zero puçnti. Tutto sommato ai brasiliani basterebbe un pareggio per aggiudicarsi il titolo. Ma volevano vincere, dovevano vincere. Il Paese voleva, attendeva la vittoria della Seleçao fin dal 1938 in Francia ed erano stati programmati fastosi festeggiamenti.

La fiducia dei brasiliani poggia sul fattore campo e sui celebrati campioni che il selezionatore Fabio Costa ha messo insieme e preparato come una formidabile macchina da gol.

Fin dalla vigilia il Brasile nutre più di una speranza di vincere il mondiale. Tanto che entro la sera del 15 luglio nella sola Rio, all’epoca capitale del Brasile, erano state vendute oltre mezzo milione di magliette bianche con la scritta ‘Brasile Campione del Mondo 1950’. E il mattino del 16, i quotidiani hanno già preparato pagine e pagine di interviste alle maggiori personalità del paese e titoli celebrativi: ‘Il Brasile vincerà’, ‘La coppa sarà nostra’. Altri, invece, sotto una grande foto della squadra hanno un titolo che non lascia dubbi: ‘Questi sono i Campioni del Mondo’.

Anche l’Uruguay è una bella squadra, affiatata e compatta, sia pure apparentemente lontana dall’undici che vinse la Coppa del primo mondiale nel 1930. Ma sanno di non avere alcuna possibilità di vincerne una seconda, meno che mai qui, in Brasile.

Alla vigilia della sfida, Ademir Menezes, capitano e attaccante dei brasiliani, ha pronosticato una vittoria sull’Uruguay per 4 a 0 dimenticando, naturalmente il vecchio detto: «spesso si entra in un campo vincenti e si esce perdenti». In breve, per non girare il coltello nella piaga, i brasiliani, come gli inglesi, finiscono per pagare duramente la loro presunzione: i ‘Celeste’, guidati da un roccioso centrocampista, Obdulio Varela, conducono una gara impeccabile, riescono a ‘rompere’ ogni fraseggio dei brasiliani e s’impongono sugli ormai frastornati funamboli del Brasile.

"brasile5"Accade tutto nel secondo tempo: a 2’ dall’inizio segnano i brasiliani. Un tripudio. La tifoseria dentro e fuori lo stadio inizia i festeggiamenti. Diciannove minuti dopo arriva la prima doccia fredda: Juan Alberto Schiaffino, detto ‘pepe’, raccoglie un lancio di Varela e gonfia la rete del Brasile, 1 a 1. Niente panico, c’è ancora tempo.

E c’era, infatti, ma è tutto per gli uruguayani che sembra abbiano ipnotizzato i giocolieri del Brasile. Al 34’ un nuovo passaggio smarcante di Varela, il mattatore della partita, il migliore in campo, libera Edgardo Alcide Ghiggia, una scheggia nera impazzita che semina il panico ogni volta che entra nella metà campo del Brasile, e chiude la partita: Brasile-Uruguay 2 a 1.

«Avevo finito di preparare il mio discorso – racconta il presidente della Fifa Jules Rimet – che mancavano pochi minuti alla fine della partita. Brasile e Uruguay stavano pareggiando. All’improvviso mentre attraversavo un corridoio con il discorso in una mano e la statuetta nell’altra, il tifo infernale s’interruppe. Alla salita del tunnel un desolante silenzio dominava lo stadio colmo fino all’inverosimile. Salii sul palco d’onore e mi ritrovai da solo con la coppa in braccio, senza sapere che fare. Non so come, ma capii che l’Uruguay aveva vinto e appena scorsi il capitano della ‘Celeste’, Obdulio Varela, quasi furtivamente gli consegnai il trofeo, gli strinsi la mano e me ne andai senza riuscire a dirgli neanche una parola di congratulazioni. Niente inno nazionale, né guardia d’onore, né discorso, né cerimonia della premiazione. Il Mondiale era finito ed il Brasile, in casa propria, nel più grande stadio del mondo, non aveva saputo vincere».

Una catastrofe, ‘la disgrazia è caduta sul Brasile’ si gridava, un dolore atroce, una lunga, tormentosa fitta al cuore colpisce i brasiliani: era crollato il mondo. I pochi tifosi uruguagi presenti al Maracanà, imbaldanziti per la vittoria, invadono il lungo, magnifico tappeto verde di gioco inseguiti dai brasiliani. Sugli spalti vuoti decine di tifosi vengono trovati privi di sensi, alcuni erano morti d’infarto, tantissimi i feriti di armi da taglio; nelle ore successive l’incontro-scontro gli ospedali di Rio si riempiono di tifosi colti da malore, altri si suicidarono per aver scommesso e perso somme ingenti.

La Federazione calcistica brasiliana proclamò tre giorni di lutto nazionale. Il commissario tecnico Flavio Costa è costretto a lasciare il Paese e rifugiarsi in Portogallo. È stato un disastro senza precedenti. È la peggiore tragedia nella storia del Brasile titolano i quotidiani; Questa sconfitta è stata la nostra ‘Hiroshima’. Ma la cronaca più drammatica dell’accaduto è dello scrittore Jose Lins de Rego che sul quotidiano Il giornale dello sport scrive: «ho visto un popolo a testa bassa, con le lacrime agli occhi, senza parole, lasciare lo stadio come se tornasse da una funerale di un padre amatissimo. Ho visto un popolo sconfitto, senza speranza. Tutte le emozioni della fase iniziale della partita si sono ridotte a cenere di un fuoco spento».

Vengono cancellate tutte le gare ufficiali e quando due anni dopo, il Messico propone di disputare una gara amichevole a Rio, il Brasile cede, ma sfoggia, per la prima volta, una nuova maglia: la verde-oro.

Da allora il Brasile ha vinto quasi tutto.

La vecchia maglia bianca, la ‘sfortunata’, finisce in soffitta tra i pochi ricordi di un periodo infelice. Ma quella ‘macchia’ di quel lontano 16 luglio 1950 al Maracanà, è ancora lì, nella storia del Brasile.

Riproduzione riservata

Michele Traversa

Direttore responsabile e Editore di LSDmagazine. Esperto di turismo, spettacolo, gastronomia e tecnologia. Attento alle strategie social media e preparato all'interazione tra gli strumenti che questi offrono e la diffusione dei loro contenuti. Collabora con le principali riviste del settore turistico, italiane e straniere, autore di libri e documentari di viaggio e di mostre fotografiche.