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"Un’oraChi è il montatore? Ma su via… è colui che secondo un preciso schema di fabbricazione realizza un unico complesso funzionante, no? Definizione un po’ asettica diremmo, poco si adatta alla cinematografia dove lo specialista che nella costruzione del film seleziona le inquadrature e il loro inserimento, in base al volere del regista e alla sequenza logica da seguire, sa che tutto è soggetto al divenire e all’interpretazione: è arte! E l’arte racchiude sorprese ed emozioni.  

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere, seppure telefonicamente, con Ilaria Fraioli, la montatrice dei film di Alina Marazzi, ma anche di altri film come La Rabbia, di Pier Paolo Pasolini rivisitato da Davide Ferrario, Tutto torna, Riprendimi, Italian dream… 

La protagonista della nostra intervista scelse di fare questo mestiere ancora sedicenne mentre frequentava il liceo scientifico. Il caso volle che ad un convegno, il cui tema era proprio “il montaggio”, lei si appassionasse a questo mestiere grazie alle parole di professionisti che, tra cui Roberto Perpignani, affermavano appunto: ‹‹Quello del montatore è un ruolo a metà strada, tra l’avere un approccio intellettuale e un approccio artigianale, che deve saper conciliare l’aspetto narrativo con quello tecnico-formale››. Questa definizione piacque talmente tanto ad Ilaria che pochissimo tempo dopo frequentava di già la scuola di montaggio. E fu una sorpresa per la sua famiglia, che non faceva parte del mondo cinematografico. 

Quando si riesce a dire “questa sequenza è la più azzeccata!” per la ricostruzione di una memoria personale o collettiva?

‹‹Quando tecnicamente diciamo “funziona”, e rispecchia un canone abbastanza predefinito, anche se poi fino all’ultimo momento sono necessari dei cambiamenti. E quando emotivamente ci convince››. 

Che tipo di montaggio viene scelto per un filmato girato ex-novo e per il materiale di repertorio da ricostruire? E quale tra documentario e film di fiction?

‹‹Non riesco a fare una distinzione di genere, perché la questione è: “cosa sto e cosa voglio raccontare?”. Ogni storia ha un suo percorso e un approccio diversi. Seguo l’andamento narrativo e ciò che m’interessa è tessere il racconto attraverso elementi visivi, sonori e gestuali››. 

Qual è il rapporto che si instaura tra montatore e regista? E’ utile essere complici, simili o basta la bravura?

‹‹Se parliamo di film basati solo sul montaggio, il rapporto deve essere molto intenso e forte la condivisione degli obiettivi, perché si tratta di riscrivere una storia nuova con materiali girati da altri. Non direi che ci voglia l’abilità professionale quanto invece la capacità di sintonia per essere in grado di estrarli››. 

Siete amiche lei e Alina, ha influito positivamente?

‹‹Molto. Ci siamo conosciute nel ‘97-’98, lavoravamo insieme per dei registi. Alina era aiuto-regista, quindi all’inizio non ebbi molti contatti con lei perché il montatore sta più col regista e di solito a fine riprese. Poi col tempo è scattato qualcosa. Nel lavorare per “Un’ora sola ti vorrei” (2002) c’è stata tanta fiducia reciproca››. 

Il suo lavoro è ben lontano dall’apparire in pubblico, ma in passato è capitato che lei abbia fatto da portavoce alla sua amica. Come ha vissuto quei momenti?

‹‹Da una parte ero intimidita, dall’altra, però, è stato interessante e ne ho conservato delle belle sensazioni››. 

Si è detto più volte che il cinema, inevitabilmente, è il mezzo della memoria, ma anche dell’immaginazione. Come fonderle insieme?

‹‹Per “Un’ora sola ti vorrei” noi partivamo da una figura reale, Liseli, la mamma che Alina ha presente solo nei suoi ricordi di bambina, quindi la difficoltà è stata intanto desumere il profilo di questa persona attraverso quei pochi ricordi, i filmati di famiglia e i diari della giovane donna. Successivamente dovevamo contrapporre il “ciò che sembrava” col “ciò che era”››. 

Alina l’aveva un po’ idealizzata questa mamma? Alla fine del montaggio del film ha notato un cambiamento nello stato emotivo della Marazzi, per esempio come una sorta di perdono per colei che l’ha “abbandonata”?

‹‹Un po’ tutti i bambini provano a idealizzare la mamma. Non spetta a me dirlo, ma Alina non ha mai dato un giudizio su sua madre. Il suo obiettivo era farla conoscere e soprattutto lei stessa conoscerla meglio››. 

“Vogliamo anche le rose”(2007). Con questo film c’è se vogliamo un’esplosione corale dell’affermazione femminile collettiva. Da dove nasce il bisogno di raccontare gli anni ’70 con un documentario?

‹‹In quegli anni si formò appunto il collettivo femminista che portò una ventata di cambiamenti. Il nostro presente dipende da quel vissuto: così noi, semplicemente, partendo dalle domande “da dove viene la nostra maturità di oggi? Da dove il nostro equilibrio?” ci siamo risposte: “da quelle storie di donne”. Vanno raccontate››.

Michele Traversa

Direttore responsabile e Editore di LSDmagazine. Esperto di turismo, spettacolo, gastronomia e tecnologia. Attento alle strategie social media e preparato all'interazione tra gli strumenti che questi offrono e la diffusione dei loro contenuti. Collabora con le principali riviste del settore turistico, italiane e straniere, autore di libri e documentari di viaggio e di mostre fotografiche.