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"Human_LOCAlow2"“Molte sono le cose mirabili, ma nessuna è più mirabile dell’uomo” (dall’Antigone di Sofocle)

“Umano è il corpo nella sua integrità fisica e psichica, nella sua individualità. Quando questa integrità viene soppressa o annullata con la violenza, si precipita nel disumano.”

Un bagliore, una luce fioca, una fiammella flebile come la speranza di quanti tentano di raggiungerne la fonte, che sia essa una terra, uno scoglio, una chiatta persino, ma che sia comunque un approdo; si accende per poi spegnersi immediatamente, come faro nella notte, come richiamo per quanti si sono persi: chi chiama? A chi è indirizzata? Chi o cosa cerca nel buio? Quali percorsi indica? Sono queste le prime di una serie innumerevole di domande che si dovrà porre chiunque si metta alla visione ed all’ascolto di “Human”, la straordinaria pièce scritta ed interpretata da Lella Costa e Marco Baliani per Mismaonda e Sardegna Teatro, giunta al Teatro Petruzzelli di Bari per due affollatissime repliche inserite nell’annuale cartellone del Teatro Pubblico Pugliese; ma non c’è il tempo anche solo di tentare di cercare una risposta, se vogliamo già presente in quella barra che campeggia sul titolo, di fatto cancellandolo, meglio spiegata dal sottotitolo “Viaggio lungo la linea che separa umano e disumano”, che già la luce si è trasformata in voce, anzi nelle voci delle nostre due guide che, come novelli Virgilio, ci prenderanno per mano e ci condurranno alla scoperta dell’inferno, tanto più atroce di quello dantesco non fosse altro per la sua contemporaneità coi giorni nostri, vissuto dal popolo dei migranti, con particolare attenzione alla risposta europea, se non italica, al problema, con una crudele ispezione delle emozionate reazioni a quello strazio che abbiamo avuto all’inizio degli sbarchi, e che ora, forse immunizzati dalla reiterazione della sofferenza, ci lasciano indifferenti.

E non crediamo sia stato un caso che il viaggio di Costa e Baliani, con il secondo che, da perfetto e geniale regista, lascia alla prima gran parte delle parti recitate, sia partito proprio dalla narrazione della triste storia di Ero e Leandro, meraviglioso mito di Ovidio, ricordato da Petrarca, Boccaccio, Tasso, Marino, ma anche da Virgilio e, poi, dallo stesso Dante, che inserisce nel Canto XXVIII del Purgatorio le figure dei due amanti separati dalla potenza oscura e tumultuosa dell’Ellesponto, che determinerà la sventurata morte di Leandro, paradigma di chi ancora oggi (e ci viene in mente la storia di Bilal magistralmente raccontata dal film “Welcome”) sfida il mare per amore; Lella e Marco lo declamano in tutta la sua misteriosa e potente bellezza, prima di ricordarci che anche un mito di cotanta bellezza, nei tempi barbari che ci è dato in sorte di vivere, è relegato ad uno sceneggiato televisivo che riempie la serata di due coppie di amici, ormai in procinto di cenare quando la cronaca irrompe dalle notizie del telegiornale con le immagini dell’ultimo tragico sbarco, e le discussioni, dapprima stanche e disattente, che ne nascono saranno il vero fil rouge di tutta la messa in scena.

“Perché si mettono in viaggio sapendo in partenza che forse moriranno?” “Per quel forse!” sarà l’incipit di una serie infinita di richiami, rimandi e citazioni classiche, inframmezzati da momenti estirpati dalla nostra quotidianità, come quelli della sciura veneta benestante, che d’ora in poi dovrà essere d’ufficio inserita tra i cavalli di battaglia della Costa, un po’ razzista (forse leghista?) che, messa di fronte alle scelte obbligate dei suoi simili in fuga, non saprà trovare valide argomentazioni ma solo rifugiarsi nel ricordo di quando eravamo noi italiani ad essere accolti nel medesimo modo dagli americani ad Ellis Island; saremo fuggiaschi con Enea, “l’eroe che, primo, dalle coste di Troia venne all’Italia, profugo per suo destino” per approdare nel Lazio e divenire il progenitore del popolo romano, e finanche con la Sacra Famiglia, qui rappresentata dalla raffigurazione umana di quel capolavoro dell’Arte di tutti i tempi che è il “Riposo durante la fuga in Egitto” di Caravaggio, che meriterebbe un’analisi a sé stante per aver così superbamente differenziato la precarietà e sterilità della vita umana di Giuseppe dalla prospera immortalità celeste della Vergine e del Bambino, frapponendo tra loro l’angelo intento a suonare un violino che ha una corda simbolicamente spezzata; saremo croceristi che, nonostante il frastuono frastornante e divertito, non riusciranno a non sentire le voci che salgono dalle fosse comuni del mare e che “dovrebbero estinguersi ma non smettono di gridare”; saremo animalescamente violentati dallo scafista di turno per un solo sorso d’acqua; saremo assordati dalla nostra musica in cuffia per non sentire l’urlo straziante di quanti muoiono nella stiva della barca che ci porta da “una terra che ci odia ad un’altra che non ci vuole”; saremo sciacalli di stracci e di effetti personali ovvero di dolorose immagini (l’odiosa fotografa freelance rampante) sulle spiagge della morte; saremo macerati nel sale e nel dubbio su di un peschereccio che, avvistato un barcone di disperati, non saprà decidersi se intervenire o voltare la prua lasciando quella gente al proprio destino; tutto questo saremo e molto di più prima che si compia il viaggio che Costa e Baliani hanno tracciato, e che si conclude con una magnifica rilettura, attualizzata e, di fatto, ribaltata, con quel “come potevamo noi cantare” che diventa “come potremo”, della sublime “Alle fronde dei salici” di Salvatore Quasimodo. Ma se Dante, al termine del suo giro infernale, riuscì infine a riveder le stelle per proseguire il suo cammino di redenzione e purificazione, a noi è riservata sorte peggiore, perché il ritorno della luce ci mette di fronte ad uno scenario di morte e devastazione, una moltitudine infinita di abiti che il mare, affamato di corpi, ci ha restituito, che si stampa indelebilmente sulle nostre coscienze, riportandoci alla memoria le parole di Erri De Luca: “A forza di naufragi di terra e di mare, l’Europa ha progredito nel suo vocabolario: a inizio di naufragi usava la parola “clandestini”. Molte stragi più tardi li ha chiamati “migranti”, poi “profughi”, infine “rifugiati”, anche se il rifugio è concesso in poche zone. Per gli annegati, per i soffocati nei camion, sono soddisfazioni. Coi loro corpi, con le loro vite seminate a concime, hanno modificato il vocabolario d”Europa”.

Non sarà un caso nemmeno che i due autori / protagonisti, per realizzare questa elegia della migrazione, abbiano pensato di contornarsi della gente fiera di Sardegna, che ne conosce bene il dramma, a partire dai giovani e talentuosi attori Noemi Medas, David Marzi, Elisa Pistis e Luigi Pusceddo, per continuare con Paolo Fresu, che ha composto le sublimi musiche, dallo stesso eseguite con l’aiuto del nostro Gianluca Petrella, e con Antonio Marras, che ha creato tanto la bellissima scenografia quanto i convincenti costumi, con il rosso sangue a far da colore dominante, facendo muovere gli interpreti tra cubi di vestiti spostati a seconda delle necessità, che evidenziano il dramma di un’umanità fatta a brandelli e richiamano inevitabilmente alla mente le immagini degli abiti accatastati nei campi di sterminio nazisti, ed infine di Tommaso Contu che ha firmato assieme a Loïc Francois Hamelin le splendide quanto semplici luci.

Questa perfetta commistione fa di “Human” un lavoro pregiato, puro, nudo, incisivo come non mai, lucido, imperioso, mai retorico né patetico, esemplarmente riuscito nella iniziale dichiarazione d’intenti di “fare del disagio di noi europei, sorriso e poesia”, di occuparsi, come il teatro di questi due mostri sacri da sempre riesce a fare, del sociale inducendo alla riflessione e – si spera – a qualche soluzione costruttiva. Ma se la domanda di Baliani, “A cosa serve l’arte se non a rendere meno terribile la vita?”, ha fatto si che nascesse il meritorio e parallelo “Progetto Human”, proposta culturale voluta dai due per permettere un’analisi accurata del tema grazie ad incontri, approfondimenti ed iniziative che sono reperibili sul sito creato appositamente, ebbene la stessa domanda, se rapportata esclusivamente allo spettacolo che ci ha visti fortunati spettatori, trova una risposta differente e del tutto inaspettata nella sua tragicità: “Human” non ha nulla di assecondante, non concede alcuna assoluzione, scegliendo di metterci di fronte alle nostre incommensurabili colpe e di lasciarci in preda ad un perenne ed irrisolto esame di coscienza ed a domande di difficile soluzione. Noi, nel nostro piccolo, crediamo però di poter dare risposta ai quesiti che ci siamo posti in apertura di commento, avendo infine compreso che quella flebile luce non si era accesa per tentare di trarre in salvo fuggiaschi o di recuperare qualche corpo esamine, ma per noi che “abbiamo avuto un gran culo a nascere in questa parte del mondo”, per tentare di risvegliare le nostre sopite coscienze, per provare a salvarci dalla nostra ormai atavica indolenza di svogliati spettatori di un mondo che cambia sotto i nostri occhi, ogni attimo, da millenni a questa parte, per curarci dal nostro ancestrale rigetto di qualsivoglia forma di umanità che non riconosciamo come nostra, per liberarci dalla nostra indecente, irrimediabile, ineluttabile, intollerabile disumanità.

Michele Traversa

Direttore responsabile e Editore di LSDmagazine. Esperto di turismo, spettacolo, gastronomia e tecnologia. Attento alle strategie social media e preparato all'interazione tra gli strumenti che questi offrono e la diffusione dei loro contenuti. Collabora con le principali riviste del settore turistico, italiane e straniere, autore di libri e documentari di viaggio e di mostre fotografiche.