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"sei“Ma se è tutto qui il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso ed il valore delle cose come sono dentro di me; mentre, chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo d’intenderci; non c’intendiamo mai!”
Chi siamo noi? O, sarebbe meglio dire, “quanti” siamo? Potremo mai riuscire a fermare un pensiero, un’idea, un concetto, fosse anche una sola espressione, in modo definito, deciso, comprensibile a tutti nel medesimo modo? Queste stesse parole che ora state avendo la cortesia di scorrere, ad esempio, non potranno mai avere la velleità di giungere ad ogni lettore con il significato che viene dato loro nel momento della scrittura, anzi, con tutta probabilità, non avranno più la medesima accezione anche per il vostro cronista un attimo dopo averle fermate sulla fredda carta telematica. E se questo accade alle parole, non può non interessare in modo esponenziale gli esseri umani, per loro natura “in perpetuo movimento, in eterno divenire, in incessante trasformazione da uno stato all’altro”, i quali, pur di essere parte di questa eterna rappresentazione, si costringono ad indossare prima la maschera con cui si presentano a se stessi, e poi migliaia di maschere corrispondenti alle infinite visioni che gli altri ne hanno, così perdendo la propria individualità e diventando, da “uno”, “centomila” e, quindi, “nessuno”. Con queste prerogative, nulla è – né mai più sarà – vero, certo, sicuro, invariabile, indeclinabile: di certo non lo è l’uomo, labile ed instabile per natura e convenzione, schiavo dell’illusorietà delle relazioni interpersonali e del ruolo sociale che ricopre nel tempo agli occhi degli altri, in un’incessante ed orribile disintegrazione dell’io nella molteplicità frammentata negli occhi e nei giudizi degli altri, che lo riducono ad uno stereotipo, ma, forse, nemmeno i personaggi di un’opera letteraria potranno mai esserlo, di certo meno “plasmabili” dell’uomo, eppure nient’affatto immuni dal subire l’interpretazione del pubblico e, finanche, degli attori (gli interpreti, appunto) che li proporranno all’esterno secondo la loro chiave di lettura, la loro lente, la loro stessa imperfetta umanità, facendogli inevitabilmente perdere la loro primordiale identità che si credeva eterna ed immutabile (“Il dramma per me è tutto qui, signore: nella coscienza che ho, che ciascuno di noi – veda – si crede "uno" ma non è vero: è "tanti", signore, "tanti", secondo tutte le possibilità d’essere che sono in noi: "uno" con questo, "uno" con quello, diversissimi! E con l’illusione, intanto, d’essere sempre "uno per tutti", e sempre "quest’uno" che ci crediamo in ogni nostro atto”). Un’analisi estrema quanto spietata, che potrebbe finanche spingere un autore a rinunciare alla scrittura, ad abbandonare le proprie neonate creature all’oblio prima di averle “finite”, abdicando dalle sue incombenti responsabilità, incapace di trovarvi una soluzione definitiva.
“Ho già la testa piena di cose nuove! E una stranezza, così triste, così triste. Sei personaggi presi in un dramma terribile, che mi vengono appresso, per esser composti in un romanzo, un’ossessione, e io che non voglio saperne, e io che dico loro che è inutile e che non m’importa di loro e che non m’importa più di nulla, e loro che mi mostrano tutte le loro piaghe, e io che li caccio via.”: così scriveva Luigi Pirandello al figlio Stefano presentandogli l’idea di “Sei personaggi in cerca d’autore”, l’Opera che, dalla sua prima messa in scena al Teatro Valle di Roma il 9 maggio 1921, ha completamente mutato i canoni stessi del teatro, di fatto dando la stura al “teatro dell’assurdo”, dove l’impossibile viene dato come reale, sensibile, razionale, lasciando, come affermava Ottavio Rosati, che “il pubblico interagisse nel corso della rappresentazione con i personaggi per ridefinire ogni volta il rapporto finzione-realtà”. Pirandello, come chiarisce nella Prefazione, utilizza lo stratagemma della irrisolta nascita dei sei personaggi per dichiarare una personale esperienza di dissociazione, conflitto e disgregazione psichica dell’io in “più e opposte personalità”, distruggendo la convenzionale “quarta parete” semplicemente riprendendo l’espediente – già utilizzato da Goldoni e da Shakespeare – del “metateatro”, del teatro nel teatro, del teatro che riflette su di sé e si fa autoanalisi, che diviene metafora di se stesso, il “non-luogo” – da contrapporsi al “luogo del non autentico” che è la nostra realtà – della rappresentazione della personalità dell’autore, forse del suo inconfessabile subconscio, dell’inconscio, del rimosso, di quell’intimo caos psicologico di cui i personaggi sono frammenti, schegge, proiezioni e riproduzioni.
Le figure che si intrufolano in un teatro dove si sta provando “Il giuoco delle parti” di Pirandello – meraviglioso input al gioco di specchi cui stiamo per assistere – chiedendo che la loro storia venga rappresentata, non sono attori che fingono una parte, ma personaggi veri e reali, “incarnati”, “spiranti e semoventi” li definisce il Maestro sempre nella sua prefazione, che chiedono al malcapitato Capocomico ed ai suoi attori non solo di ascoltare la loro storia ma di esserne anche testimoni, non solo di recitarla ma di “essere” quella storia, così da abolire ogni mediazione tra vita e teatro, realizzandone la piena fusione. Agli attori, ed alle loro vive opposizioni di recitare parti non scritte, i Personaggi propongono – o, forse meglio, impongono – di trasformarsi da attori in spettatori, di assistere direttamente agli eventi, senza veli, senza finzioni, senza intromissioni nemmeno della parola, di un racconto che potrebbe “sporcare” l’evolversi dei fatti con una personale esposizione, senza – ci ripetiamo – interpretarli, così da poter fermare nelle loro menti il dramma dei personaggi in modo inamovibile e, soprattutto, immutabile. Non ci sono commenti né didascalie, parafrasi o esegesi: pulsioni e repulsioni, passioni e tormenti, bontà e brutalità, sentimenti e sesso, amore e odio, vita e morte, vengono fotografati nel momento esatto in cui avvengono, in un fermoimmagine umano e disumano allo stesso tempo che, lasciando cadere il velo della relatività delle opinioni, della contraddittorietà delle certezze e dell’ambiguità delle parole, fa sì che, proprio nel teatro, luogo principe della finzione, si materializzi la più assoluta, totale, vera e nuda realtà.
Accostare a questa lettura della realtà l’arte primordiale dei primi film muti è la prima e più lampante geniale trovata che Franco De Luca ha messo alla base della sua lettura del capolavoro pirandelliano, prodotta dal Teatro Stabile di Napoli e dal Teatro Nazionale / Teatro Stabile di Genova, giunta al Teatro Petruzzelli per due affollate repliche inserite nella sezione barese dell’annuale cartellone del Teatro Pubblico Pugliese; suggestionato di certo dalla sorte che Woody Allen, in “La rosa purpurea del Cairo” (e non in “Broadway Danny Rose”, come erroneamente riportato nelle note di regia), immagina per il suo personaggio Tom Baxter, il quale esce materialmente dallo schermo in bianco e nero che lo vede protagonista, prendendo vita autonoma nel colorato mondo reale e perpetuando il suo atto rivoluzionario di annullamento tra realtà e finzione con una delle battute più fulminanti del cinema di tutti i tempi (“Senti, io non voglio più parlare di ciò che è vero e di ciò che è illusione: la vita è breve, non sprechiamo tempo per pensare alla vita, viviamola e basta.”), ma soprattutto dai primi lungometraggi non ancora supportati dal sonoro, qui richiamati quasi pedissequamente in tanti particolari (come per la capigliatura della protagonista, perfettamente mutuata da quella inconfondibile della – anch’essa – scandalosa Lulù della divina Louise Brooks), come anche da taluni horror dei giorni nostri che alle ambientazioni di quel periodo si richiamano, De Luca fa sortire i suoi Personaggi dallo schermo che rimanda immagini che sembrano appartenere ad un passato espressionista, escamotage che fa ancor più impotenti i Personaggi di fronte alla rappresentazione del loro dramma, rendendone impossibile l’allontanamento (come quello anelato dal riluttante figlio) proprio come accade per quanti sono costretti a legare la loro esistenza alla pellicola di celluloide, in un incessante blackout che non conosce soluzioni. Anche la problematica della collocazione degli attori della Compagnia e del Capocomico rispetto ai sei Personaggi viene magistralmente risolta, lasciando che i primi agiscano, per la quasi totalità dello spettacolo, in platea, dove sono stati relegati dall’irruzione usurpatrice dei Personaggi, che del palco prendono possesso, accelerando la simbiosi, la fusione quasi, con il pubblico, così quando i sei malcapitati parleranno ai loro alter ego, non avremo alcun dubbio né alcuna reticenza a comprendere che, in realtà, stiano interagendo con noi, con ognuno di noi.
Ma sono solo due delle tante frecce all’arco di questa edizione, perfettamente e scrupolosamente rispettosa del Pirandello pensiero, richiamato se non riprodotto o addirittura “personificato” in ogni sua più recondita sfaccettatura, come nella scelta di rappresentare la piccola e sfortunata figlioletta con una bambola (crediamo in omaggio alla problematica dell’individuo / pupo cara al Maestro); la regia di De Luca, ottimamente supportato dalle scene e dai costumi di Marta Crisolini Malatesta, dalle luci di Gigi Saccomandi, dalle musiche di Ran Bagno, dai – chiaramente fondamentali – video di Alessandro Papa e dai movimenti coreografici di Alessandra Panzavolta, ci consegna una messa in scena essenziale, necessaria, imprescindibile, di assoluto rigore e di indicibile bellezza, come testimoniato da ogni singolo spettatore all’uscita dal Politeama, che ha un altro innegabile punto di forza nel cast sublime che annovera Paolo Serra, convincente Capocomico, interdetto tra vanità ed incertezze, Federica Granata, Madre che impersonifica perfettamente il dramma che ha incolpevolmente generato, bravissima nella scena dell’urlo che le si spezza in gola (ancora un omaggio al cinema muto?), Gianluca Musiu nei panni del Figlio, Maria Basile Scarpetta, Giacinto Palmarini, Federica Sandrini, Alessandra Pacifico Griffini, Paolo Cresta, Enzo Turrin ed Ivano Schiavi nei panni di attori e tecnici della Compagnia teatrale, e la silente Silvia Biancalana nel ruolo del Giovinetto, ensemble che diviene finanche di incomparabile maestria nel cameo di Angela Pagano, impegnata a consegnarci una Madama Pace che, pur non rispondendo ai dettami fisici richiesti da Pirandello, rimarrà negli annali del nostro teatro, nella Figliastra di Gaia Aprea, eccelsa, mai al di sotto della perfezione, impegnata nel difficile compito assegnatole di passare in un attimo dal riso al pianto, dal disorientamento al sarcasmo, dalla sensualità alla disperazione, talmente brava da riuscire a competere, talvolta finanche rubandogli la scena, con un gigante dalle mastodontiche proporzioni quale Eros Pagni è, un monumento all’Arte attoriale, il Teatro per eccellenza, che riesce a dare spessore ad ogni parola, ad ogni gesto, ad ogni espressione, restituendoci un Padre difficilmente replicabile, una lezione che andrebbe mandata a memoria dalle nuove generazioni che – e nulla avrebbe potuto farci più felici – affollavano il Petruzzelli e che gli hanno tributato la più che giusta ovazione finale. E noi, con loro.

Michele Traversa

Direttore responsabile e Editore di LSDmagazine. Esperto di turismo, spettacolo, gastronomia e tecnologia. Attento alle strategie social media e preparato all'interazione tra gli strumenti che questi offrono e la diffusione dei loro contenuti. Collabora con le principali riviste del settore turistico, italiane e straniere, autore di libri e documentari di viaggio e di mostre fotografiche.