Tempo di lettura: 3 minuti

"bam"Giudicare il primo BAM Festival, la neonata rassegna barese che, dopo la fantastica anteprima del mese scorso con il Wayne Escoffery Quartet, ha regalato tre giorni di frenetica attività musicale alla nostra città, non è cosa semplice, anzi, a nostro modesto parere, è pratica che andrebbe evitata; eppure pare che un punto occorra metterlo: proviamoci. Lungi da noi, come crediamo da qualsivoglia mente pensante, anche solo l’idea di rilasciare osservazioni sugli artisti impegnati, tutte autentiche – e non "a chiacchiere" – stelle di prima grandezza che hanno illuminato le nostre notti in modo che possiamo definire non convenzionale, finalmente lontani da quei cartelloni triti e ritriti che abbondano di certezze dal sapore stantio; essere riusciti a portare a Bari gente del calibro di Johnny O’Neal, Gary Bartz, Orrin Evans, Nicholas Payton, Saul Rubin, e chi più ne ha più ne metta, è stata senza dubbio operazione degna di lode ma, forse proprio per le forze messe in campo, lo sforzo produttivo avrebbe meritato una resa superiore. Spieghiamo meglio. Tutti ormai sappiamo che il BAM Festival nasce da un’idea dell’ottimo Nicola Gaeta, che ne ha curato la direzione artistica unitamente al trombettista Fabio Morgera (anch’egli esibitosi durante la rassegna), all’indomani della pubblicazione del suo libro “BAM, il jazz oggi a New York”. L’iniziale imponente dichiarazione d’intenti del progetto di divulgare, per la prima volta in Europa, in netta contrapposizione col conformismo che ormai dilaga nei festival jazz, il concetto di BAM (l’acronimo sta per Black American Music), riunendo a Bari alcuni degli artisti più rappresentativi di questo movimento che, attraverso la loro musica suonata in teatro, jam session itineranti per la città e anche momenti di discussione col pubblico e la stampa, avrebbero dovuto spiegare alla popolazione il proprio universo musicale, composto di jazz nella sua accezione più pura ma anche di blues, soul, hip-hop ed elettronica, ebbene non sempre ha trovato attenti fruitori se non nelle "solite" orecchie degli addetti ai lavori, giustamente accorsi ad accogliere la nuova creatura. Non sappiamo dire bene cosa si potesse fare di più: forse tre giorni sono pochi per spiegare un concetto così intricato, forse lo è addirittura una sola edizione; così, ci permetterete di sospendere il nostro giudizio in attesa del prossimo appuntamento, che – speriamo – possa rinnovarsi quanto prima. Ma – lo abbiamo già detto – a noi non compete di stilare bollettini, semmai – per nostra fortuna – ci è concesso di salutare con vero entusiasmo le esibizioni di cui abbiamo potuto godere, tutte tenutesi nella accogliente sala grande dello Showville di Bari, sempre perfetta per acustica, e tutte di altissimo livello grazie all’interazione creatasi tra i musicisti anche in formazioni estemporanee, come quella che nella prima serata raccoglieva nientemeno che Orrin Evans al piano, Donald Edwards alla batteria, Nicholas Payton alla tromba ed il grande Gary Bartz al sax alto, che facevano sgorgare lava colata dal palco dello Showville. Ma occorrerebbe fare i medesimi elogi ad ogni performance, anche se ci permetterete di ricordare sopra tutte l’apparizione del mitico Johnny O’Neal che, tanto in solo quanto in trio, ha dispensato gioielli di una luminosità accecante. D’accordo, sarà pure che questi artisti desiderano che la loro opera sia definita BAM e non più jazz, ma per noi, che non abbiamo mai tenuto alle etichette, anzi le abbiamo sempre tenacemente osteggiate, la differenza non si pone; chiamatela pure come volete, a noi è sembrata sempre e solo grande musica. E tanto basta.

Michele Traversa

Direttore responsabile e Editore di LSDmagazine. Esperto di turismo, spettacolo, gastronomia e tecnologia. Attento alle strategie social media e preparato all'interazione tra gli strumenti che questi offrono e la diffusione dei loro contenuti. Collabora con le principali riviste del settore turistico, italiane e straniere, autore di libri e documentari di viaggio e di mostre fotografiche.