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Sono da poco iniziate le riprese del sequel de Il diavolo veste Prada e, tra gli outfit scelti, c’è anche la “E’mio” di Berluti. A portarla in scena è Nigel, l’assistente editoriale più ironico della redazione di Runway.
Dietro quella borsa che passeggia tra i taxi di Midtown c’è un viaggio che comincia molto lontano: in un laboratorio emiliano, tra macchine da taglio, modellisti, sarti e patinatori dove ogni fase non è solo tecnica, ma racconta l’umanità e il savoir-faire che danno senso a quel disegno.
La storia inizia nel 1895, quando un giovane di Senigallia, Alessandro Berluti, lascia le Marche per Parigi con un’intuizione allora visionaria: ridurre la scarpa alla sua essenza. Nasce così l’“Alessandro”, una Oxford ricavata da un unico pezzo di pelle, senza cuciture visibili. Non era solo una scarpa, ma un manifesto: l’eleganza come sottrazione.
Col tempo Berluti diventa una maison francese, ma con radici italiane nel sangue del fondatore. Oggi il cuore produttivo batte a Ferrara: il luogo dove un disegno prende corpo. Ogni passaggio ha il suo ruolo, dal tratto del designer alla precisione dei modellisti, dal lavoro dei sarti e degli orlatori fino a chi applica la patina. Mani che non compaiono nei credits, ma che lasciano la loro traccia attraverso dettagli e sfumature. La lama che incide la pelle con precisione millimetrica, le cuciture invisibili che uniscono le parti, i bordi rifiniti che catturano la luce.
Il lusso non è solo un marchio da esibire: è il tempo che si traduce in materia.
Dentro questo processo nasce anche la “E’mio”, ideata nel 2010 da Olga Berluti: una borsa che reinterpreta la cartella classica con costruzione morbida, silhouette trapezoidale e una chiusura a clip metallica divenuta segno distintivo. Un equilibrio tra funzione ed estetica, essenziale eppure riconoscibile.
E poi c’è la patina, la cifra più distintiva della maison. Negli anni Ottanta Olga Berluti spezza il duopolio del nero e del marrone, allora considerati i soli colori ammessi nel guardaroba maschile, e apre la strada a nuove tonalità. Pigmenti, oli e cere applicati a mano sul Venezia leather, un pellame scelto perché capace di assorbire e restituire il colore con riflessi profondi e mutevoli. Così nascono sfumature entrate nella storia del marchio: Tobacco, Rouge Saint-Émilion, Cognac, Bleu Nuit. Non è improvvisazione: è disciplina. La maestria consiste nel replicare con precisione ciò che sembra irripetibile, trasformando la serialità in eccellenza.
Quando la camera inquadra Nigel con la sua “E’mio”, non appare soltanto un accessorio. Si legge un processo: dallo schizzo alla codifica del prodotto, dal prototipo all’industrializzazione, fino all’oggetto che arriva sul set.
Il diavolo, alla fine, non veste solo Prada.
Porta con sé un frammento d’Italia: la pazienza dei gesti, la forza delle radici, la luce discreta di un mestiere che non compare nei credits ma brilla nei dettagli.







