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È tempo di oligarchi anche a Sanremo. Federica Abbate ha 7 canzoni in gara (Serena Brancale, Clara, Fedez, Emis Killa, Rose Villain, Joan Thiele, Sarah Toscano). Vito Pallavicini buonanima aveva fatto di meglio nel 1965, firmandone otto, ma era arrivato in finale «solo» con sei.
È il dato che balza subito all’occhio al primo ascolto delle trenta – troppe, troppo omologate e troppo poco coraggiose – del Sanremo 2025. Oligarchi canori sarebbero anche Jacopo Ettorre e Davide Simonetta (a quota 5), seguiti con 3 brani a testa da Blanco (Giorgia, Irama e Noemi) e il napoletano Davide Petrella (Elodie, Tony Effe, Noemi). Spesso, poi, gli oligarchi canori si mettono insieme per lo stesso pezzo, come ai tempi dei Pace-Panzeri-Pilat. E Dario Brunori e Kekko Silvestre dei Modà sono i soli a fare… tutto da soli. Segni del tempo.
Al primo ascolto inevitabilmente sommario ed esposto a ripensamenti, non brilla il cast extralarge voluto da Carlo Conti per il suo quarto Festival (a proposito: Damiano David sarà il superospite della seconda sera). Un festival che tiene famiglia come sempre (ci sono canzoni per le figlie, le mamme malate d’Alzheimer, i fratelli minori, i figli da fare o non fare), che persino più di sempre canta l’amore, sia pur in crisi, piuttosto che i tempi che stiamo vivendo (Rocco Hunt e Willie Peyote sono le eccezioni che confermano la regola). Non mancano sorprese: non si poteva certo immaginare che il reprobo Tony Effe citasse Califano nel suo post-stornello romanesco («Damme ‘na mano»), né che i Coma_Cose inseguissero i Ricchi e Poveri («Cuoricini») sulla strada del ritornello ultranazionalpopolare o che Francesco Gabbani rimanesse ingabbiato nel buonismo ecumenico di «Viva la vita».
I migliori? Brunori Sas con «L’albero delle noci», canzone degregoriana (periodo «Rimmel», ma il produttore Sinigallia aggiunge qualche reminiscenza luciobattistiana) per la figlioletta Fiammetta che cresce, le mamme e i papà che imbiancano, il tempo che passa e la sua Calabria: «Sono cresciuto in una terra crudele dove la neve si mescola al miele e le persone buone portano in testa corone di spine»; Massimo Ranieri a cui Tiziano Ferro (più Nek, Giulia Anania e Marta Venturini) ha regalato una canzone-canzone, «Tra le mani un cuore», che – visto il titolo – è una vera operazione a cuore aperto.
Con «Mille vote ancora» Rocco Hunt rimette in gioco il dialetto napoletano quasi capovolgendo – su sonorità insieme rap, urban e neomelo’ – l’assunto di «’Nu juorno buono»: quello dell’emigrante, sia pur di lusso, è ‘nu juorno cattivo, cattivo quanto lo Stato assente («come noi tra i banchi») dalle terre da cui si parte, quelle «dove si muore per niente a vent’anni/ ‘sti figlie hanna capi’/ ‘sta guerra ha da’ ferni’»: un po’ di cronaca, nera e vera (sono i giovani uccisi a Napoli per un pestone o altra sciocchezza), filtra nella terra dei cachi. «Tu con chi fai l’amore» dei The Kolors sarà un tormentone, anche se Stash & Co si spostano da Ibiza a Mykonos e con una mano da Calcutta variano un po’ l’immaginario della loro italodisco. «Volevo essere un duro» presenterà le fragilità di Lucio Corsi al grande pubblico: speriamo ne venga adottato, lo meriterebbe con la sua spudorata fragilità. Come la Joan Thiele di «Eco», che guarda a Mina come a Billie Eilish: elegante e retromodernista, ma non troppo. Giorgia recupera con la solita insuperabile voce (fioriture, respiri, legati, code, vocalizzi, discese ardite e risalite) un brano («La cura per me») che non brilla di luce propria. Achille Lauro guarda alla lezione di Venditti, Zero e Baglioni in «Incoscienti giovani». «La mia parola» di Shablo (più Guè, Joshua e Tormento) è il pezzo più rap-rap della partita, un funkettone, una street song, roba da (g)old school. Con «Anema e core» Serena Brancale fonde elettronica, omaggi alla canzone napoletana (quella del titolo, quella neomelodica, soprattutto quella dell’amato Pino Daniele) e dialetto pugliese con orgoglio pansudista e italoamericano.
In «Se ti innamori muori» Mahmood e Blanco riciclano la loro «Brividi», ma Noemi ci aggiunge il suo graffio vocale. Willie Peyote ha fatto di meglio, anche all’Ariston, ma «Grazie ma no grazie» ci parla del malpancismo impazientito dilagante tra echi di Pino D’Angiò, un coretto alla «Staying alive» e una citazione dedicata a quelli che ci han provato «più volte dei Jalisse, ma l’insistenza non è mai così di classe». Simone Cristicchi è emozionante con la dedica a una madre malata di Alzheimer in «Quando sarai piccola» a cui promette, come il maestro Battiato: avrò cura di te.
Marcella Bella non brilla con «Pelle diamante» trash quanto basta, per una «star quality volitiva… stronza forse ma sorprendente». Clara ha la «Febbre» e fa «bling bling». Elodie («Dimenticarsi alle 7») tiene insieme Mina (rieccola) e
l’urban, ma al primo ascolto non spicca. Da «Viva la vita» di Francesco Gabbani non ci si aspettava che valesse «Gracias a la vida» di Violeta Parra, ma un pizzico di originalità in più sì. Irama con «Lentamente» si autoclona. Come fa il Rkomi di «Il ritmo delle cose» che agita le acque, in mezzo al solito tunz tunz imperante, citando la merda d’artista, le macchie di Rorschach e il Lucio Dalla di «Disperato erotico stomp»: resta solo e sta in mutande, ma il piccolo grande uomo veniva da ben altro pianeta. Come la Mia Martini di «Almeno tu nell’universo» chiamata in causa dalla Rose Villain di «Fuorilegge», che bazzica sonorità ben più scontate. Sotto il tunz tunz di Sarah Toscano («Amarcord») non c’è certo Fellini. Ci si aspettava di più dalle ballate di Olly («Balorda nostalgia») e Francesca Michielin («Fango in paradiso»), comunque migliori di quella di Bresh («La tana del granchio»). Emis Killa con «Demoni» annacqua sempre più di pop il suo hip hop già annacquato. I Modà di «Non ti dimentico» sono fedeli al loro passato di ultimi romantici.
Mentre Fedez in «Battito» ci porta sul lettino dello psicanalista e dialoga con la sua depressione tra amnesie, serotonina, paranoie e anestesie, prima di prendersela con lei: «Tu mi conosci meglio di me… prenditi i sogni, pure i miei soldi, basta che resti lontana da me». Gaia («A me piace stare nuda e nessuno che giudica») ripunta al tormentone con «Chiamo io chiami tu». All’11 febbraio per un secondo ascolto e pagelle riviste.
In ogni caso Sanremo è Sanremo. Grazie per le informazioni, Lsd
LSD Magazine mantiene una analisi con un certo distacco e profilo professionale la’ dove ogni anno di fronte all’evento Festival di Sanremo si scatenano, a torto o a ragione, bagarre e gossip❗️
Finalmente un articolo che abbia un pensiero critico appropriato e consapevole. Attendiamo le prossime news!
Puntuale come sempre e sembra già di conoscerle….tutte le canzoni. Staremo a vedere.