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Sommario: 1. Famiglia nel mondo. 2. Origini della famiglia. 3. Matriarcato. 4. Il patriarcato. 5. Familia in Roma. 6. Famiglia e Natura. 7. Sponsalia e Matrimonium. 8. Funzione del Matrimonium. 9. La cerimonia.

  1. Famiglia nel mondo.

Intorno alla famiglia ed alla sua priorità nelle forme di organizzazione della società si riscontra una quasi totale convergenza, ma con profonde differenziazioni.

Essa è perno della cosiddetta civiltà occidentale.

Ciononostante la cosiddetta ‘area asiatica’ la prospetta con piú incisiva radicalità e rimprovera l’Occidente di non assegnarle la dovuta priorità, dando rilievo prioritario all’uomo in quanto singolo. Ciò (presumo) perché in quell’area non c’è stata l’incidenza dell’Illuminismo, che ha spinto a porre al centro del pensiero e dell’organizzazione sociale il singolo.

Pari differenziazione avviene è operata anche da parte dell’Islam.

È stato osservato che, sotto questo aspetto le varie dichiarazioni concernenti i diritti umani, sono frutto della visione occidentale e, lungi dall’essere universali, sono frutto della “tendenza verso la individuazione di standard regionali dei diritti umani, che ha prodotto la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la Convenzione interamericana dei diritti dell’uomo e la Carta africana dei diritti”, ma ha bypassato l’Asia”[i]. Vengono elencati quali valori asiatici: “il primato degli interessi collettivi rispetto alla comunità e all’armonia sociale individuale; il rispetto degli anziani, la cura per l’ordine e la stabilità, per l’interesse della famiglia e dei parenti, della nazione e della comunità; il valore della frugalità, della parsimonia e del duro lavoro; la disponibilità a sacrificare se stessi e i propri desideri per la famiglia, il rinvio della gratificazione presente per un beneficio a lungo termine; il valore dell’impegno nell’istruzione”. Oppure: “non credere nell’individualismo occidentale; l’importanza di una famiglia forte; l’enfasi sull’istruzione; le virtù del risparmio e della frugalità; il valore del lavoro duro; il lavoro di squadra a livello nazionale; l’importanza del contratto sociale tra il popolo e lo Stato; l’importanza di un ambiente moralmente integro; la convinzione che la libertà non sia un diritto assoluto”. O, ancora, “la famiglia tradizionale come modello per la società; il rispetto delle gerarchie; il prevalere del comunitarismo sull’individualismo; il consenso in luogo della contestazione; il prevalere degli obblighi sui diritti”[ii].

Uguale priorità della famiglia si trova nella Dichiarazione del Cairo sui diritti umani nell’Islam (1990). La quale da un lato considera famiglia l’intera umanità dall’altro proclama la famiglia basata sul matrimonio fondamento della società:

 

Articolo 1: a) Tutti gli esseri umani formano un’unica famiglia i cui membri sono uniti dalla sottomissione a Dio e dalla discendenza da Adamo.

Articolo 5: a) La famiglia è il fondamento della società e il matrimonio è la base della sua formazione. Uomini e donne hanno diritto al matrimonio e nessuna restrizione derivante da razza, colore o nazionalità impedirà loro di beneficiare di tale diritto.

 

Ma cos’è precisamente la famiglia del cosiddetto Occidente? Come è nata e come si è articolata nel corso dell’esperienza storica?

In questa sede vorrei proporre alcune riflessioni incentrate su quello che è stato l’asse intorno al quale si è sviluppata la famiglia, con focalizzazione sull’esperienza antica e, nello specifico, sul diritto romano.

Ritengo, infatti, che sia opportuno partire da esso per comprendere anche terminologia e assetto della famiglia, circolanti nella società attuale.

 

  1. Origini della famiglia.

Sono, invero, convinto che la concezione della famiglia e le costruzioni giuridiche che la caratterizzano (nella nostra civiltà europea) hanno avuto radici profonde nel diritto romano e nell’esperienza giuridica che era alla base di esso. Ciò anche se non sottovaluto (pur non condividendole in gran parte) le ‘ragioni di quanti sostengono che il diritto romano sia del tutto superato e non sia richiamabile al giorno d’oggi, poiché da tempo ci troviamo di fronte alle aspettative della civiltà tecnologica lontana dalla Welthanschauung della società agricolo-pastorale, che era alla base dell’esperienza romana e che permeò profondamente il diritto romano. Mi sembra che essi rivelino quali e quanti apporti alcune costruzioni del diritto romano possano contribuire alla elaborazione di concetti e soluzioni per la ‘famiglia di oggi’, conferendole profili di grande respiro ed attualità.

Premetto che, a mio avviso, l’eredità dei principî del diritto romano è attuale ancora ai nostri tempi ed è in grado di mostrare quanto siano lontane dalle radici della nostra civiltà le pretese di potere fondare la famiglia partendo da visioni ed idee individualistiche.

Sarà, in realtà, la mia una rivisitazione di punti noti da tempo agli interpreti e che sono stati oggetto di riflessioni e precisazioni già nell’antichità.

Il primo punto, che merita di essere evidenziato, risiede nel fatto che alle origini non si ebbe il matrimonio monogamico, bensí una forma di unioni definite come ‘matrimonio di classe’.

Per lungo tempo il pregiudizio eurocentrico ha impedito di cogliere molti tratti comuni tra le antiche civiltà dell’area mediterranea e le società ‘primitive’[iii].

Ove si abbandoni siffatta ottica pregiudiziale e ci avvalga dell’etnografia comparata, si riesce a cogliere aspetti caratterizzanti dell’aggregazione umana molto divergenti dall’oggi. In esse pare carta l’esistenza di forme di parentela senza gradi, che è conseguenza dell’originaria eguaglianza dei fratelli di egual sesso.

Il punto[iv] fu evidenziato in modo efficace da Lewis H. Morgan, attraverso le indagini condotte su alcuni gruppi di indiani del Nord America nella seconda metà del secolo scorso e alle risultanze delle ricerche etno-antropologiche[v]. È noto che Morgan, studiando i costumi matrimoniali degli Irochesi del Nord America, notò una sfasatura tra la terminologia di parentela adoperata e il sistema matrimoniale in atto, in America e (piú in generale) nell’area geopolitica dell’Occidente, che era quello della famiglia di coppia.

Presso i ‘nativi’ americani i figli estendevano l’appellativo di padre anche ai fratelli del padre e l’appellativo di madre anche alle sorelle della madre. A loro volta i maschi adulti chiamavano figli non solo i propri figli naturali, ma anche i figli dei fratelli, mentre le donne adulte estendevano l’appellativo di figlio anche ai figli delle sorelle. Gli stessi appellativi non si rivolgevano invece agli zii incrociati (fratello della madre, sorella del padre); né ai figli delle sorelle (per gli uomini) e ai figli dei fratelli (per le donne).

Morgan da ciò ipotizzò l’esistenza di una piú antica forma di matrimonio: quella di unioni collettive tra gruppi di fratelli e gruppi di sorelle. All’uopo egli parlò di sistema di parentela ‘classificatorio’, in origine assato sul ‘matriarcato’[vi].

Ricerche successive hanno confermato l’esistenza, presso varie popolazioni, di questa forma di matrimonio; peraltro attestata da fonti concernenti popoli dell’antichità, di ambiente indoeuropeo o propriamente italico[vii], e che trova riscontro, oltre che in taluni aspetti della religione romana, anche e soprattutto nei nomi latini di parentela. Va sottolineato che si tratta di pratiche risalenti ad alta antichità, di cui ovviamente non si ha piú traccia nella Roma di età storica.

Solo il principio di eguaglianza dei fratelli e la discendenza da forme di matrimonio collettivo possono spiegare la struttura di un gruppo come la gens e la sua parentela senza gradi. È controverso se in realtà sia stata proprio la gens (clan) la prima forma di aggregazione degli uomini. Al riguardo il Franciosi ha sostenuto che la familia, quale l’abbiamo poi conosciuta, nacque e si affermò in una successiva fase nel seno della gens sulla base dell’introduzione del matrimonio monogamico e della privatizzazione della ricchezza collettiva[viii]. Di recente ho espresso le mie perplessità sul punto, ipotizzando che un nucleo molto ristretto, che solo per approssimazione possiamo indicare come ‘famiglia’, possa aver preceduto la formazione di strutture piú ampie ed aventi valenze ‘politiche’, come la gens[ix]

Il fatto è che fino a quando l’uomo visse di pura raccolta (caccia, pesca, raccolta spontanea dei frutti del suolo e del sottosuolo) gli elementi aggreganti o di istituzionalizzazione delle forme di matrimonio furono estremamente labili. Il matrimonio era esogamico, come attesta Cesare per i Britanni, i quali si sposavano in gruppi di dieci o dodici (deni duodenique), per lo più per serie di fratelli (maxime inter se fratres) e serie di sorelle[x].

In questa fase la ricchezza ed il benessere erano creati da entrambi i sessi, come fa notare Tacito parlando dei Finni[xi]. Mentre la fertilità necessaria per assicurare piú procacciatori di ricchezza era appannaggio della donna, conferendo proprio al sesso femminile priorità e superiorità. Di ciò si sono trovati precise testimonianze, rivelate dall’archeologia, corroborata dalle poche ma indiziarie fonti relative alla prima antichità. Le quali sembrano convergere su un aspetto: l’esclusione di un’effettiva subordinazione della femmina al maschio; anzi “da tutto un quadro di riferimento, che tiene conto anche degli aspetti della religiosità più antica, emerge una maggiore importanza sociale della donna. Parlo di importanza sociale, non di matriarcato o di ginecocrazia, che rappresentano solo proiezioni istituzionali della società patriarcale in società che non conoscevano forme di potere domestico dispotico”[xii].

Al riguardo va dato grande merito al Bachofen, il quale, sia pure forse in modo troppo radicale ed esagerato, sostenne la superiorità e la prevalenza, nelle prime forme di organizzazione societaria, delle donne, ipotizzando l’esistenza di un potere di regolamentazione e comando delle donne, meglio definito dal termine Frauenherrschaft (comando/regola della donna), che egli preferí al consueto Mutterrecht (diritto della madre); il giurista e studioso svizzero sulla base di molte testimonianze delle fonti relative ad alcune popolazioni antiche come, Lici, i Lidi, gli abitanti delle isole Baleari, ipotizzò la preminenza della donna scaturente dal tipo di unioni finalizzate alla procreazione. In origine non vi erano matrimoni individuali, ma matrimoni di carattere collettivo e in relazione ad essi non vi era una supremazia dell’uomo sulla donna nel senso potestativo della famiglia romana, ma una superiorità sociale della donna sull’uomo, poiché le prime scoperte, se vogliamo utilizzare un termine un po’ anticipatorio, tecnologiche, sono opera femminile.

 

  1. Matriarcato.

Il che ha portato a ritenere che, in realtà, in origine nella società umana vi sia stato il matriarcato.

Lo ipotizzò proprio il Bachofen, il quale sostenne che l’organizzazione degli uomini abbia conosciuto tre forme, succedutesi nel tempo in progressione, di aggregazione: l’agamia o promiscuità seguita dal matriarcato, ed infine dal patriarcato[xiii].

Di questo percorso storico parrebbe conferma il fatto che sarebbero state donne anche le piú antiche divinità. In tutto il pianeta, infatti si riscontra una significativa fioritura di divinità femminili, per lo piú legate alla funzione ‘primaria’ della nascita della vita, della procreazione, fertilità. Si è, a tal proposito, parlato della Grande dea, all’origine del mondo e/o dell’universo: certamente della vita[xiv]. Del resto la stessa Terra era vista come una divinità femminile, Gaia[xv], mentre la frigia Cibele, importata in Roma come Magna Mater[xvi], era addirittura considerata come la ‘Madre degli dei’[xvii]. Accanto alla quale va ricordata, come divinità della nascita, il culto della Mater Matuta[xviii] e della dea Bona[xix] (Dea della fertilità, anch’essa chiamata ‘grande madre’[xx]. Era una Dea italica preromana e non proveniente dalla Grecia, anche se poi vi fu un’assimilazione con la Leucotea ellenica. La Dea risale al matriarcato e se ne hanno tracce visibili fin dal 1500 a.c. Ma della Grande Madre si hanno tracce in ogni parte del mondo, fino a 30.000 anni fa[xxi].

Anche negli altri continenti si può riscontrare un percorso simile: basti ricordare la dea della creazione Nüwa, in Cina[xxii]; la dea Devi in India[xxiii], la dea Mut nell’antico Egitto[xxiv]; senza omettere Pachamama: la grande Dea Madre, dea della terra, dell’agricoltura e della fertilità, del continente latino-Americano[xxv]. Se ne può agevolmente dedurre l’esistenza di assetti sociali se non incentrati intorno alla donna almeno tali da dare al sesso femminile rilevanza ed incidenza pari a quello maschile; con la consapevolezza che da esso dipendeva la crescita realizzata principalmente attraverso le gestazioni ed i conseguenti parti.

Da cosa sarebbe dipeso il matriarcato è discusso. Tuttavia si possono indicare alcuni punti che potrebbero avere contribuito alla supremazia delle donne:

  • la medicina. Mentre l’uomo va a caccia e a pesca, in branco, la donna resta presso la propria abitazione, la caverna, la capanna, a seconda che ci riferiamo al paleolitico o al neolitico. In seguito verrà la domus, in epoca più recente, quando la donna resterà in casa ed oltre ad accudire alle faccende domestiche, alcune delle quali sono molto importanti, con un bastone da scavo, un oggetto ritrovato a livello archeologico, comincerà a studiare le erbe e i tuberi. Anche l’invenzione della cottura dei cibi è un’invenzione femminile, si sviluppa una medicina embrionale, nel senso che studiando le erbe, la donna si accorge di quale erba è tossica e quale non lo è, di quale è commestibile e di quale non lo è. Quale ha certe proprietà farmaceutiche (farmacos) e quale queste proprietà non le ha. Inoltre anche la tessitura, come la ceramica, sono invenzioni femminili.
  • la riproduzione della specie. Di fronte ad un’umanità primitiva acquista un carattere mistico, sacro, inspiegabile. Anche perché il tempo che passa tra l’accoppiamento e la generazione è abbastanza lungo perché le popolazioni primitive abbiano ricordo di certi fatti.
  • Poi anche una serie di altre attività. Ad esempio la mantica, cioè l’arte del profetizzare, è propria dell’elemento femminile. Le Sibille, la Pizia e cosí via. Mentre a Roma l’arte del profetizzare è vietata perché si ritiene che la donna con le sue profezie possa mettere in pericolo la struttura rigidamente patriarcale che oramai ha assunto la società romana. In Grecia invece è praticata.
  • Infine lo stesso ciclo mestruale, che viene visto presso le popolazioni primitive col suo legame con le fasi lunari, come un carattere quasi sovraumano della donna. Questo collegamento con le fasi lunari è importante soprattutto se teniamo presente che presso tutte le cosmogonie primitive, la Luna, attraverso un’anticipazione che oggi gli scienziati tendono a corroborare, è vista come un frammento della Terra-madre. Vi è quindi un legame tra la donna-Luna e le prime divinità femminili
  • Vi è addirittura l’invidia del maschio: espresso nel paradossale rito della couvade[xxvi].
  • Persino Cesare, a chi (per la sua sospetta omosessualità) lo accusa di essere ‘donna’ e, di conseguenza, inidoneo ad imprese degne di nota, replicando in Senato ricordò che Semiramide era stata regina della Siria e le Amazzoni avevano dominato l’Asia, pur essendo donne; citando ciò non come riferimento ad un mito, bensí come fatti accaduti e noti[xxvii].

Se poi si considerano gli aspetti economici si può notare come nelle più antiche attività economiche non è dato intravedere una supremazia maschile: enim comitantur pariterque praedare petunt (invero vanno assieme e cacciano insieme) attestava Tacito; e la stessa iniziale divisione del lavoro (caccia, ricerca col bastone da scavo) unita alle attività artigianali femminili (filatura, tessitura, etc.) non legittimano una superiorità dell’elemento maschile. Al che va aggiunta l’importanza della maternità e dell’allevamento della prole nella società arcaica.

 

  1. Il patriarcato.

Tuttavia, se di ciò abbiamo molti indizi sono, invece, molte le testimonianze concernenti la struttura patriarcale della società.

Da cosa fu determinato tanto cambiamento radicale forse è agevole ricostruire.

La caccia, pur essendo praticata sia dai maschi sia dalle donne, come attestava Tacito parlando dei Finni[xxviii], per via delle ricorrenti gestazioni finí per diventare attività prevalentemente maschile. In una fase successiva, il desiderio/bisogno di avere maggiore certezza e stabilità riguardo all’approvvigionamento di derrate necessarie alla sussistenza spinse ad accantonare prodotti alimentari e bestiame, dando vita all’allevamento ed alla produzione, con conseguente appropriazione di un surplus sottratto all’immediato consumo del gruppo.

Subentrò per tal via la logica dell’appropriazione. Essa, però, si contrappose alla tradizionale logica del consumo collettivo (della selvaggina catturata o uccisa o dei frutti della terra colti sul momento), del quale conservava traccia il Gaio delle Res cottidianae[xxix]. Fu l’allevamento, il quale comportò anche la tendenza all’appropriazione del territorio (come sede di pascolo), a provocare il rovesciamento degli iniziali rapporti tra i sessi. Non per nulla i popoli allevatori presentano di regola strutture familiari patriarcali.

In tal modo fu innescato il meccanismo dell’accumulazione, che contrappose il ‘privato’ (nucleo ristretto organizzato intorno ad un solo individuo, che diventerà la ‘famiglia’ quale la conosciamo ancora oggi) al ‘sociale’ (clan, tribù).

È stato il Franciosi ad evidenziare questo passaggio, osservando che “la privatizzazione della produzione nei confronti del gruppo postula la privatizzazione del consumo e degli stessi consumatori della ricchezza prodotta o accumulata, tanto in vita quanto in morte del paterfamilias, vale a dire la privatizzazione della prole, prima allevata collettivamente all’interno del gruppo, come mostrano numerose testimonianze relative al mondo antico. Ma la certezza della paternità si ottiene solo con l’istituzione del matrimonio monogamico e con l’obbligo di fedeltà della donna, la cui violazione è punita con la morte”[xxx].

In altre parole, se prima per i figli, allevati collettivamente dal clan, non era rilevante conoscere la paternità ora, con il desiderio di trasmettere loro (e soltanto a loro) quanto si sia accumulato nasce il bisogno di avere certezza che siano veramente i propri figli. Al che non poteva piú dare risposta adeguata il ‘matrimonio di classe’. Occorreva, invece, introdurre un sistema riproduttivo che potesse garantire con certezza la provenienza di ciascun neonato. Questo poteva essere assicurato soltanto dall’unione nella quale la donna si potesse unire soltanto con un solo uomo. Perciò, progressivamente si assisté alla scomparsa del matrimonio di gruppo ed all’affermazione del matrimonio monogamico.

La trasformazione che ne conseguí fu accompagnata da una specifica elaborazione filosofica e concettuale, dalla quale scaturí la concezione patrimoniale della famiglia, con conseguente esaltazione del ruolo e del potere del capo-famiglia (paterfamilias)[xxxi], l’obbligo di fedeltà inteso (unilateralmente) come fedeltà della moglie; nel senso che essa non solo doveva pensare solo al marito ma doveva seguirne le sorti. Cioè, per es. se si candidava lo doveva sostenere alle votazioni, se aveva dei nemici si doveva schierare dalla parte del marito e non dalla parte dei nemici. In altre parole si trattava sí di fedeltà (per cosí dire) di vita, ma profondamente diversa da come la concepiamo noi. Per noi la fedeltà significa rapporto affettivo, fisico esclusivo e invece qui significa soprattutto rapporto sociale, cioè stare dalla parte del marito e questo fa sí che la donna viva la propria vita in funzione del marito.

Ne conseguí l’accentuazione dei vincoli parentali del lato maschile (adgnatio) e la successione nell’eredità (per lungo tempo) soltanto in linea maschile[xxxii].

Questa nuova formazione costituí la familia e si distaccò progressivamente dal piú ampio gruppo originario della gens[xxxiii], sicché “Le due formazioni `familiari’, strutturalmente e storicamente diverse, conosciute dall’antica società romana sono cosí da un lato la famiglia – nata sulla base della privatizzazione della ricchezza e della monogamia istituzionalizzata – dall’altro la gens, organismo più antico, sorto in epoca remota da un diverso regime matrimoniale di carattere collettivo ed esogamico”[xxxiv].

 

  1. Familia in Roma.

Passando all’esperienza romana va notato che il termine familia non era originario né di Roma né, piú in generale dei Latini; inoltre in origine aveva significati esclusivamente patrimoniali[xxxv].

Sull’origine del vocabolo abbiamo una testimonianza indiscutibile, che ne afferma l’origine dagli Osci. È quella Festo[xxxvi], il quale afferma che il termine pare sussunto da una voce osca indicante la servitù[xxxvii]:

Festi (L. 77) v. famuli: Famuli origo ab Oscis dependit, apud quos servus famel nominabatur, unde et familia vocata.

(Tr.: voce famuli. L’origine di famuli deriva dagli Osci, presso i quali il servo era detto famel, di lí deriva il termine familia).

In Roma il termine fu rivestito di diversi significati: soleva essere adoperato per indicare l’insieme dei ‘viventi’ raggruppati in una domus[xxxviii] e costituenti un organismo unico ed unitario sotto il potere del paterfemilias[xxxix], con un linguaggio normalmente declinato al maschile[xl]. In quest’accezione, il termine era riferito sia agli uomini (filii, mogli, altri liberi sottoposti a vario titolo alla potestas del padre, schiavi) sia agli animali.

In molti contesti, poi, familia si trovava utilizzato assieme a pecunia: in questo caso l’endiadi familia pecuniaque comprendeva ‘gli schiavi ed il bestiame’, ma verso la fine della Repubblica assunse il significato di patrimonio[xli].

Perciò va subito chiarito che familia, nell’uso del linguaggio giuridico romano, indicava realtà molteplici e meno univoche rispetto a quelle espresse oggi con ‘famiglia[xlii]. Nel tentativo di ripercorrerne la storia e di riassumerne i significati il giureconsulto Ulpiano tenta di individuare due filoni principali dei significati attribuiti a familia; infatti egli individuava una bipartizione primaria nei significati del termine, precisando che essi dovevano essere suddivisi in due gruppi (genus) fondamentali: quello nel quale familia concerneva le cose (i beni) e quello nel quale con esso si voleva guardare alle persone:

  1. 50. 16. 195. 1, Ulp. 46 ad ed.:Familiae” appellatio qualiter accipiatur, videamus. et quidem varie accepta est: nam et in res et in personas deducitur. In res, ut puta in lege duodecim tabularum his verbis “adgnatus proximus familiam habeto”. Ad personas autem refertur familiae significatio ita, cum de patrono et liberto loquitur lex: “ex ea familia”, inquit, “in eam familiam”: et hic de singularibus personis legem loqui constat[xliii].

(Tr.: Vediamo in che modo – s’intende nella rubrica edittale – sia usato il termine ‘familia’. In verità esso ha assunto diversi significati: infatti viene adoperato sia riguardo ai beni sia riguardo alle persone. Riferito ai beni come, ad esempio, nella legge delle XII tavole con queste parole “l’agnato prossimo avrà la familia”. Riguarda invece le persone il significato di familia quando la legge in merito ai rapporti tra patrono e liberto dice “da quella familia” o “in quella familia”: e qui risulta che la legge parla delle persone singole.

Nell’età più antica familia indicava le cose (vale a dire il patrimonio)[xliv], come appare chiaro dalle XII tavole, le quali nella prescrizione adgnatus proximus familiam habeto usavano il termine per indicare l’asse ereditario.

Un particolare uso del termine registrava i casi nei quali familia era stato usato per indicare un corpus, riconosciuto dal diritto come unitario sebbene composto da molte persone[xlv].

Punto essenziale nella concezione della familia fu sempre un dato: la derivazione dal diritto; essa non dipendeva esclusivamente da connotazioni (che pure potevano esserci), quali (ad esempio) il matrimonio e la filiazione, quanto, piuttosto, dalla qualificazione giuridica.

La quale prefigurava come familia anche il singolo individuo: lo attesta espressamente Ulpiano:

  1. 50. 16. 195. 2: …. Pater autem familias appellatur, qui in domo dominium habet, recteque hoc nomine appellatur, quamvis filium non habeat: non enim solam personam eius, sed et ius demonstramus: denique et pupillum patrem familias appellamus. Et cum paterfamilias moritur, quotquot capita ei subiecta fuerint, singulas familias incipiunt habere: singuli enim patrum familiarum nomen subeunt. Idemque eveniet et in eo qui emancipatus est: nam et hic sui iuris effectus propriam familiam habet.

(Tr.: Poi si chiama padre della famiglia chi ha il cominio nella casa e correttamente viene contrassegnato con questo nome anche se non abbia figli: ciò perché indichiamo non soltanto la persona ma la posizione giuridica; sicché anche può accadere di chiamare padre di famiglia anche il pupillo. Inoltre quando muore un padre di famiglia tutti i suoi sottoposti cominciano ad avere una propria famiglia: infatti ciascuno eredita il nome di padre di famiglia. Lo stesso accade per l’emancipato: infatti anche costui, divenuto sui iuris, ha una famiglia sua).

Il giurista esplicitava i casi nei quali la familia era considerata tale anche se composta da una sola persona, cioè da un solo pater familia: chi non avesse figli, l’orfano ancora impubere e sotto tutela, l’emancipato (s’intende, ancorché ancora singolo). Infine il giurista ricordava che alla morte del padre tutti i figli, a lui sottoposti, diventavano autonomi e ciascuno con una propria famiglia.

In conclusione la familia era frutto della creazione giuridica. La quale non era frutto di visioni arbitrarie, ma era conseguenza del modo di considerare l’uomo nel complesso della collocazione e delle finalità spettanti gli all’interno delle entità di appartenenza: che erano il Cosmo e la Civitas.

Nell’antichità e, per quel che ci concerne a Roma si riteneva che la ‘vita’, compresa quella umana, fosse inserita in un “ciclo”, non dipendente dagli uomini ma regolato da leggi di valore cosmico. Esso[xlvi] imponeva una profonda religiosità, intesa come consapevolezza di appartenere ad un ordine trascendente dell’universo, che abbracciava in un unico afflato le stagioni dell’uomo assieme (ad esempio) alle stagioni dei campi, all’alternanza del giorno con la notte, ai movimenti del sole e delle stelle, all’esistenza di momenti ineludibili: la nascita, la fanciullezza, la maturità, la vecchiaia erano ritenute scansioni universali e valide sia per gli uomini sia per le città. Esse erano percepibili e quantificabili attraverso la legge dei numeri, capaci di incorporare ed esprimere i dati relativi al corso dell’intero universo e (dentro di esso) al ciclo della vita[xlvii].

Il tutto era filtrato dalla convinzione che ci fosse nell’universo e corrispondesse alla legge di natura un andamento di nascita, crescita, decadenza e morte, avente valore generale ed universale[xlviii]. Quest’idea, derivava certamente dall’osservazione di quanto accadeva per gli uomini, ma era applicata anche alla loro collettività organizzata: la Civitas, struttura di confluenza dei singoli, era, infatti, considerata in termini di sviluppo fisiologico, secondo una diffusa tendenza, la quale interpretava la storia di Roma come lo sviluppo di un organismo vivente[xlix], inserito nel ciclo terrestre, al cui centro vi era l’uomo; il quale pertanto era preesistente ad altre forme di aggregazione

Nel ‘ciclo’ vitale universale la Civitas non era l’antecedente, bensí la fase successiva dell’organizzazione degli uomini. Prima vi era l’uomo, il quale nasceva in una familia[l]. A tale conclusione mi pare condurre la considerazione del ruolo e dell’importanza avuta dai sacra, sia per i singoli sia per le collettività.

Invero, la familia ebbe profili che la concepirono come unica entità, modellata sotto il potere di un capo (il paterfamilias), ma senza escludere che i componenti, liberi e servi, avessero posizioni e ruoli propri, rilevanti anche autonomamente, come sicuramente avveniva riguardo ai sacra. Il termine stesso, com’è stato evidenziato, faceva capo ad una nozione concreta della ‘collettività’[li], formata da uomini con le loro prospettazioni terrene e soprannaturali, che per noi non è semplice cogliere, perché di frequente siamo spinti a sottovalutare l’importanza e l’incidenza dei sacra nella società romana[lii], non percependo appieno le implicazioni derivanti dal fatto che essi scandivano ogni aspetto ed ogni momento della vita dei Romani[liii]. I sacra privata erano espressione dell’uomo e delle sue forme associative fondamentali.

Nell’età arcaica e nella prima fase della Respublica la ‘famiglia’ era inserita profondamente nella propria gens e, sempre, lo fu nella Civitas. Questo fece sí che i comportamenti dei suoi membri e soprattutto del pater fossero oggetto dell’attenta e severa valutazione dei Censori.

Il tutto era considerato espressione di leggi universali del Cosmo.

Si ritenevano esistenti quasi dei ‘cerchi concentrici’ nei quali si realizzava il cammino dell’uomo e nel quale anche la famiglia faceva parte, come prima cellula base. In essi “i due estremi sono l’umanità e la famiglia, la cellula minima di cui il singolo individuo fa parte; fra questi estremi si situa lo stato, un’istituzione insieme naturale e storica[liv].

Di siffatta prospettazione, alla fine della Respublica, dava lucida testimonianza Cicerone, nel De officiis[lv].

L’Arpinate nell’esame della societas hominum, tratteggiava la successione dei modelli che storicamente avevano connotato l’organizzazione della società[lvi], con l’intento di specificarne il fondamento e la giustificazione. La sua conclusione era che tutte le forme esistenti erano stabilite dalla natura (prima che dagli uomini)[lvii], attraverso un intreccio insolubile di legami vari ed articolati, talora anche di difficile intellezione, al cui centro si trovava la famiglia.

Per tale via la famiglia costituiva il nodo di ogni organizzazione e dell’intera umanità.

La concezione della famiglia per tale via rifletteva le idee sul rapporto natura-società; le quali nell’opera dell’Arpinate seguivano le tracce segnate dalla disputa (sollevata dai pensatori greci) tra chi riteneva che l’unico ordine naturale dovesse essere l’intera umanità e chi legittimava la divisione degli uomini in base alla cittadinanza. Cicerone, il quale esponeva concetti largamente condivisi, riteneva che la Città, con l’esclusività del rapporto di appartenenza riservato ai cives, fosse il modello di riferimento dell’uomo e derivasse dalla natura, poiché i princípi della natura non si realizzavano attraverso un agglomerato unico (quale sarebbe stata l’umanità nel suo insieme), bensí attraverso una scala i cui gradini erano costituiti da modelli di aggregazione, tra se intersecati, che si ampliavano in forme di grandezza crescente, immaginate come cerchi concentrici di differente ampiezza. In questa progressione di forme ognuno trovava la sua posizione, la quale postulava l’appartenenza sia ad un gruppo più ristretto sia al gruppo più ampio nel quale il gruppo ristretto si inseriva. Erano la gamma e la progressività dei raggruppamenti a conferire le motivazioni e le giustificazioni a ciascun gruppo ed a realizzare i princípi della natura.

Nel contesto ideologico e culturale del tempo, si era poi convinti che, per quanto varie potessero essere le forme d’organizzazione, ve n’era una esistita ed esistente sempre, in ogni tempo, presso tutti i viventi, uomini ed animali: la famiglia.

Essa non poteva essere fine a sé stessa, ma doveva integrarsi ed armonizzarsi con la gradualità e le altre forme d’aggregazione della società umana ed era regolata dalla Natura.

 

  1. Famiglia e Natura.

val la pena esaminare piú da vicino la indicazione in base alla quale la famiglia sarebbe basata sulla ‘natura’, la quale trova eco in enunciazioni anche contemporanee; come quella della Costituzione italiana, dove esplicitamente si opera un accostamento tra famiglia e natura:

 

Art. 29 La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.

 

Poiché, dunque, la convinzione dell’esistenza di una sinapsi tra famiglia e natura, come criterio limitante e nel contempo ispiratore del diritto, è ancora viva[lviii], vale la pena sforzarsi di risalire alle origini e, nello specifico, al pensiero romano.

Anche qui partirei dall’essenziale pensiero di Cicerone.

L’Autore romano affermava l’esistenza di principî dettati dalla ‘natura’ per le comunità e le società umane. Tra essi il primo era costituito dalla ratio e dalla capacità di comunicazione e persuasione della parola. Questo principio valeva per l’umanità considerata nella sua globalità[lix] e serviva ad affratellare gli uomini, congiungendoli in una ‘società naturale’. Esso tuttavia non era da solo bastevole: si doveva integrare con l’altro principio, espressione anch’esso della legge universale comune a tutti i viventi, consistente (come l’Arpinate specificava nel successivo § 54) nell’aspirazione/necessità di procreare, la quale esigeva l’unione tra maschio e donna nel matrimonio. Di conseguenza, veniva dichiarata l’essenzialità e la priorità della procreazione, considerata fine primario ed insopprimibile della natura e della società umana. Essa imponeva il matrimonio come perno della famiglia e, precisava l’Arpinate, era la base per la Respublica, la quale da essa traeva origine, tanto che, per questa via, la famiglia poteva essere considerata “principium urbis et quasi seminarium rei publicae[lx].

Cicerone, in tal modo, poneva la famiglia alla base del processo di formazione della città garantendone la permanenza.

Attraverso i riferimenti all’urbs ed alla res pubblica Cicerone intendeva sottolineare due aspetti complementari ma non del tutto identici. Da un lato la formazione della città: essa era stata opera delle famiglie. Dall’altro lato la vita, la persistenza della comunità: essa non poteva avvenire senza le famiglie, poiché senza le famiglie la città stessa non poteva perseguire il suo scopo.

I giureconsulti adottarono anch’essi questa visione che permeava l’esperienza del loro tempo. Ne è conferma un passo di Ulpiano:

  1. 1. 1. 1. 3, Ulp. 1 Inst.: Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit: nam ius istud non humani generis proprium, sed omnium animalium, quae in terra, quae in mari nascuntur, avium quoque commune est. Hinc descendit maris atque feminae coniunctio, quam nos matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio, hinc educatio: videmus etenim cetera quoque animalia, feras etiam istius iuris peritia censeri.

(Tr.: Il diritto naturale è quello che la natura ha insegnato a tutti gli esseri animati: infatti, questo diritto non è proprio del genere umano, ma è comune a tutti gli esseri animati che nascono in terra, in mare, ed è comune anche agli uccelli. Da qui deriva l’unione del maschio e della femmina, la quale unione noi chiamiamo matrimonio; da qui deriva la procreazione dei figli; da qui l’educazione. Vediamo, infatti, che anche tutti gli esseri animati, comprese le fiere, sono considerati in modo congruo nel diritto).

Già ictu oculi il commento ulpianeo dimostra una considerevole coincidenza con i brani di Cicerone, del quale sembra quasi una parafrasi. Vi è un’indubbia vicinanza tra il brano di Ulpiano e quelli di Cicerone, nonostante la distanza temporale. Essa non è immotivata né astorica, perché Cicerone era letto e conosciuto dai giuristi del Principato[lxi]. I suoi riferimenti alla natura dovevano trovare facile accoglienza per il fatto che le nozioni di ‘natura’ e di ‘diritto naturale’ avevano avuto grande penetrazione nella letteratura giuridica ed erano state alla base della costruzione del concetto di ius naturale, corrente sino all’età dei Severi. Di ciò è pienamente persuasa l’ultima dottrina[lxii], la quale ha posto in chiaro le ascendenze pitagoriche ed empedoclee della nozione di diritto naturale[lxiii], peraltro evidenziate già da Cicerone[lxiv].

In conclusione, non mi pare azzardato generalizzare sino ad affermare che in tutta l’esperienza del diritto romano vi è stata la convinzione che da un lato la famiglia derivava dal diritto naturale e come tale non poteva dipendere dal ius civitatis (cioè, diremmo oggi, dalle leggi dello Stato), dall’altro che essa assolveva ad una finalità primaria costituita dall’apporto all’accrescimento della collettività e della Respubblica.

Mi pare doveroso tener conto, anche per la familia, della sua stretta connessione con un’idea fondamentale in tutto il mondo antico: l’antichità è permeata e dominata da un’aspirazione/esigenza: quella della crescita.

Nell’area mediterranea, ad esempio, la promessa di ‘crescita’ impernia profondamente il patto di Dio con Abramo ed Israele. Segno della benevolenza di Dio stesso, reiteratamente nella Bibbia, appare ravvisata nella crescita l’aspirazione e la proiezione piú profonda e costante dei popoli[lxv].

Roma e la sua storia denotano che la ‘crescita’ era la finalità, ma anche come ‘esigenza’ primaria, dell’umanità, della società umana, della Civitas, della familia.

Alla crescita attenevano anche i termini con i quali si faceva riferimento alla Comunità.

Invero, la parola pop(u)lus, usata per indicare la collettività dei Romani, pare derivata da una radice mediterranea importata dagli Etruschi ed equivalente a ‘crescere’[lxvi]. Di modo che i termini ‘popolo’ e ‘pubblico’ erano la proiezione nel linguaggio dell’idea della crescita e tutto lo sviluppo di Roma e la sua storia erano concepiti in termini di crescita.

Un riflesso ed insieme una conferma si può scorgere nel diverso modo di considerare quella che noi chiamiamo ‘capacità giuridica’.

Gli ordinamenti odierni, com’è noto, attribuiscono la (cosiddetta) capacità giuridica alla nascita della persona fisica e l’idoneità all’effettivo esercizio dei propri diritti (capacità giuridica) al raggiungimento della maturità intellettiva e psicologica (presuntivamente fissata ad un’età che varia tra i 18 ed i 21 anni). Nel sistema romano, invece, si aveva come punto di riferimento il fatto di non essere sottoposti all’altrui potestas e, per l’esercizio effettivo dei diritti la pubertas, la quale segnava anche il momento della partecipazione alla vita pubblica con l’ingresso nel comizio centuriato[lxvii].

Il motivo del riferimento alla pubertà e non alla maturità intellettiva[lxviii], della cui assenza nel fanciullo divenuto pubere (ad appena 14 anni se maschio, a 12 se donna) i Romani erano consapevoli[lxix], risiedeva proprio nell’idea che fosse l’idoneità a contribuire alla ‘crescita’ (con l’acquisizione della maturazione sessuale e quindi della possibilità di procreare) lo spartiacque della condizione delle persone. Inoltre presso di loro era convinzione corrente che la pubertà desse vita ad una rinascita della persona[lxx]. Era la pubertà lo spartiacque tra l’infanzia e l’adolescenza, ravvisato non nella maturità di pensiero, bensí nella capacità di contribuire o no alla ‘crescita’ della comunità[lxxi]. Perciò, il pubere, con l’acquisita capacità di procreare e, di conseguenza, ad accrescere la propria comunità (familia e Res Publica)[lxxii] era riconosciuto come uomo del tutto idoneo a svolgere le attività politiche e le negoziazioni giuridicamente rilevanti[lxxiii], entrando a far parte del comizio ed acquistando pieno rilievo riguardo al diritto pubblico e alla possibilità di far parte dell’esercito, di partecipare alla conquista ed alla divisione del bottino.

Il raggiungimento della pubertà era reso noto dai ‘padri’ dei fanciulli, i quali, a testimonianza dell’avvenuta pubertà, presentavano in pubblico i figli, in occasione della festa primaverile dei Liberalia[lxxiv], evidenziando il legame stretto esistente tra i cicli della vita e la natura[lxxv].

Parallelamente anche le donne fu seguito un percorso analogo: entravano nella società attraverso l’ingresso nella familia, che era visto come l’analogo dell’ingresso dei maschi nel popolo. Per esse, pertanto, il matrimonio era corrispettivo a quel che per i maschi era la presentazione in pubblico durante i Liberalia.

Per le fanciulle, “la via seguita fu quella dell’estensione alle donne di concetti elaborati per la pubertà maschile … la tendenza fu quella di applicare progressivamente alle ragazze idee e nozioni elaborate per i maschi. Ciò avvenne secondo un percorso tracciato e guidato dai giuristi”[lxxvi]. Ma mentre per i maschi la pubertà segnava il passaggio dalla familia alla Civitas, per le donne era il passaggio dalla propria ad una nuova famiglia, attraverso il matrimonio; cui erano destinate dai padri. Sicché era il matrimonio a segnare l’ingresso della fanciulla (e, piú in generale, della donna) nella vita sociale[lxxvii]. Per la donna la pubertà non era espressa dal termine puber, bensí da viripotens: indicativo della sua capacità sessuale e con il quale si volle evidenziare che il suo ingresso nella collettività era funzionale alla procreazione (e con essa alla crescita della famiglia e della città), in relazione alla quale ella doveva coadiuvare il maschio. Fu, perciò, al matrimonio che si guardò definendo la maturità delle donne come capacità di virum pati. L’espressione, infatti, non costituí un semplice richiamo all’idoneità della donna al rapporto sessuale, ma intese riferirsi alla possibilità della donna di unirsi in matrimonio, per la realizzazione della funzione procreativa riconosciuta in via primaria e prevalente agli uomini. Essa, pur riferendosi alla maturità della donna, ne coglieva la posizione passiva (rispetto all’uomo) attribuitale nella concezione del matrimonio antico[lxxviii].

Pertanto tra pubertà maschile e matrimonio vi era un perfetto parallelismo: l’una per i maschi, l’altro per le donne segnavano l’abbandono dei costumi, dei giochi, e dei simboli augurali della fanciullezza e il passaggio alla nuova vita `produttiva’ nella collettività o in un’altra famiglia[lxxix]: Varrone ci ha lasciato testimonianza della consapevolezza di questo parallelo nella riflessione degli stessi Romani, a proposito dell’imposizione del praenomen, che per i maschi avveniva al momento dell’assunzione della toga virile (simbolo della raggiunta pubertà: v. sopra, cap. prec., ntt. 57-61) e per le donne al momento del matrimonio (“pueris non prius quam togam virilem sumerent, puellis non ante quam nuberent praenomina imponi moris fuisse. Q. Scaevola auctor est” – “risale a Q. Scevola il principio secondo il quale sarebbe radicato nel costume l’uso di non dare il prenome ai maschi prima dell’assunzione della toga virile e alle donne prima del matrimonio.[lxxx]

In tal modo la viripotenza fu definita non solo in base alla fisiologia femminile, ma anche e forse in via prioritaria in relazione alla capacità complementare della donna di consentire la realizzazione della capacità procreativa del pubes, dal cui concetto si partí per individuare la `viripotens‘ (in antico virapatiens).

Di ciò ci offre chiara testimonianza ancora una volta Festo[lxxxi]:

Festi Th. 330. 6: _ ||Pubes et qui + pubem generare potest; his + incipit || esse a quattuordecim annis: femina aquodecem + || viri potens, sive patiens ut quidam putant |

(Tr.: Th 330. 6: Pubere è chi può generare la ‘pube’; questi comincia ad esserlo da quattordici anni mentre le donne da dodici viripotenti o sopportanti, come ritengono alcuni).

Festi L. 296. 18: _||Pubes + et qui pubem + generare potest. Is incipit || esse a quattuordecim annis: femina a duodecim || viri potens, sive patiens, ut quidam putant

(Tr: L. 296. 18: _Pubes e chi …. può generare pubem – da intendere il pubere, per la maggior parte dei commentatori, la pubes, secondo la mia lettura -. Egli comincia ad essere tale a quattordici anni: la femmina da dodici diventa viripotente o virisopportante, secondo quanto alcuni ritengono).

Da queste concezioni furono, pertanto, profondamente marcati sia il fidanzamento sia il matrimonio.

E proprio il collegamento della capacità matrimoniale alla pubertà consentí alla giurisprudenza romana di apporre un argine all’uso, piuttosto, frequente di dare le fanciulle in sposa quando erano ancora bambine, dando vita al deprecabile e dilagante costume dei ‘matrimoni precoci’.

Era costume dei Romani dare spesso le fanciulle date in nozze troppo prematuramente. come denunciava Tacito, contrapponendo questo (per lui deprecabile) costume con quello dei Germani. I quali consentivano alle fanciulle di irrobustire il proprio corpo, vivendo libere all’aria aperta (nei campi e nelle selve) prima di destinarle alle nozze, senza l’eccessiva fretta (da lui stigmatizzata) con la quale i Romani collocavano le proprie figlie in matrimonio[lxxxii]; il tutto a somiglianza ed in analogia con la natura, che in Primavera fa fiorire campi, alberi e uomini.

Tale costume era posto in evidenza dagli storici del 1° secolo dell’Impero.

Plutarco vi si soffermava dandone una sua giustificazione, che prescindendo la formazione fisica, era riferita alla capacità di comprendere il senso dell’unione e dava alla fanciulla l’opportunità di conoscere a fondo la famiglia in cui confluiva. Nel paragone tra Licurgo e Numa Plutarco affermò i matrimonî precoci perché miravano soprattutto alla formazione del carattere:

 

Plut., Numa 26.1-3:1. Pure la scelta dell’età in cui maritare le fanciulle s’accorda con i due diversi sistemi di educazione. Licurgo volle che sposassero quand’erano mature e desiderose di amore, affinché il rapporto con l’uomo, seguendo la natura, fosse fonte di piacere e d’amore, anziché di odio e di paura, come avviene forzando la natura. Inoltre a quell’età i corpi sono sufficientemente robusti per sopportare il concepimento e le doglie del parto: e secondo Licurgo le donne non si sposava per altro che per la funzione procreatrice. 2. Invece i Romani maritavano le fanciulle a dodici anni e anche meno, perché convinti che soprattutto cosí lo sposo poteva trovare un corpo puro e dei costumi casti. è chiaro quindi che il primo sistema si curò più della natura, avendo di vista la procreazione dei figli, il secondo degli aspetti morali e di carattere, dando preferenza alla convivenza comune.

Nel racconto di Plutarco assumono peso alcuni punti indicativi: il riferimento alla disciplina giuridica, vista con l’ottica del tempo in cui avveniva la narrazione; la menzione dell’odio e della paura, che, anche se non attribuiti direttamente alle unioni romane, veniva detta presente in tutte le unioni precoci; il richiamo alla finalità paideutica della formazione del carattere. Questi aspetti, mi pare, consentano di cogliere nelle finalità del matrimonio anche una nozione di “idoneità” della donna non necessariamente ed esclusivamente legata alla capacità sessuale. Anzi, poiché si parlava di unioni che potevano avvenire con paura e timore (mísous kai fóßou), che non sarebbero esistiti dopo la formazione fisica (pubertà), se ne dovrebbe dedurre che, almeno nella sua impostazione prima, il concetto di capacità al matrimonio si dovesse risolvere nel fatto che le ragazze fossero pronte a ricevere quella formazione del carattere che rendeva solide le unioni, senza specifico riferimento, quindi, alla pubertà. Che però i matrimonî precoci non escludessero la convivenza maritale pare confermato dal passo di Tacito (a quel che mi risulta, finora non tenuto presente dagli Autori che si sono occupati dei matrimonî precoci) che esaltava la considerazione per la reale maturità, fisica e psichica, delle donne avuta dai Germani e non dai Romani:

Tac. Germania 20.4: Sera iuvenum venus, eoque inexhausta pubertas. Nec virgines festinantur; eadem iuventa, similis proceritas; pares validaeque miscentur, ac robora parentum liberi referunt.

(Tr.: Incominciando tardi a fare l’amore, i giovani esauriscono tardi la loro potenzialità virile. Le vergini non vengono spinte a matrimoni precoci; pari agli sposi per l’età e la statura, si uniscono con essi in comune vigoria, trasferendo nei figli la robustezza dei genitori).

L’ancoramento del concetto di capacità matrimoniale con quello di pubertà deve essere stato una innovazione rispetto ad un primo concetto più ampio. Esso fu introdotto dalla Jurisprudentia, la quale, per tal via, riuscí a porre un limite all’arbitrio dei padri di famiglia.

Nel suo senso, ad opera di una delle due scuole in cui si svolse il pensiero giuridico romano (quella dei Proculiani) si arrivò a stabilire il numero di anni nel quale si poteva dire raggiunta la pubertà: 14 anni per i maschi e 12 per le donne.

La scelta di quelle date dipese dalla volontà di ancorare un momento cosí decisivo all’ordine universale del cosmo espresso dal numero 7 (nodus totius universi, secondo Cicerone), perché “Tante e tali erano le virtú attribuite al ‘sette’ che il numero fu assunto come simbolo dell’eccellenza, nell’ordine della natura…”[lxxxiii]. 14 era multiplo di 7, che tra l’altro era un numero maschile, come tutti i numeri dispari. Per la donna si indicò un numero femminile, cioè un numero pari, anticipato, perché si credeva che la donna maturasse prima del maschio e la differenza, indubbiamente dovuta alla preoccupazione nascente dalla pressione dei patres familias, potrebbe anche essere retaggio delle ancestrali visioni concernenti il primato delle donne. Sta di fatto che la numerologia antica elaborò numeri di riferimento differenti per maschi e donne. Tale diversità nel 6° secolo era ancora diffusa: ce ne dà testimonianza Macrobio, il quale evidenziava la circostanza, sostenendo che erano di sesso maschile i numeri dispari e femminili quelli pari:

Macrob., Com. 1.6.1 …Nam impar numerus mas et par femina vocatur, item arithmetici imparem patris et parem matris appellatione venerantur

(Tr.: Infatti il numero dispari è maschio e quello pari è femmina, di conseguenza i matematici onorano come padre il dispari e come madre il pari).

Di modo che potrebbe essere parso opportuno far derivare la pubertà dalla duplicazione del numero maschio ‘sette’ e la viripotenza da quella del numero, pur esso dotato di potestà apprezzabili, femmina sei. Che effettivamente ciò sia accaduto non ce lo conferma nessuna fonte in via diretta. Vi è tuttavia una testimonianza che sembrerebbe rivelatrice. Macrobio, nel punto in cui riassumeva concetti di Ippocrate, Stratone peripatetico e Dione Carisio, affermava che si era ritenuto più precoce la formazione delle femmine rispetto a quella dei maschi: infatti le prime raggiungevano la completa formazione nel grembo materno alla sesta settimana, mentre i secondi solo alla settima.

Macrob., Com. 1.6.66 … si quidem femina fabricatur, sexta hebdomade membra iam dividi: si masculus, septima

(Tr.: … se è in gestazione una donna le membra si articolano alla sesta settimana, se un maschio, alla settima).

Proiettata nel successivo sviluppo, questa dottrina avrebbe per l’appunto significato che la formazione della donna era più celere di quella dell’uomo e che, di conseguenza, anche la pubertà (che designava il momento in cui il ragazzo era completato e pronto per la società) risultava anticipata in base al multiplo di sei per le ragazze e di sette per i ragazzi.

 

  1. Sponsalia e Matrimonium.

Ne conseguí che, come in altre materie, nel matrimonio i giuristi poterono sostenere che fosse necessario aver compiuto 14 anni, per i maschi, e 12 anni per le donne. Queste date furono stabilite, non senza resistenze anche per motivi di certezza e per porre un argine all’arbitrio dei patres.[lxxxiv].

Pur se palesemente inadeguate le età indicate, talvolta con rigore in età repubblicana, come sappiamo di Servio Sulpicio Rufo, che non riconosceva nessuna conseguenza alle nozze contratte prima di quelle età, si scontravano con la menzionata prassi dei ‘matrimoni precoci’. Essa appare diffusa in tutta l’esperienza romana, compresa il periodo cristiano e trovò comprensione presso gli stessi giureconsulti, durante il Principato: ne è testimonianza un brano di Salvio Giuliano, il quale sostenne che occorreva benevolenza verso il padre che avesse dato in moglie la figlia ancora fanciulla, perché, a suo dire, l’avrebbe fatto ‘per affetto’:

  1. 27. 6. 11. 3-4, Ulp. Libro trigesimo quinto ad edictum: Iulianus libro vicesimo primo digestorum tractat, in patrem debeat dari haec actio, qui filiam minorem duodecim annis nuptum dedit. Et magis probat patri ignoscendum esse, qui filiam suam maturius in familiam sponsi perducere voluit: affectu enim propensiore magis quam dolo malo id videri fecisse.

(Tr.: Giuliano, nel libro ventunesimo Dei Digesti, si domanda se questa azione debba essere data nei confronti del padre, il quale dette in nozze una figlia minore di dodici anni. E ritiene piú condivisibile che si debba preferire di perdonare al padre, che prematuramente volle dare la figlia in nozze facendola entrare nella casa del fidanzato: si deve, infatti ritenere che egli agí piú per affetto che non con dolo”).

Giuliano, cosí come, prima Nerazio[lxxxv], è restio a non dare nessun riconoscimento al matrimonio precoce e riteneva che l’aver fatto entrare in casa del marito una fanciulla non ancora dodicenne non dava sí vita ad un matrimonio, ma non era privo di effetti; perché avrebbe, comunque, costituito un fidanzamento. La sua soluzione (rectius, il suo artificio) non ebbe fortuna, tanto che Ulpiano, nel riferirlo, si affettava a negare che quella costruzione avesse fondamento e potesse essere accolta:

  1. 24. 1. 32. 27, Ulp. Libro trigesimo tertio ad Sabinum: Si quis sponsam habuerit, deinde eandem uxorem duxerit cum non liceret, an donationes quasi in sponsalibus factae valeant, videamus. Et Iulianus tractat hanc quaestionem in minore duodecim annis, si in domum quasi mariti immatura sit deducta: ait enim hanc sponsam esse, etsi uxor non sit. Sed est verius, quod Labeoni videtur et a nobis et a Papiniano libro decimo quaestionum probatum est, ut, si quidem praecesserint sponsalia, durent, quamvis iam uxorem esse putet qui duxit, si vero non praecesserint, neque sponsalia esse, quoniam non fuerunt, neque nuptias, quod nuptiae esse non potuerunt.

(Tr.: Se uno ebbe una fidanzata e poi la sposò pur non essendo lecito, dobbiamo vedere se le donazioni valgono considerandole come se fossero state fatte nel fidanzamento. Giuliano tratta questa questione riguardo alla minore di dodici anni, che sia stata condotta nella casa del marito mentre era immatura: sostiene che essa sia fidanzata, sebbene non sia moglie. Ma è piú vero ciò che riteneva Labeone ed io e Pomponio abbiamo accolto nel libro decimo delle ‘Questioni’, di modo che duri il fidanzamento, se effettivamente sia stato contratto prima, nonostante chi la dedusse in nozze già la consideri moglie; qualora, invece, non fu contratto il fidanzamento non si può ritenere esistente né il fidanzamento stesso, perché non ci fu, né il matrimonio, perché non poteva essere contratto).

La soluzione proposta da Giuliano si doveva basare sulla considerazione che nel matrimonio precoce, come di norma, il fidanzamento doveva certamente precedere il matrimonio stesso[lxxxvi]; di modo che si poteva darlo per presupposto. Tanto piú che ad esso non era d’ostacolo l’età bassa della fanciulla, poiché era noto che, a differenza del matrimonio, nel fidanzamento (che non era già proiettato alla procreazione) non vi era bisogno di indicare un’età minima; potendo addirittura avvenire fin dalla nascita. Del che sono conferma i non rari esempi di fidanzamenti con fanciulle ancora nella prima infanzia e poi date in moglie prematuramente anche durante tutto il Principato[lxxxvii]: Augusto, ad esempio, concluse il fidanzamento “fra una nipote di Attalo vix annicula e Tiberio Claudio Nerone”[lxxxviii].

Al termine dell’esperienza ‘classica’ Modestino poteva, perciò, affermare che non vi era un’età minima per i fidanzamenti e (ma forse il punto fu conseguenza di una correzione operata dai compilatori dei Digesta di Giustiniano) ne deduceva che anche per essi occorresse richiamare le virtù del ‘sette’, di modo che si dovesse richiedere proprio l’età di sette anni[lxxxix]:

  1. 23, 1, 14, (Mod. l. 4 diff.): In sponsalibus contrahendis aetas contrahentium definita non est ut in matrimoniis. Quapropter et a primordio aetatis sponsalia effici possunt, si modo id fieri ab utraque persona intellegatur, id est, si non sint minores quam septem annis.

(Tr.: Per i fidanzamenti non vi è un’età definita come per i matrimoni. Di conseguenza gli sponsali si possono compiere fin dalla nascita (fin dalla prima infanzia), purché entrambi capiscano ciò che fanno, vale a dire, purché non abbiano meno di sette anni).

Vorrei, poi, ricordare che il fidanzamento in Roma veniva chiamato sponsalia, termine il cui significato nelle fonti ha tre spiegazioni.

Gellio collega la parola alla consuetudine, in uso nel Lazio antico e fino alla concessione della cittadinanza (con la legge Giulia), di impegnarsi con contratto verbale (la sponsio, per l’appunto, che fu la prima forma di contratto verbale con base sacrale[xc]) a dare o a prendere in moglie una donna:

Gell., Noct. att. IV.4: Sponsalia in ea parte Italiae, quae Latium appellatur, hoc more atque iure solita fieri scripsit Servius Sulpicius in libro, quem scripsit de dotibus: Qui uxorem inquit ducturus erat, ab eo, unde ducenda erat, stipulabatur eam in matrimonium datum iri. Qui ducturus erat, itidem spondebat. Is conctractus stipulationum sponsionumque dicebatur `sponsalia’. Tunc, quae promissa erat, `sponsa’ appellabatur, qui spoponderat ducturum, `sponsus’. Sed si post eas stipulationis uxor non dabatur aut non ducebatur, qui stipulabatur, ex sponsu agebat. Iudices cognoscebant. Iudex, quamobrem data acceptave non esset uxor, quaerebat. Si nihil iustae causae videbatur, litem pecunia aestimabat, quantique interfuerat eam uxorem accipi aut dari, eum, qui spoponderat, <aut> qui stipulatus erat, condemnabat. Hoc ius sponsaliorum observatum dicit Servius ad id tempus, quo civitas universo Latio lege Iulia data est. Haec eadem Neratius scripsit in libro, quem de nuptiis composuit.

(Tr.: Servio Sulpicio, nel libro da lui scritto sulle doti, scrisse che, in quella parte d’Italia che si chiama Lazio, i fidanzamenti venivano fatti secondo le seguenti norme, dettate dal costume e dal diritto: Chi, egli scrive, si accingeva a prender moglie si faceva promettere, da colui dal quale avrebbe dovuto prenderla, che la stessa gli sarebbe stata data. Egli a sua volta si impegnava allo stesso modo a prenderla in moglie. Questo contratto di stipulazioni e `sponsioni’ veniva detto `sponsali’. Conseguentemente, colei che era stata promessa, veniva chiamata `sposa’, chi aveva promesso di prenderla in moglie, `sposo’. Ma se dopo quelle promesse la donna non veniva data o non veniva presa in moglie, chi aveva avuto la promessa agiva in virtù della sponsio. Venivano investiti i giudici. Il giudice indagava sul motivo per il quale la donna non era stata data o presa. Se non gli sembrava esistere nessuna giusta causa, procedeva alla stima pecuniaria della lite e condannava, chi aveva promesso di prendere o chi si era impegnato a dare la donna in moglie, al pagamento del valore corrispondente all’interesse avuto a dare o farsi dare la moglie. Servio dice che questa disciplina degli sponsali era osservato al tempo in cui, con la legge Giulia (a. 90 a.C), fu data la cittadinanza all’intero Lazio. Le stesse cose scrisse anche Nerazio, nel suo libro sulle nozze).

Diversamente Gellio, il quale ricordava che lo stesso Verrio Flacco (fonte cui egli attingeva) aveva dato due diverse spiegazioni: in primo momento aveva affermato che l’uso del verbo spondere era riferito al fatto che si trattava di atti compiuti spontaneamente; poi, contraddicendosi, aveva asserito che esso derivava dal greco ed era descrittivo dell’uso dei fidanzati di fare libagioni, che rappresentavano una forma di invocazione e di preghiera agli dei, utilizzando coppe, che in greco si chiamavano spondàs:

Festi, De verb. signif. L. 440.1: Spondere Verrius putat dictum, quod sponte sua, id est voluntate, promittatur. Deinde oblitus inferiore capite sponsum et sponsam ex Graeco dicta[m] ait, quod i spondàs interpositis rebus divinis faciant.

(Tr.: Spondere Verrio ritiene che sia detto cosí perché si promette sua sponte cioè di propria volontà. Poi, dimentico di ciò, in un capitolo successivo afferma che sposo e sposa derivano dal Greco, in riferimento al fatto che essi, nel rito religioso, fanno libagioni – spondàs).

Importante è, inoltre, il fatto che gli sponsalia non vincolavano al matrimonio[xci], salvo che si fosse stabilito il pagamento di una somma in caso di mancato successivo matrimonio[xcii]

Varro de ling. lat. 70: <Si> spondebatur pecunia aut filia nuptiarum causa appellabatur et pecunia et quae desponsa erat sponsa: quae pecunia inter se contra sponsum rogata erat, dicta sponsio; cui desponsa quae erat, sponsus; quo die sponsum erat, sponsalis. §. 71: Qui spoponderat filiam, despondisse dicebant, quod de sponte eius, id est de voluntate, exierat: non enim si volebat, dabat, quod sponsu erat alligatus: nam un in comoediis vides dici: “Sponde<n> tuam gnatam filio uxorem meo?” Quod tum et praetorium ius ad legem et censorium iudicium ad aequm existimabatur.

(Tr.: Se si prometteva del denaro o la figlia in matrimonio, `sponsa’ <promessa> veniva chiamata tanto la somma di denaro quanto la fidanzata; il denaro che, interrogandosi fra di loro, avevano pattuito in contrapposizione <in cambio del> al fidanzamento era detto `sponsio’; `sponsus’ <promesso> era detto colui cui era stata promessa una moglie; `sponsale’ era detto il giorno della promessa <il giorno in cui era avvenuto il fidanzamento>. Chi aveva impegnato al figlia, dicevano che l’avesse liberata, poiché era uscita dalla sua disponibilità, cioè dalla sua volontà: infatti se voleva non adempiva, a ciò cui era tenuto per forza del fidanzamento: vedi appunto quel che si dice nelle commedie: prometti tua figlia in moglie a mio figlio? Allora si procedeva alla stima dell’accaduto secondo il diritto pretorio facendo riferimento alla legge, secondo il giudizio dei censori facendo riferimento all’equità).

 

A questo punto mi pare opportuno interrogarsi su cosa fosse ed in che consistesse il matrimonium, partendo dalla sua etimologia.

 

  1. Funzione del Matrimonium.

Matrimonium era un termine formato dal genitivo singolare di mater (ovvero matris) unito al suffisso – monium, collegato, in maniera trasparente, al sostantivo munus (dovere, compito) per descrivere la funzione dell’istituto; vale a dire per indicare che il suo scopo risiedeva nel compito-dovere della donna, risiedente nell’obbligo di generare figli. Esso era speculare a patrimonium (patris munus), che indicava il dovere dell’uomo (patris), incentrato sull’obbligo di sostentare moglie e figli; perciò il termine diventò sinonimo di consistenza di beni[xciii].

Ne consegue che la parola matrimonium, con il riferimento al “compito di madre feconda”, evidenziava le finalità procreative dell’unione, dando per scontato che l’unione tra un uomo e una era finalizzata alla procreazione[xciv]: la donna si univa all’uomo per divenire madre e procreare i figli legittimi.

In età cristiana ciò permase e venne evidenziato, come appare da una testimonianza di Sant’Agostino:

Contra Fausturn Manichaeurn libri XXXIII: Matrimonium quippe ex hoc appellatum est, quod non ob aliud debeat femina nubere, quam ut mater fiat

(Tr.: Matrimonio e senza dubbio chiamato cosí perché la donna si deve sposare non per altro motivo che per diventare madre).

Osserva la Dupont: “I Romani dicono sempre che nessuna cosa è peggiore del matrimonio, e che se non ci fosse il bisogno dei bambini, nessuno si sposerebbe”[xcv].

Era, dunque, la procreazione ad esprimere il motivo e la funzione del matrimonio[xcvi]. Essa, secondo le visioni degli antichi, presenti nel diritto romano, corrispondeva ad un’esigenza primaria della società; quella, per l’appunto, dell’accrescimento[xcvii]. La necessità di dover crescere era essenziale e centrale nella concezione antica della vita e costituiva il motivo delle unioni da realizzare nella società degli uomini (ma anche nella natura).

Dunque matrimonio, rispetto ad altri termini che vengono correntemente impiegati con significato affine, pone, almeno in origine, maggiore enfasi sulla finalità procreative dell’unione: l’etimologia stessa fa riferimento al “compito di madre” più che a quello di moglie, ritenendo quasi che la completa realizzazione dell’unione tra un uomo e una donna avvenga con l’atto della procreazione, con il divenire madre della donna che genera, all’interno del vincolo matrimoniale, i figli legittimi[xcviii].

Incisivamente, l’esperienza romana nel matrimonio collegava i dettami universali della natura con il compito delle mogli di dare alla luce i figli. Su ciò le testimonianze sono numerose ed univoche.

Partendo dal testo, citato aventi di Ulpiano, che collocava il matrimonio nell’alveo del diritto naturale e della conseguente esigenza della procreazione (D. 1. 1. 1. 3: … Hinc descendit maris atque feminae coniunctio, quam nos matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio, hinc educatio: videmus etenim cetera quoque animalia, feras etiam istius iuris peritia censeri)[xcix].

Del resto era indiscusso che la familia dovesse essere funzionale alla conservazione del genere umano e, quindi, della Respublica appariva ovvio, nel pensiero dei Romani, che il suo compito fosse incentrato nella figliazione, secondo una tendenza comune a tutti gli esseri animati, come evidenziava Cicerone e traspare anche da altri autori:

Cic., De finibus 3. 19. 64: Cum autem ad tuendos conservandosque homines hominem natum esse videamus, consentaneum est huic naturae, ut sapiens velit gerere et administrare rempublicam atque, ut e natura vivat, uxorem adiungere et velle ex ea liberos:

(Tr.: Poiché l’uomo è nato per la tutela e la conservazione della specie, è conseguente che chi è saggio voglia prendersi cura ed amministrare la repubblica e, per assicurare la sopravvivenza, prendere moglie per avere da lei dei figli).

Cicero, De off. 1. 4. 11: Commune item animantium est coniunctionis adpetitus procreandi causa, et cura quaedam eorum quae procreata sunt[c].

(Tr.: Dunque è comune a tutti gli animali il desiderio di unirsi per procreare e prendersi cura dei figli).

Cic., De off. 1. 17. 53-54: … Nam cum sit hoc natura commune animantium, ut habeant libidinem procreandi, prima societas in ipso coniugio est, proxima in liberis, .

(Tr.: Infatti, poiché per natura è comune a tutti gli animali il desiderio di procreare, l’unione che ne consegue è la prima forma di società).

Svet., Caesar 52: Helenius Cinna plerisque confessus est habuisse se scriptam paratamque legem quam Caesar ferre iussisset, cum ipse abesset, ut ei uxores liberorum quaerendorum causa, quas … velle ducere liceret.

(Tr.: Elvio Cinna tribuno della plebe confessò a parecchi di avere avuto tra mano, scritta e pronta, una legge, che Cesare aveva ordinato di pubblicare in sua assenza, per la quale fosse lecito, per avere figli, prendere quali e quante mogli volesse).

Quintil., Declam. 247: ita illud nuptiis conlocata efficit uxorem: sed non haec solummodo erit uxor. Fingamus enim nuptias fecisse nullas, coisse autem liberorum creandorum gratia: non tamen uxor non erit, quamvis nuptiis non sit collocata.

(Tr.: … pertanto `moglie’ è colei che sia stata collocata in nozze: tuttavia non soltanto essa potrà essere considerato `moglie’. Facciamo l’esempio di uno che non abbia contratto le nozze, ma ugualmente si sia unito con una donna allo scopo di avere figli: non si può dire che questa non sia `moglie’, sebbene non sia stata collocata in nozze).

  1. 50. 16. 220. 3, Call. 2 quaest.: Praeter haec omnia natura nos quoque docet parentes pios, qui liberorum procreandorum animo et voto uxores ducunt, filiorum appellatione omnes qui ex nobis descendunt continere: nec enim dulciore nomine possumus nepotes nostros quam filii appellare. Etenim idcirco filios filiasve concipimus atque edimus, ut ex prole eorum earumve diuturnitatis nobis memoriam in aevum relinquamus.

(Tr.: Oltre a tutto ciò, la natura insegna anche a noi pii genitori quali sono coloro che si sposino con l’intenzione e l’impegno di procreare figli, di potere chiamare figli tutti coloro che discendono da noi: né infatti possiamo chiamare i nostri nipoti con un nome più dolce di figli. Infatti, concepiamo ed alleviamo i figli e le figlie per questo motivo: affinché possiamo lasciare il ricordo di noi stessi per sempre per mezzo dei figli e delle figlie di loro).

La finalizzazione del matrimonio alla figliazione era accentuata anche da provvedimenti normativi. Ad esempio, una legge Giulia la contemplò espressamente, stabilendo che le disposizioni agevolanti l’acquisizione della cittadinanza si applicassero esclusivamente ai matrimoni contratti con l’impegno di fare figli:

Tit. Ulp. 3. 3: Nam lege Iunia cautum est, ut si civem romnanam vel latinam uxorem duxerit, testatione interposita, quod liberorum quaerendorum causa uxorem duxerit postea filio filiave nato natave et anniculo facto possit apud praetorem vel praesidem provinciae causam probare et fieri civis Romanus tam ipse quam filius filiave eius et uxor, scilicet si et ipsa Latina sit ….

(Tr.: Invero con una legge Giulia si provvide a che il cittadino che volesse prendere una moglie romana o latina, dovesse premettere, con giuramento, di sposarsi per avere figli; solo in tale ipotesi in seguito al compimento dell’anno da parte del figlio o della figlia potrà provare ciò presso il pretore o il preside della provincia e diventeranno cittadini romani sia lui stesso, sia il figlio o la figlia o la moglie, purché sia Latina…).

In conclusione può dirsi fuori discussione che il matrimonio, in conformità a natura, fosse “preordinato al fine della procreazione della prole, liberorum quaerendorum causa[ci]. Finalità e requisito tanto radicato nel costume che i Censori, chiamati a vigilare sul suo rispetto[cii] costringevano a divorziare dalla moglie sterile, ancorché molto amata:

Gellius, Noct. Att. 4. 3. 2: Atque is Carvilius traditur uxorem, quam dimisit, egregie dilexisse carissimamque morum eius gratia habuisse, sed iurisiurandi religionem animo atque amore praevertisse, quod iurare a censoribus coactus erat uxorem se liberum quaerundum gratia habiturum.

(Tr.: E si ricorda che Carvilio amava molto la moglie che aveva cacciato e di cui aveva care le abitudini, ma all’amore e all’affetto preferí la fedeltà al giuramento, perché era stato costretto dai censori a giurare che avrebbe preso moglie per avere prole).

La filiazione era tanto caratterizzante e decisiva da definire di per sé matrimonio l’unione dalla quale fossero nati dei figli:

Quintil., Declam. 247: ita illud nuptiis conlocata efficit uxorem: sed non haec solummodo erit uxor. Fingamus enim nuptias fecisse nullas, coisse autem liberorum creandorum gratia: non tamen uxor non erit, quamvis nuptiis non sit collocata.

(Tr.: normalmente `moglie’ è colei che sia stata collocata in nozze: tuttavia non soltanto essa potrà essere considerato `moglie’. Facciamo l’esempio di uno che non abbia contratto le nozze, ma ugualmente si sia unito con una donna allo scopo di avere figli: non si può dire che questa non sia `moglie’, sebbene non sia stata collocata in nozze).

Il richiamo costante ed insistente alla Natura aveva indubbiamente lo scopo di ricordare a tutti, legiferanti e giuristi compresi, che il matrimonium apparteneva all’uomo ed al suo agglomerato storico-sociale e, quindi, che, pur variando nel tempo e nella configurazione, erano gli uomini a forgiarlo, dettandone l’assetto nell’alveo del mos (costume), basato sul ius sacrum[ciii].

Pertanto, l’attività dei giuristi romani consisté nel coglierne il concetto sociale[civ] e riversarlo nel conseguente rapporto giuridico[cv]. E non devono trarre in inganno le affermazioni che dichiarano concluso il matrimonio con l’espressione della volontà e non dall’effettivo inizio del congiungimento dei coniugi.

Il matrimonium aveva, pertanto, come finalità primaria e quasi unica quella di accrescere e perpetrare la famiglia del pater; il quale, inoltre, doveva avere certezza che i nati della sua familia provenissero esclusivamente da lui, di modo che il patrimonio famigliare (che andava diviso tra i figli) andasse a chi lui avesse previsto[cvi].

Dal che conseguí il fatto che il consenso, fondamento istitutivo del matrimonio, pur con profonde variazioni tra le diverse forme di matrimonio (cum manu, sine manu, communi consensu)[cvii], era l’elemento costitutivo del vincolo[cviii] e dovesse essere quello del pater[cix]ed aveva la peculiarità di dover essere continuo[cx].

A ciò si deve anche la severa punizione dell’adulterio; il quale, come il termine indicava[cxi], consisteva nell’alterazione del vincolo di sangue padre-figlio.

In Roma e per lungo tempo, quasi fino alle soglie dei nostri giorni[cxii], la punizione fu severissima ma concernette esclusivamente la donna, perché solo il rapporto avuto dalla moglie con altri che non fosse il marito poteva compromettere la certezza della provenienza da questi dell’eventuale figliolanza, che ne fosse conseguita[cxiii].

L’amore tra i coniugi non era, di norma, contemplato e, anzi, non di rado era considerato disdicevole e sintomo di inaccettabile ‘mollezza’[cxiv].

Spesso le donne sterili venivano ripudiate o loro stesse divorziavano per consentire al marito di trovare un ‘ventre fecondo’[cxv].

L’evoluzione di tale concezione, avvenuta tra il 2° e 3° d. C., costituí poi la base del matrimonio cristiano, incentrato sulla castità di vita e sulla liceità dei rapporti sessuali soltanto nel matrimonio e per la filiazione[cxvi].

La visione romana del matrimonio, della famiglia e, in generale, della società, si rifletteva anche nella condizione della donna e nel diritto ad avere un nome e a partecipare alla vita sociale. Nella famiglia patriarcale romana le donne non avevano diritto al nome proprio, diversamente da quelle Egiziane[cxvii] e da quelle Etrusche[cxviii]. Non erano relegate e destinate all’oscurità come le Greche, perché. Ad esempio, potevano anche partecipare ai banchetti, ma solo in una prima parte, quando non si beveva ancora il vino, che era loro (specialmente in antico) rigorosamente vietato; peraltro stando sedute non sdraiata (come i maschi)[cxix].

Nel caso avesse un nome proprio, questo non doveva essere conosciuto se non dai più stretti familiari e non doveva mai essere pronunciato in pubblico[cxx].

Alla nascita infatti venivano assegnati tre nomi al maschio: il praenomen (p.es. Marco; in tutto erano circa una ventina), il nomen (p.es. Tullio) e il cognomen (p.es. Cicerone); e uno solo alla femmina, quello della gens a cui apparteneva, usato al femminile. La donna veniva considerata non come individuo, ma come parte di un nucleo familiare. Cicerone, p.es., chiamerà la figlia col nome di Tullia. Se le figlie erano più di una, accanto al nome della gens portavano il nome generico di Prima, Secunda, ecc. Ma questo era la plebe a farlo, i patrizi preferivano attingere alle antenate illustri. Per distinguere due sorelle oppure madre e figlia si usavano l’aggettivo senior o junior. I liberti, maschi o femmine, assumevano il nome del patrono. A volte, ma solo per i maschi, si aggiungeva un soprannome per meriti civili o militari: p.es. l’Uticense, il Censore, l’Africano, etc.

D’altra parte avere un nome proprio contava relativamente: nella Roma repubblicana venivano censite solo le donne che, in quanto ereditiere, avevano l’obbligo di contribuire a mantenere l’esercito.

 

  1. La cerimonia.

È, infine, tempo di gettare uno sguardo alle cerimonie legate ai riti nuziali.

Lo stretto legame da un lato con i sacra dall’altro con il sociale fece sí che le cerimonie nuziali, inscindibili nell’età arcaica, assumessero sempre grande rilievo: “La cerimonia delle nozze non era necessaria alla costituzione del vincolo giuridico fra gli sposi; ma la tradizione e il carattere sacro che vi si annetteva ne facevano l’avvenimento più importante della vita familiare”[cxxi]. Ciò non toglieva che, cosí (d’altronde) anche oggi, si potesse concludere il matrimonio con la semplice intesa tra i nubendi, senza nessuna esternazione o cerimonia. Lo dimostra l’esemplare caso di Catone Uticense e Marcia. L’amico Ortensio (il famoso oratore spesso avversario di Cicerone), allo scopo di avere figli da dare alla Civitas, chiese a Catone di dargli in moglie la figlia Porzia, che però era già sposata. Catone, non ritenendo di rompere il matrimonio della figlia, gli offrí, invece, la propria moglie Marcia. Poi, morto Ortensio, Marcia chiese al marito di tornare da lui: Catone, da buon stoico, acconsentí e la riprese in casa, costituendo cosí con il semplice accordo, un nuovo matrimonio. Dunque nessuna cerimonia; nessuna presenza di altri (testimoni o parenti) oltre i soli sposi[cxxii].

Precisato ciò, va detto che ciò concerneva il rilievo giuridico del matrimonio. Nell’esperienza, invece, il costume era altro ed andava ben di là dalla configurazione giuridica ed impegnava le famiglie ed in particolare i patres al rigoroso rispetto.

Lo sottolineava, a conclusione della giurisprudenza romana, anche Modestino, che al rito dedicò un’apposita opera:

  1. 50. 17. 197, Modestinus, libro singulari de ritu nuptiarum: Semper in coniunctionibus non solum quid liceat considerandum est, sed et quid honestum sit.

(Tr.: Nei matrimonî occorre sempre tener conto non solo di ciò che è lecito ma anche di ciò che ad essi si addice”).

In che consisteva il rito nuziale?

Le notizie che ci sono pervenute sono moltissime e vanno, come è noto, dalla fase preparatoria alla conclusione ed all’ingresso della donna nella casa del marito (deductio in domu mariti) sino alla prima notte, nella quale il marito scioglieva il doppio nodo, il cingulum herculeum della cintura di lana, che stringeva la veste della donna, sotto un mantello o palla, color zafferano.

La donna arrivava vestita di bianco con un abito lungo che la copriva dalla testa ai piedi ed aveva il colto velato, da un velo flammeum, che, come indica il nome, doveva essere ‘fiammante’, cioè rosso-arancio e probabilmente traeva origine dalla flaminica Dialis, la moglie del Flamen Dialis, sacerdote di Giove; la quale, per l’appunto, indossava un abito e un velo color fiamma con il quale, durante i sacrifici, si velava il capo[cxxiii].

Il riferimento alla circostanza che la donna dovesse essere ‘velata’ ha avuto grande rilievo sia nell’esperienza romana che in quella contemporanea: di esso, infatti, traeva origine il termine nupta (vale a dire ‘velata’, dal verbo nubere, che significa, per l’appunto, “velare”), indicante la donna sposata, e nuptiae, sinonimo di matrimonio, trasmigrato nel nostro ‘nozze’.

La ‘cerimonia’ partiva da un momento religioso: il sacrificio di un animale dalle cui viscere il sacerdote (nel caso auspex, termine intraducibile) desumeva gli ‘auspicia’ e solo se li trovava favorevoli si procedeva; altrimenti “il matrimonio, disapprovato dagli dèi, non sarebbe valido”[cxxiv].

Accertata l’approvazione divina seguiva, di regola, la sottoscrizione delle tabulae nuptiales, il contratto di matrimonio, in presenza di dieci testimoni. Gli sposi andavano davanti alla pronuba (una donna, che doveva essere univira; cioè, che aveva avuto un solo marito) e lo sposo sollevava il velo della sposa; quindi la pronuba prendeva le destre degli sposi ponendole l’una nell’altra. Era questa la dextrarum iunctio, il momento più solenne della cerimonia: tacito scambio di impegno di fedeltà tra i giovani sposi, reciproca promessa di voler vivere insieme. La donna proclamava la formula costitutiva del vincolo: Ubi tu Gaius ego Gaia. Numerosi sarcofagi rappresentano la scena; e l’atto simbolico,

che la Chiesa ha mantenuto nel rito nuziale, ha anche oggi senso e valore[cxxv].

In proposito vanno sottolineati tre aspetti.

  • La sostanziale perpetuazione del matrimonio romano nel rito matrimoniale del Cristianesimo. Il Carcopino cita l’affermazione di Monsignor Duchesne “… tutto il nuziale romano è stato conservato nell’uso cristiano …”[cxxvi]
  • La formula Ubi tu Gaius ego Gaia è stata rivisitata spesso scorgendovi l’espressione di una quasi romantica dichiarazione di fusione delle proprie vite. In realtà accorre essere avvertiti che il senso era tutt’altro. Non “una forma in cui sembrano confondersi le loro – cioè di entrambi i coniugi – esistenza, come le loro volontà”[cxxvii], bensí la proclamazione che d’ora in poi la donna vivrà in funzione e in conformità alla volontà ed alla vita del marito. In tal senso va, infatti la definizione (che ho spesso sentito menzionare anche ai nostri giorni, come esempio di comunità paritaria creata col matrimonio) di Modestino, il quale proclamava il matrimonio come ‘vita comune’ con condivisione persino della stessa religione: Mod. D. 23. 1, l. primo regularum: Nuptiae sunt coniunctio maris et feminae et consortium omnis vitae, divini et humani iuris communicatio[cxxviii]. Anche questa definizione che attualizzata è molto suggestiva, in quanto configura il matrimonio come una condivisione di ogni aspetto della vita, nell’esperienza romana stava ad indicare che la donna dal momento del matrimonio divideva ogni aspetto e momento della vita del marito e faceva suoi gli dei da lui venerati e le divinità dei trapassati (Lari e Penati) della di lui famiglia[cxxix].
  • L’officiante non era maschio, bensí donna. L’unione delle mani che ieri come oggi concludeva il matrimonio avveniva davanti alla pronuba, cioè una donna che non avesse avuto piú di un marito; la quale (forse proiezione della pronuba Giunone – Iuna pronuba – , Dea protettrice delle nozze e della fecondità) sigillava l’unione con la sovrapposizione della sua mano.

Dopo il rito iniziava il banchetto. Ma prima avveniva una sorta di simbolico rapimento, consistente in una messa in scena di un ratto effettuato dallo sposo, che fingeva di strappare la sposa dalle braccia della madre; probabilmente vestigia dello storico ‘ratto delle Sabine’, delle origini di Roma[cxxx].

La sposa veniva accompagnata da un corteo, corrispondente a quello inscenato ai Liberalia per i maschi in occasione della presentazione ed ingresso nel populus. Avanzava portando il fuso e la conocchia, simboli della sua nuova attività di madre di famiglia preceduto da tre fanciulli patrimi e matrimi: “due ne teneva per mano, un terzo li precedeva agitando una fiaccola di biancospino (spina alba) accesa nel focolare della casa della sposa. Gli avanzi abbruciacchiati si distribuivano fra gli intervenuti, perché, cosí si credeva, erano di buon augurio. (Noi facciamo lo stesso coi fiori di arancio)”[cxxxi]. A questo lancio si poteva accompagnare quello delle noci: infatti, poiché la donna doveva abbandonare i giocattoli della sua infanzia, prima di uscire di casa, nacque l’uso di lanciare per aria e verso gli sposi e convitati le noci con le quali si era dilettata da fanciulla, il cui suono sul selciato presagiva ora gaiamente la feconda felicità che l’avvenire le avrebbe riservato[cxxxii]. Il che trova riscontro nel nostro lancio del riso.

All’arrivo la donna veniva sollevata in braccio e portata nella casa. Questo atto, che alcuni talora associano anch’esso al ratto delle Sabine, in realtà era una precauzione diretta ad evitare che la donna, passando sulla soglia di casa, potesse scivolare, dato che le spose usavano ungere le soglie della futura casa con lardo di maiale (ritenuto foriero di benessere; perciò le mogli abitualmente erano chiamate unxores – uxores[cxxxiii].

Quanto questa usanza sia rimasta sino ai nostri giorni è sotto gli occhi di tutti.

Azzarderei, poi, un accostamento molto ardito. Il matrimonio cristiano prevede la condivisione della Sacra Comunione: può vedersi un tardo retaggio subliminale ed idealizzato dal pensiero cristiano della condivisione di una focaccina di farro in uno con l’invocazione della protezione di Dio (Iuppiter farreus) da parte degli sposi, al tempo della monarchia? Certo, invece, appare che proprio la confarreatio (il piú antico rito matrimoniale) la cui istituzione veniva fatta risalire a Romolo, conferma la matrice religiosa (nei sacra) del matrimonio[cxxxiv].

A questo punto vorrei richiamare un altro aspetto che sembra duratura, dall’antichità ad oggi: quello delle fedi matrimoniali.

Riguardo all’uso dell’anello abbiamo la testimonianza di Aulo Gellio, che lo collegava all’esperienza degli egiziani, da lui stessi ritenuti maestri di scienza ed intelligenza. Ne parla il Carcopino: «Sia che fosse fatto di un cerchio di ferro rivestito in oro, o da un cerchio d’oro simile alle nostre fedi, la fidanzata aveva cura di infilarlo, seduta stante, al dito nel quale ancora oggi di solito si porta la fede, cioè “nel dito vicino al mignolo della mano sinistra”.. Proprio per questo noi, con un nome derivato dalla bassa latinità (anularius), lo chiamiamo ‘anulare’, – senza per altro ricordarci della ragione per cui lo avevano scelto i romani. Aulo Gellio[cxxxv] lo spiega con lungo giro di parole: “Quando si apre il corpo umano, come fanno gli egiziani, e si operan le dissezioni, anatomaí per parlare come i greci, si trova un nervo molto sottile, che parte dall’anulare e arriva al cuore. Si ritiene opportuno dare l’onore di portare l’anello a questo dito piuttosto che ad altri, per la stretta connessione, per quel certo legame che lo unisce all’organo principale”»[cxxxvi].

Il circolo, senza inizio e senza fine, era ritenuto dagli Egiziani la figura perfetta della quale l’anello ne costituiva l’aspirazione e non importava se l’anello fosse di pelle di coccodrillo o osso, l’unica cosa importante era la forma circolare simbolo di comunanza e prosperità.

Dagli Egizi l’uso degli anelli nuziali passò ai Greci e, come ricordava Aulo Gellio, ai Romani, i quali solevano apporvi anche un sigillo, con il quale la moglie avrebbe dovuto marchiare i beni della casa, per prevenirne l’abuso o il furto da parte degli schiavi. Di tale uso parlava Clemente Alessandrino, nel Pedagogo, ricordando, all’uopo, che era abitudine dare l’anello alla donna affinché essa potesse timbrare a caldo i beni della casa. Era tipico sigillare cassetti, utensili e conserve della dispensa, al fine di proteggerli da eventuali furti degli schiavi. Tra i diversi atteggiamenti da tenere, Clemente sconsigliava di usare gli anelli per mero ornamento, raccomandando, invece, di usarli per sigillare i beni del marito, in conformità alla cura dell’economia domestica; ritenendo ciò necessario perché la mancanza di educazione contribuiva spesso alla disonestà di quanti vivevano o frequentavano la casa[cxxxvii].

Dunque per i Romani vi era l’uso dell’anello dato dallo sposo alla sposa e, come si è detto, inanellato al quarto dito della mano, per via del nervo che andava di lí sino al cuore, motore della vita e della fedeltà (fides). Il senso poi di questa fede è, come si è detto[cxxxviii], quello di esprimere la fedeltà, dovuta dalla moglie al marito; perciò non a caso si parlava di ‘fede’ e non, ad esempio, di ‘amore’!

Va qui aggiunto che l’uso dell’anello all’anulare aveva radici consolidate anche nell’antica Cina. Ma con significati e valenze diversi, legati alle concezioni della vita e degli uomini nel contesto famigliare. Nello specifico, ogni dito rappresentava un pilastro della vita. Il pollice era collegato ai genitori. L’indice rappresentava i fratelli. Il medio rappresentava se stessi. L’anulare, il dito delle fedi, rappresentava la coppia e il mignolo i figli[cxxxix].

Quanto all’uso odierno va fatto risalire alla Chiesa, la quale osteggiò, come simboli pagani, gli anelli sigillati e solo dopo l’860 d. C. ne ammise l’uso per il matrimonio, lasciando per essi il termine ‘fede’ ma con senso piú elevato: come indice dell’amore e della fedeltà elevata alla reciprocità dei coniugi, che si alimenta nell’amore in Dio, sicché la ‘fede’ non è piú quella di chi riceveva l’anello (la moglie), bensí di chi lo dà, vale a dire di entrambi i coniugi.

[i] V., Groppi T., I diritti umani in Asia, v., in Accademia.edu, al sito: https://www.academia.edu/38140533/I_DIRITTI_UMANI_IN_ASIA; Campbell C., A. McDonald, Practice to Theory: States of Emergency and Human Rights Protection in Asia, in M. Jacobsen, O. Bruun, Human Rights and Asian Values, Richard, Curzon Press, Richmond, London 2000, p. 268; Sen A., Human Rights and Asian Values (1997), trad. it. Diritti umani e valori asiatici, in Laicismo indiano, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 151; Welch C.E., V.A. Leary, Asian Perspectives on Human Rights, Westview Press, Boulder 1990.

[ii] Groppi, op. cit. pp 3-4.

[iii] Adopero l’espressione in un senso molto lato e approssimativo, con riferimento, come indicato nell’Enciclopedia Treccani, all’idea che tutte le popolazioni e le società umane fossero partite da una condizione originaria comune e che alcune di esse fossero rimaste ‘primitive’, ovvero non progredite in misura significativa rispetto a tale punto di partenza comune. Invero il termine ‘primitivo’, derivato dal latino primitivus, significa ‘primo in ordine di tempo’. In questa accezione è usato in varie lingue europee per indicare la forma originaria o più antica di un’istituzione (ad esempio, ‘la Chiesa primitiva’, nel senso di Chiesa paleocristiana), oppure per descrivere una condizione attuale che ricorda la forma antica: v. A.KuperEnciclopedia delle scienze sociali, Treccani, 1998.

[iv] Su di esso e su quanto tratto in questo elaborato seguo, ancorché non lo richiami espressamente, G. Franciosi, Famiglia e persone in Roma Antica Dall’età arcaica al Principato, Giappichelli, Torino 1989; nonché, dello stesso Autore, Clan gentilizio e strutture monogamiche. Contributo alla storia della famiglia romana4, Jovene, Napoli 1989; Ricerche sull’organizzazione gentilizia romana2, Jovene, Napoli 1988. Inoltre mi avvalgo di precedenti mie riflessioni: S. Tafaro Famiglia e matrimonio: le radici romanistiche, in [cur. F. Lempa – S. Tafaro] Rodizna i spoleczenstwo wczoraj i dzis. Atti del Convegno svoltosi a Bialystok nel novembre del 2004 sulla Famiglia, Temida2 (Poland). Bialystok 2006; S. Tafaro Riflessioni su familia e societas humana, cit., pp. 2537-2561; S. Tafaro, Persona e familia, in Diffusione e sviluppo del sistema del Diritto romano e il Diritto Cinese, Law press China, 2015, pp. 218-240, traduzione di Lou Aihua.

[v] L. Morgan, La società antica. Le linee del progresso umano dallo stato selvaggio alla civiltà (tr. Casiccia e Trevisan, Feltrinelli, Milano 1974. Come è noto, i risultati delle indagini del Morgan furono divulgati da F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato. In rapporto alle indagini di Lewis H. Morgan, Rinascita, Roma 1955).

[vi] Non ritengo di dovermi qui soffermare sull’attenzione dedicata alle tesi di Morgan ed in particolare alla famiglia di gruppo, con specifica attenzione alla famiglia punalua della Hawai e alla famiglia pirrauru dell’Australia, da successivi pensatori, quali H. Spencer, C. Marx, F. Engels ed altri: v. alla voce Famiglia dell’Enciclopedia Treccani, Roma 1932.

[vii] Di essa parlava Erodoto con riferimento ai Licii, ai Massageti, agli Agatirsi, ai Nasomoni, ai Macli. Inoltre vi è un riferimento agli Etrusci, Sanniti e Messapi in Teopompo (Fragm 222). Ne parlavano anche Cesare, con riguardo ai Britanni (De bello Gallico 5. 14: Uxores habent deni duodenique inter se communes et maxime fratres cum fratribus parentesque cum liberis. Sed si qui sunt ex iis nati, eorum habentur liberi, quo primum virgo quaeque deducta est. Tr.: Hanno mogli in comune, vivendo in gruppi di dieci o dodici, soprattutto fratelli con fratelli e genitori con figli; se nascono dei bambini, sono considerati figli dell’uomo che per primo si è unito alla donna), e Tacito relativamente ai Sarmati, Peuceti, Venedi e Finni (Germania 46: Peucinorum Venedorumque et Fennorum nationes Germanis an Sarmatis adscribam dubito, quamquam Peucini, quos quidam Bastarnas vocant, sermone, cultu, sede ac domiciliis ut Germani agunt. Sordes omnium ac torpor procerum; conubiis mixtis nonnihil in Sarmatarum habitum foedantur … Fennis mira feritas, foeda paupertas: non arma, non equi, non penates; victui herba, vestitui pelles, cubile humus Tr.: I Peucini, i Veneti e i Fenni non so se comprenderli fra i Germani o i Sarmati. Per la verità i Peucini, che alcuni chiamano Bastarni, hanno lingua, modi di vita, abitazioni fisse come i Germani. Sudiciume in tutti, indolenza nei capi. Causa i matrimoni misti, hanno peggiorato alquanto i lineamenti, prendendo fattezze da Sarmati …. Sorprendentemente selvaggi ed estremamente poveri i Fenni: non hanno armi, cavalli, vita familiare …): sul punto Franciosi, Famiglia e persone, cit., p.1925.

[viii] Op. e locc.citt. alla nt. prec.

[ix] V. Riflessioni su familia, cit. nt. 22. Il rapporto tra gens e familia v. anche C. Castello, Studi sul diritto familiare e gentilizio romano, Giuffré, Milano 1942.

[x] Cfr. supra nt. 7.

[xi] Germania 46, cit.: Idemque venatus viros pariter ac feminas alit; passim enim comitantur partemque praedae petunt. (Tr.: Vivono di caccia tanto gli uomini che le donne; queste li accompagnano ovunque e pretendono la loro parte della preda).

[xii] Franciosi, Familia, cit., p. 20.

[xiii] Il pensiero dell’Autore si trova articolato in diversi scritti, a partire dal 1861: J. Bachofen, Das Mutterrecht. Eine Untersuchung über die Gynaikokratie der alten Welt nach ihrer religiösen und rechtlichen Natur; Urreligion und antike Symbole (3 Bde., 1926) e Mutterrecht und Urreligion (1927).

[xiv] V. AA. Vari, Storia delle donne. L’Antichità [a cura di p. Shmitt Pantel], Laterza, Bari 1990, pp. 40 ss., dove viene esaminata la risposta all’interrogativo, lí stesso posto: «Dio la Madre?».

[xv] Cfr. G. Filoramo, Storia delle religioni. 1. Le religioni antiche, Laterza, Bari 1994, p. 286 s.

[xvi] V. Enc. Treccani, cit., v. Grande Madre “La grande dea di Pessinunte (gr. Μεγάλη Μήτηρ), il cui simulacro fu portato a Roma nel 204 a.C.”.

[xvii] Cfr. Filoramo, Storia, cit., pp. 351, 368, 404, 419, 420 s.

[xviii] Divinità romana, venerata come protettrice delle donne, e specialmente delle partorienti. Poiché il nome della dea non può separarsi dall’appellativo di pater matutinus, dato a Giano (v.), come dio del principio del giorno, la Mater Matuta fu certo, in origine, come divinità parallela a Giano mattutino, una dea dell’aurora. Il suo passaggio da questo primo significato a quello di divinità protettrice del parto è fenomeno frequente alla religione romana antica e dovuto al parallelismo che i Romani vedevano fra la nascita degli uomini e il sorgere della luce dalle tenebre (si confronti Giunone Lucina). Il suo culto fu diffuso in tutta l’Italia centrale, in territorio latino, umbro ed osco; e fu accolto probabilmente anche in Etruria: dappertutto vi attendevano donne, in certi luoghi con carattere di vere sacerdotesse. A Roma si celebrava in suo onore la festa delle Matralia (11 giugno): vi partecipavano soltanto quelle matrone che avessero avuto un solo marito; per ricordare, ogni anno, l’esclusione delle donne non libere, s’introduceva nella cerimonia una schiava, che veniva cacciata a frustate. L’offerta rituale era costituita da focacce cotte in vasi di terra: v. G. Wissowa, in Roscher, Lexicon der griech. und röm. Mythologie, II, col. 2462 segg.; id., Religion und Kultus der Römer, 2ª ed., Monaco 1912, p. 110 segg.; S. B. Platner, A topogr. Diction. of ancient Rome, Oxford 1929, p. 330.

[xix] V. M. Fiorentini, Ricerche sui culti gentilizi, La Sapienza, Roma 1988, pp. 244 ss.

[xx] Su di essa l’Enc. Treccani (v. Dea Bona) dice: “Bona Dea, che ha un significato generale di Grande Madre, si venerava un’antica divinità laziale, il cui nome non poteva essere pronunciato”. Ne parlava Plutarco (Quaest. Rom. 20). Macrobio ne attesta l’origine greca (Macrob., Saturnalia, 1. 12, 27: Haec apud Graecos ἡ Θεὸς Γυναικεία dicitur, quam Varro Fauni filiam tradit adeo pudicam, ut extra γυναικωνῖτιν numquam sit egressa nec nomen eius in publico fuerit auditum nec virum umquam viderit vel a viro visa sit, propter quod nec vir templum eius ingreditur). Dovrebbe ravvisarsi nella Dea Famia (v. in L. Biondetti, Dizionario di mitologia classica, Baldini&Castoldi, Milano 1997), che sarebbe penetrata in Roma da Taranto, a seguito della conquista di questa città. Secondo altra versione sarebbe Faunia moglie del pastore Faunus. Il suo culto era riservato alle sole donne. È nota la disputa tra Cesare e Clodio, accusato di essersi introdotto in vesti femminili alle celebrazioni della Dea, per insidiare Pompea (moglie di Cesare) che fu ripudiata dal marito, pur se forse senza colpa:, perché dove essere senza neppure ombra di qualsiasi sospetto: “Mulier Caesaris non fit suspecta etiam suspicione vacare debet”, da cui il famoso detto “La moglie di Cesare deve essere al di sopra perfino del sospetto”: cfr. il sito https://www.studiarapido.it/lo-scandalo-della-bona-dea-odio-di-clodio-per-cicerone/).

 

[xxi] Cfr. J. Champeaux, La religione dei romani [cur. N. Salomon Traduzione G. Zattoni Nesi], Il Mulino, Bologna 2002; V. Dini, Il potere delle antiche madri, Pontecorboli, Firenze 1995; L. Rangoni, La grande madre. Il culto del femminile nella storia, Xenia, Milano 2005; A. Romanazzi, Guida alla Dea Madre in Italia. Itinerari fra culti e tradizioni popolari, Venexia, Roma 2005. V. anche il sito: https://www.romanoimpero.com/2010/04/culto-della-mater-matuta.html?m=0.

[xxii] Cfr. N. H. Rothschild, Emperor Wu Zhao and Her Pantheon of Devis, Divinities, and Dynastic Mothers, Columbia University Press, 16 Giugno 2015, ISBN 9780231539180. Metà donna ma con la coda di drago un giorno, scivolando lungo il Fiume Giallo ed abbassando il capo, vide la propria bella immagine riflessa nell’acqua. Molto felice, decise allora di modellare figurine con l’argilla del letto del fiume a secondo il proprio aspetto. Ingegnosa e abile, portò ben presto a termine la modellazione di molte figurine quasi simili a lei, sostituendo tuttavia due gambe alla coda di drago. Quindi soffiò su di loro, infondendovi la vita. Di conseguenza le figurine cominciarono a muoversi, diventando essere intelligenti e agili capaci di camminare e parlare. Nüwa li chiamò “uomini”, poi infuse nel corpo di alcuni l’energia Yang, l’elemento maschile attivo, per cui questi diventarono maschi, e nel corpo di altri l’energia Ying, l’elemento femminile dolce, rendendoli femmine. Maschi e femmine si misero a saltellare e a chiamarsi attorno a Nüwa, dando cosí vita alla terra.

[xxiii] Conosciuta anche come Mahadevi, è una delle divinità più importanti e complesse della religione induista. Rappresenta la forza vitale che dà vita all’universo ed è conosciuta come la creatrice della vita e madre universale. Il suo nome significa appunto “dea” o ”divinità femminile” in sanscrito. Il ruolo di questa dea nella religione induista è molto ampio e complesso, poiché la sua figura incarna diverse qualità e aspetti dell’universo e della vita stessa. In molti testi sacri induisti Devi è descritta come la madre di tutti gli dei e degli esseri viventi, colei che dona la vita e il nutrimento: cfr. AA. Vari, Storia delle donne. L’Antichità, cit., p. 41 s.: «Senza dubbio la Dea è detta “Madre del mondo”». Va tenuto presente che specialmente tra induismo e mondo ellenico-romano idee e culti si sono spesso influenzati: cfr. Filoramo, op. cit.

[xxiv] Mut (anche MautMout) è una divinità egizia appartenente alla religione dell’antico Egitto. Era una dea-madre (nella lingua egizia, il suo nome significa madre) dai molteplici aspetti che mutarono nelle migliaia di anni di storia del pantheon egizio. Era una dea di primaria importanza, associata alle acque da cui tutto avrebbe avuto origine tramite partenogenesi. Era venerata come regina di tutti gli dei. Veniva designata come Madre del mondo, Signora del cielo, Madre degli dei, Colei Che partorisce ma che non è mai stata partorita: cfr. V. Ions, Egyptian Mythology, Paul Hamlyn, Hamburg 1973. pp.90, 99-103.

[xxv] Detta anche Pacha Mama o Mama Pacha significa, in lingua quechua, “Madre Terra”. Era una divinità venerata dagli Inca e da altri popoli abitanti gli altipiani andini, quali gli Aymara e i Quechua; cfr. il sito: www.takiruna.com/2015/07/17/mito-de-pachamama-en-el-pensamiento-colectivo-andino/.

[xxvi] Cioè la curiosa costumanza per cui la donna, immediatamente dopo lo sgravo lascia il letto al marito, il quale, prendendo la cura del neonato e, talvolta, simulando le doglie del parto, riceve le felicitazioni degli amici e dei vicini: v. la relativa voce nell’Enciclopedia Treccani, a cura di R. Corso.

[xxvii] Svet. Caesar 22: … ac negante quodam per contumeliam facile hoc ulli feminae fore, responderet, quasi adludens, in Syria quoque regnasse Semiramin, magnamque Asiae partem Amazonas tenuisse quondam (Tr.: … e quando un tale – cioè un senatore -, per offenderlo, gli disse che ciò non sarebbe stato possibile a nessuna donna, assecondando lo scherzo, replicò che anche Semiramide aveva regnato in Siria e che le Amazzoni avevano dominato su gran parte dell’Asia). Va precisato che l’accusa era riferita ai rapporti omosessuali avuti da Cesare con Nicomede, re di Bitinia (Svet. Caesar 2), per i quali fu deriso come “Re di Bitinia”. Essi gli procurarono una cattiva fama, al punto che Curione (padre) ripreso poi da Cicerone, lo definí: “marito di tutte le mogli e moglie di tutti i mariti” (Svet. 52).

[xxviii] V. prec. 11.

[xxix] D. 41. 1. 3. pr., Gaius libro secundo rerum cottidianarum sive aereorum: Quod enim nullius est, id ratione naturali occupanti conceditur: Cfr. G. Lombardi, Libertà di caccia e proprietà privata in diritto romano, BIDR. 53-54 (1948), pp. 273-344; R. Cardilli, Fondamento romano dei diritti odierni, Giappichelli, Torino 2021, p. 103 s. L’A., avvalendosi anche della testimonianza di Paul. D. 41. 1. 2. 1, dà conto delle conseguenze del passaggio dall’economia del consumo a quella dell’accumulo, prefigurato dallo stesso Gaio, in Inst., 2. 18-65, dove il giurista antoniniano parlava delle cose frutto di accumulo e suscettive di dominium ex iure civili.

[xxx] Franciosi, op. cit., p. 21.

[xxxi] A. Schiavone, Storia del diritto romano e linee di diritto privato, Giappichelli, Torino 2005, part. p. 315.

[xxxii] Gli aspetti salienti di siffatta trasformazione, ancora una volta, sono stati lucidamente evidenziati dal Franciosi, riguardo alla familia romana: v. Franciosi, op. cit., pp. 21 s.

[xxxiii] Cfr. M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Giuffré, Milano 1990, partic. p. 152; F. Amarelli – L. De giovanni – P. Garbarino – V. Marotta – A. Schiavone – U. Vincenti, Storia del diritto romano e linee di diritto privato, Giappichelli, Torino 2000, part. p. 14; AA. Vari, Dizionario giuridico romano3 [Introduzione. A. Guarino; Presentazione S. Di Salvo], Simone, Napoli 2003, v. gens, p. 221; L. Fascione, Storia del diritto privato romano, Giappichelli, Torino 2006, p. 97.

[xxxiv] V. Franciosi, loc. cit.: Che la gens abbia preceduto la famiglia si desume da vari aspetti della società romana. Occorre però chiarire che quando si parla di anteriorità della gens alla famiglia non si intende negare la possibile formazione, anche precoce, nell’ambito della comunità gentilizia, di singole famiglie di coppia. Ma la famiglia di coppia che vive all’ombra del più vasto ordinamento comunitario gentilizio è cosa diversa dalla forte famiglia patriarcale, che si afferma successivamente emergendo all’interno e in certo senso contro l’ordinamento comunitario della gens. L’affermarsi a livello istituzionale della famiglia patriarcale presuppone la definitiva privatizzazione dei mezzi di produzione e l’utilizzazione in chiave privata degli stessi organismi e delle istituzioni già comunitarie. I capi di grandi famiglie patriarcali alla testa di gruppi clanico-gentilizi non stanno a indicare una identità di struttura tra i due organismi, ma solo l’utilizzazione delle istituzioni gentilizie da parte di potenti famiglie sorte nel seno stesso della gens, ciò che dà luogo a una seconda fase dell’organizzazione gentilizia, la fase aristocratico-patrizia rispetto al precedente assetto comunitario di questo organismo … La storia più antica di Roma è storia di gentes; solo più tardi, dallo scorcio del quarto secolo in poi, essa diverrà storia delle grandi famiglie. … La gens è una formazione naturale antichissima, che nasce dal frazionamento di ampi organismi primitivi (tribù, orda) in più unità esogamiche attraverso la pratica del matrimonio collettivo tra serie di fratelli e serie di sorelle. Sono argomenti che valgono anche a respingere la cosiddetta teoria patriarcale, che vede nella famiglia il nucleo primordiale del genere umano e nella gens un prodotto successivo, dovuto all’allargamento della famiglia o alla fusione tra più famiglie”.

[xxxv] Cosí G. Franciosi, op. cit., p. 25.

[xxxvi] Festo, pur scrivendo nel 2° sec. d. C. ci dà testimonianza dell’età arcaica perché si avvalse dell’opera di Verrio Flacco, vissuto nell’ultimo secolo della Repubblica, il quale aveva conosciuto le antiche testimonianze contenute nei libri pontificali e presenti nei libri (che egli lesse) sul diritto pontificale del suo contemporaneo Antistio Labeone; perciò nel De verborum significatu di Festo sono presenti notizie e nozioni risalenti alle età più antiche dell’esperienza romana: cfr., S. Tafaro, Pubes e viripotens nella esperienza giuridica romana, Cacucci, Bari 1988, 28 s. ed ivi ntt. 15-16 e cap. II.

[xxxvii] La circostanza che familia al suo apparire doveva indicare “l’insieme degli schiavi appartenenti al gruppo” è evidenziata da: Franciosi, op. cit., 25.

[xxxviii] Il legame indissolubile con la ‘casa’ è evidenziato dagli autori classici, come, ad esempio, Columella, De re rustica 12: ... apud Romanos usque in patrum nostrorum memoriam … nihil conspiciebatur in domo dividuum.(Tr.: presso i Romani, come ricordavano ancora i nostri padri…non si vedeva nulla che fosse diviso nella casa). Sul legame tra familia e ‘casa’ cfr., tra i tanti, A. Strobel, Der Begriff des Hauses im griechischen und römischen Privatrecht, in ZSS 56, 1965, pp. 91-99 [Zeitschr. Neutest. Wissensch. 56, 91-99 (1965)]; R.P. Saller, ‘Familia’, ‘domus’ and the Roman Conception of the Family, Phenix 38, Phoenix 1984.

[xxxix] Ne conseguiva che le donne non potevano avere sottoposti, di modo che pur quando ne venne riconosciuta l’autonomia non avevano altro che se stesse nella propria famiglia, come sottolineava Ulpiano: Ulp. D. 50. 16. 195. 5: Mulier autem familiae suae et caput et finis est. Cfr., in proposito, G. Heyse, Mulier non debet abire nuda. Das Erbrecht und die Versorgung der Witwe in Rom [Europäische Hochschulschriften, Reihe II, Rechtswissenschaft, Bd. 1541], Lang, Frankfurt 1994; cfr. Calderai V. – C. Favilli, Genere, riproduzione, filiazione, Esi, Napoli 2011; L. Peppe, Civis Romana. Forme giuridiche e modelli sociali dell’appartenenza e dell’identità femminili in Roma antica, Grifo (Cavallino), Lecce 2016; V. Marotta, Cittadinanza e condizione giuridica delle donne in Roma repubblicana e imperiale – (A proposito di Leo Peppe, Civis Romana), in Diritto@Storia, riv. Online, – Tradizione romana – n. 15, 2017.

[xl] Ulp. D. 50. 16. 195. pr.: Pronuntiatio sermonis in sexu masculino ad utrumque sexum plerumque porrigitur Cfr. H. Kaufmann, Die altrömische Miete. Ihre Zusammenhänge mit Gesellschaft, Wirtschaft und staatlicher Vermögensverwaltung [Forschungen zum römischen Recht, Abh. 18], Böhlau, Köln-Graz 1964.

[xli] V. quanto ho osservato in Riflessioni su familia e societas humana, cit., p. 2541.

[xlii] V. Cardilli, Fondamento cit. partic. pp. 251 ss., cui rinvio per le citazioni della pregressa dottrina: in particolare riguardo alla tesi del fondamento ‘politico’, del Bonfante, e del fondamento economico, dell’Arangio-Ruiz (v. ivi nt. 3).

[xliii] È appena il caso di osservare che il tentativo di sistemare la ‘materia’ trattata servendosi di partizioni in grado di consentire classificazioni e distinzioni era propria di una tecnica argomentativa penetrata nel pensiero giuridico romano attraverso le tecniche della dialettica greca, che ebbero grande diffusione nel mondo romano: basti citare la significativa summa divisio del diritto prospettata da Gaio, all’inizio dei suoi commentarî: Gai. 1. 8: Omne ius quo utimur, vel ad personas pertinet vel ad res vel ad actiones; sul punto v. R. Quadrato, Le Institutiones nell’insegnamento di Gaio, Jovene, Napoli, 1979, 5 ed ivi ntt. 19-20; in via più generale sull’introduzione ed il ricorso alle tecniche incentrate sulla diairesis v. M. Bretone, Storia del diritto romano, Laterza, Bari 1987, 184 ss. Cfr. anche M. Talamanca, Lo schema ‘genus-species’ nelle sistematiche dei giuristi romani, in Colloquio Italo-Francese La filosofia greca e il diritto romano (Roma, 14-17 aprile 1973), t. II, Quaderno dell’Accademia nazionale dei Lincei N. 221, 1977, 3 ss. L’A., osserva: “le tecniche divisorie, di cui lo schema genus-species rappresenta – si può dire – il paradigma, costituiscono il momento portante di tutta l’attività sistematica – per usare di questa terminologia – dei giuristi romani”.

[xliv] L’identificazione di familia con il patrimonio può essere desunta da Gai. 2. 102: Qui neque calatis comitiis neque in procinctu testamentum fecerat, is si subita morte urguebatur, amico familiam sua, id est patrimonium suum, mancipio dabat, eumque rogabat quid cuique post mortem suam dari vellet.

[xlv] Il significato di corpus, assunto dalla realtà biologica, è molto pregnante ed indica le organizzazioni riconosciute dal diritto per il fatto che si presentavano come un soggetto unico nel quale venivano assorbite le individualità, anche se occorrerebbe una riflessione molto analitica per comprendere tutte le implicazioni degli accostamenti di familia a corpus ed alle entità dei collegi, della, curia, del popolo, oggetto di vivaci contrasti tra gli studiosi contemporanei; nello specifico, rinvio alle perspicaci e persuasive osservazioni contenute in P. Catalano, Diritto e persone – studi su origine e attualità del sistema romano I, Giappichelli, Torino 1990, partic. pp. 173 ss.

[xlvi] Per alcuni aspetti, soprattutto per le fasi legate alla nascita ed all’infanzia v. G. Pugliese, Il ciclo della vita individuale nell’esperienza giuridica romana, in Atti dei Convegni Lincei 61 (1984) – Colloquio: Il diritto e la vita materiale (Roma, 22-23 novembre 1982), 55 ss.; S. Tafaro, Pubes e viripotens cit., 19 ss.

[xlvii] Sui punti qui richiamati rinvio a quanto ho osservato in altro scritto: S. Tafaro, La responsabilité de l’enfant dans le droit romain, in Enfant et romanité. Analyse comparée de la condition de l’enfant, Paris 2007, § 1, pp. 119-133 e a Pubes e viripotens cit., partic. cap. I.

[xlviii] Rinvio alla suggestiva enunciazione fattane da Lucrezio: De rerum natura II, vv. 1105-1174.

[xlix] V. S. Tafaro, Pubes cit. 107 s. ed ivi nt. 15.

[l] Ritengo che la familia, rispetto alla struttura politica (prima gens poi Civitas), fosse preesistente ed era indispensabile per i singoli, poiché era conseguente alla loro naturale prima forma di aggregazione Mi faccio carico della soggettività di questa mia affermazione, avvertendo che la preesistenza della famiglia, rispetto soprattutto alla gens, è discussa: v., da ultimo, G. Franciosi, Preesistenza della ‘gens’ e ‘nomen gentilicium’, in AA. Vari, Ricerche sull’organizzazione gentilizia romana, cur. G. Franciosi, 1, Napoli 1984, 3 ss.; Id., Famiglia e persone in Roma antica cit., 22: “Che la gens abbia preceduto la famiglia si desume da vari aspetti della società romana”. A me pare che, se si considerino a fondo le implicazioni delle fonti e del passo festino ricordato, dove l’esposizione dei sacra privata sembra seguire un ordine cronologico di realizzazione storica dei sacra stessi, la preesistenza della famiglia non sia contestabile. Bisogna però intendersi su cosa si voglia ritenere essere la ‘famiglia’. Lo stesso autore riconosce che “Occorre però chiarire che quando si parla di anteriorità della gens alla famiglia non si intende negare la possibile formazione, anche precoce, nell’ambito della comunità gentilizia, di singole famiglie di coppia”. Ma che sono le ‘famiglie di coppia’, se non la ‘famiglia’, cosí come noi oggi la concepiamo? Vero è che il Franciosi, rivisitando precedenti posizioni, riferisce il significato di famiglia alla grande famiglia, che egli sostiene essere stata ‘patriarcale’, la quale era un organismo politico strutturato e, perciò, mi sembra più conseguenza che non antecedente della ‘famiglia’: direi, infatti, che la famiglia intesa come gruppo ristretto assato sull’intimità di due persone sia cosa diversa, dall’organizzazione di gruppi più ampi che si riconoscevano in un capo per fini politici, economici e sociali, vale a dire per difendersi dai nemici esterni e per meglio realizzare conquiste avere ‘peso’ nel proprio tempo e sul territorio. Sono convinto che sia più aderente alla società antica l’ipotesi della preesistenza della ‘famiglia’ rispetto alla gens, sulla quale v. F. Serrao, Diritto privato cit. 72.

[li] Questo significato restò fermo almeno sino alla fine del Principato: v. P. Catalano, Diritto e persone cit., loc. cit.

[lii] La famiglia aveva un proprio culto, assato intorno ai Lari (anima di un antenato defunto protettrice della casa) ed al Genio (Dio della genealogia domestica): v. F. Dupont, La vita quotidiana nella Roma repubblicana, cit.

[liii] Sul punto, cfr. G. Filoramo [a cura di], Storia delle religioni. 1. Le religioni antiche, Laterza, Bari 1994, 377 s.

[liv] M. Bretone, Storia cit. 38 s., dove viene ricordato che la suggestiva ed efficace immagine dei ‘cerchi concentrici’ per la visione romana della società proviene da M. Pohlenz, Antikes Führertum. Cicero de officiis und das Lebensideal des Panaitios, Leipzig-Berlin 1934, 37 = L’ideale della vita attiva secondo Panezio nel de officiis di Cicerone, Brescia 1970, 66.

[lv] Si tratta dell’opera, val la pena ricordarlo, definita ‘il manuale della classe dirigente romana”: s. Mazzarino, L’Impero romano, 1, Roma-Bari, 1984, 27; cfr. M. Bretone, Storia cit. 38.

[lvi] Cic., De off. 1. 17. 53-54: Gradus autem plures sunt societatis hominum. Ut enim ab illa infinita discedatur, proprior est eiusdem gentis, nationis, linguae qua maxime homines coniunguntur; interius etiam est eiusdem esse civitatis: multa enim sunt civibus inter se communia, forum, fana, porticus, viae, leges, iura, iudicia, suffragia, consuetudines praeterea et familiaritates multisque cum multis res rationesque contractae. Artior vero colligatio est societatis propinquorum; ab illa enim immensa societate humani generis in exiguum angustumque concluditur. (Tr.: Peraltro la società umana ha diversi gradi o forme. La società più ampia, dopo quella che non ha confini e di cui abbiamo già parlato, è quella che consiste nell’identità di nazione e di linguaggio, che è il vincolo più saldo che unisca gli uomini fra loro. Società più intima ancora è quella di appartenere alla stessa città: molte cose i cittadini hanno in comune fra loro, come il fòro, i templi, i portici, le strade, le leggi, i diritti, i tribunali, i suffragi; inoltre, la familiarità e le amicizie, i molteplici e scambievoli rapporti d’interessi e di affari. Ancora più stretto è il legame che avvince i membri di una stessa famiglia: la società umana, da quella forma universale e infinita, si restringe cosí a una cerchia piccola e angusta).

54: Nam cum sit hoc natura commune animantium, ut habeant libidinem procreandi, prima societas in ipso coniugio est, proxima in liberis, deinde una domus, communia omnia; id autem est principium urbis et quasi seminarium rei publicae. Sequuntur fratrum coniunctiones, post conso­brinorum sobrinorumque, qui cum una domo iam capi non possint, in alias domos tamquam in colonias exeunt. Sequuntur conubia et affinitates ex quibus etiam plures propinqui; quae propagatio et suboles origo est rerum publicarum. (Tr.: In verità, poiché per natura è comune agli esseri viventi il fatto di tendere alla procreazione, la prima forma di società si realizza nell’unione matrimoniale; la seconda, nella prole, e quindi la casa comune e la comunanza di tutto. Questo è il fondamento della città e come il vivaio della Repubblica. Seguono le unioni tra fratelli e sorelle, poi tra cugini e biscugini, i quali, quando una sola casa non può più contenerli escono a fondar nuove case, quasi come colonie. Seguono i matrimoni e le affinità dalle quali per cui si moltiplicano le parentele; e in questo propagarsi e pullulare della prole è appunto l’origine delle Repubbliche).

[lvii] Il punto è stato colto dal Bretone, il quale, (op. cit., 39) chiosa il pensiero di Cicerone in questi termini: “Quali siano i principii che la natura ha stabilito per la società, per la comunità degli uomini, è forse possibile vederlo solo movendo da molto lontano. Il primo è quello che si scorge nella società del genere umano tutto intero. Il vincolo che la tiene unita, è la ragione e la parola: esse – con l’insegnare e l’apprendere, il comunicare, il discutere, il giudicare – conciliano gli uomini tra loro e li uniscono in una sorta di società naturale. Questa è la società più ampia che si apra agli uomini e ai loro rapporti, e ai rapporti di tutti con tutti. In essa si deve conservare la comunione di tutti i beni che la natura ha prodotto per l’uso comune, con una distinzione: i beni che le leggi e il diritto civile hanno assegnato ai singoli, saranno nel loro possesso esclusivo, cosí come fu stabilito; quanto agli altri, avrà valore per essi il proverbio greco secondo cui fra gli amici tutto è in comune. Parecchi sono i gradi della società umana. Allontanandoci da quella che non ha confini, la più prossima comprende la stessa gente o nazione, o si fonda sulla stessa lingua, che è fra gli uomini il legame più saldo. Un vincolo ancora più stretto è l’appartenere a una medesima città: molte cose, infatti hanno in comune gli abitanti di una città: il foro, i templi, i portici, le strade, le leggi, le norme tradizionalmente osservate, i tribunali, i suffragi, e inoltre le consuetudini e le amicizie e le diverse relazioni di affari di molti con molti. Ma più intimo è il legame all’interno del gruppo familiare; cosí, da quella immensa società che abbraccia il genere umano, si arriva a una cerchia piccola e angusta”.

[lviii] Il senso dell’enunciato fu lucidamente esposto, in sede costituente (nel 1946) dall’on. Moro; egli ricordò (ai Costituenti) che la formula: La «famiglia è una società naturale» era stata adottata (dalla prima Sottocommissione) quasi all’unanimità ed era stata proposta dall’onorevole Togliatti, il quale, dopo discussione, concordò su questo punto che nella Costituzione si dovesse dichiarare il carattere naturale della famiglia in quanto società. Il grande politico e giurista chiarí che quando si afferma che la famiglia è una «società naturale», si intende qualche cosa di più dei diritti della famiglia. Non si tratta soltanto di riconoscere i diritti naturali alla famiglia, ma di riconoscere la famiglia come società naturale, la quale abbia le sue leggi e i suoi diritti di fronte ai quali lo Stato, nella sua attività legislativa, si deve inchinare. Vi è naturalmente un potere legiferante dello Stato che opera anche in materia familiare; ma questo potere ha un limite precisamente in questa natura sociale e naturale della famiglia. Si dice poi nella formula: «e come tale lo Stato ne riconosce i diritti»: vi è quindi una sequenza logica e si completa il pensiero che per noi è caro e sul quale si è avuto anche l’accordo dell’onorevole Togliatti e di altri colleghi di parte comunista.

[lix] Cic., De officiis 1. 16. 50: sed quae naturae principia sint communitatis et societatis humanae, repetendum videtur altius. Est enim primum quod cernitur in universi generis humani societate. Eius autem vinculum est ratio et oratio, quae docendo, discendo, communicando, disceptando, iudicando, conciliat inter se homines coniungitque naturali quadam societate.

[lx] V. nt. 65

[lxi] Cfr. M. Bretone, Pomponio lettore di Cicerone, in Labeo 16, 1970, 177 ss.; Id., Tecniche e ideologie dei giuristi romani, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1971, cap. VI, Pomponio lettore di Cicerone, 181 ss.

[lxii] Da ultimo vanno segnalate le acute osservazioni di P. P. Onida, Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico romano, Giappichelli, Torino 2002, 95 ss. All’autore rinvio per la letteratura e le posizioni da essa espresse riguardo al diritto naturale ed alla consapevolezza riguardo ad esso raggiunta dai giuristi romani, esimendomi dalla citazione della letteratura, richiamata dall’Onida in gran parte alla nt. 2 di96.

[lxiii] V. P. P. Onida, Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico romano cit., loc. cit. e 34 ss. L’adesione alle idee pre-aristoteliche ha avuto anche grande influenza sulla sistematica proposta dal giurista severiano, spingendolo ad adottare una classificazione tripartita del diritto. D. 1. 1. 1. 2, Ulp. 1 inst: privatum ius tripertitum est: collectum etenim est ex naturalibus praeceptis aut gentium aut civilibus. La tripartizione, che sembra non corrispondente alla dicotomia proposta, in età antonina, da Gaio nel suo manuale istituzionale, imperniata sulla bipartizione ius civileius gentium, è stata oggetto di perplessità, le quali hanno generato dubbi sull’effettiva provenienza da Ulpiano della tripartizione. Secondo la migliore dottrina tuttavia si deve riconoscere l’effettiva provenienza dall’originale di Ulpiano, come conseguenza della sua adesione alle visioni del diritto naturale, inteso come diritto comune dei viventi: cfr., sul punto, P. P. Onida, Studi sulla condizione degli animali, 116 ss., l’A., richiamandole, supera le opposte opinioni espresse in passato (soprattutto dal Bonfante, dal Perozzi, dal Castelli e dall’Albertario, dal Maschi, dall’Arangio-Ruiz, che però era più cauto, ed altri), operando anche una incisiva sintesi delle opinioni presenti nei manuali istituzionali di diritto romano.

[lxiv] V., in particolare: Cic., De re publica, 3. 18-19: Non enim mediocres viri sed maxumi et docti, Pythagoras et Empedocles, unam omnium animantium condicionem iuris esse denuntiant, …; sul passo cfr. P. P. Onida, Studi sulla condizione degli animali cit.107.

[lxv] Piú volte il Signore indica nella Sua intenzione di far crescere i figli di Abramo (che per via dei molti figli si chiamerà Abraamo) come i granelli di terra o come le stelle: indice che la crescita costituiva l’o scopo principale ed essenziale dei popoli; v., ad es., Sacra Bibbia, Gn13.16; 15.5; 17.4-6; 22.17; 26.4; 26.24; 28.14; 35.11; 47.27; 48.4, San Paolo, Cinisello Balsamo 1987.

[lxvi] V. G. Devoto, Storia della lingua di Roma, Bologna 1940, 57, 77, 80; Idem, Dizionario etimologico. Avviamento alla etimologia italiana, rist. Firenze 1968, 324, v. popolo (“parola mediterr. risal. a una base poplo ‘crescita”); F. De Martino, Storia della costituzione romana. I, Jovene, Napoli 1958, 88 ed ivi nt. 30. Il collegamento tra poublicus, publicus e il significato di crescita era già intravisto da L. Ceci, Le etimologie dei giuristi romani, L’Erma, Roma, 1966, 1112; l’A. ricordava, richiamandola, l’analoga opinione già espressa dal Thurneysen. Il collegamento tra populus e il concetto di ‘crescita’ è sottolineato anche dal Lombardi: v. G. Lombardi, Su alcuni concetti del diritto pubblico romano: ‘civitas’, ‘populus’, ‘res publica’, ‘status rei publicae’, in Archivio Giuridico, 126 (1941), 199 ed ivi nt. 8; l’a. ripropone l’ipotesi del Devoto, il quale “parla di una radice mediterranea e fa importare a Roma il termine da parte degli etruschi”, di modo che “populus vien collegato con una radice mediterranea del crescere’”: sul punto v. la puntuale riproduzione in M. P. Baccari, Il concetto di civitas augescens: origine e continuità, in SDHI, LXI, 1995, 760 ed ivi nt. 9. Idem, Concepito: l’antico diritto per il nuovo millennio, Giappichelli, Torino 2004, partic. pp.  47 ss.

[lxvii] Sul punto cfr. i manuali di Istituzioni di diritto romano. Ad es. M. Marrone, Istituzioni di diritto romano3, Palumbo, Palermo 2006, pp. 193 ss.; 263 ss.; M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, cit. 75 ss., 155 ss. V. anche G. Wesener, v. Pubertas, in PWRE, Suppl. XIV (1974), I, 571

[lxviii] V. quanto credo di avere evidenziato in Pubes e viripotens cit. cui adde, R. Astolfi, Il matrimonio nel diritto romano classico, 2a ed., Cedam, Padova 2014; il quale, in proposito, osserva “Il matrimonio classico, nel pretendere la pubertà degli sposi, la intende, come il matrimonio preclassico, quale capacità fisiologica di procreare e non quale capacità intellettuale di decidere del proprio stato”.

[lxix] V. quanto ho osservato in Pubes e viripotens, cit., pp. 131 ss. Cfr. le osservazioni di G. Pugliese, Precedenti romani della moderna legislazione sui minori, in Atti dei Convegni Lincei 59 (1983) – Colloquio italo-polacco: La legislazione sui minori (Roma, 22-23 novembre 1979), 111 ss.; Appunti sugli impuberi e i minori in diritto romano, in St. Biscardi IV (1983), 469 ss.

[lxx] Cfr. G. Franciosi, Clan gentilizio, cit., p. 49.

[lxxi] Il concetto di crescita infatti è alla base delle visioni di tutte le società dell’antichità ed in particolare dei popoli italici, dei romani e di Roma. Esso era nella radice di populus, che deriva da una radice mediterranea *poplo la quale significa, per l’appunto, “crescita”: G. Devoto, Dizionario Etimologico. Avviamento alla etimologia italiana, Firenze 1968.

[lxxii] Riguardo al nesso tra puber e l’idea di ‘crescita’ va osservato che essa poteva essere espressa dallo stesso etimo adoperato dai Romani: vi era una comune derivazione di pop(u)lus e pubes da può-, pum, pu-dh e che la radice del termine richiama anche puer, pupus, pupa: v. il mio volume Pubes e viripotens, cit., p. 48, dove osservavo: “Vien fatto di domandarsi se il termine, la cui radice sembra avere tanto il significato di uomo, quanto quello di ragazzo, non fosse una contaminazione tra questa stessa radice e uber; cioè, se il termine non stesse ad indicare il ragazzo o l’uomo ‘fecondo’: capace di accrescere il popolo, con la sua partecipazione all’assemblea armata, in un primo significato, poi inteso come capace di procreare”.

[lxxiii] V., sulle visioni e le motivazioni dei Romani, trasfuse nel diritto romano rinvio al mio volume Pubes e viripotens, cit., pp. 22 ss., cui rinvio per gli opportuni ragguagli bibliografici.

[lxxiv] I Liberalia erano una festa celebrata il 17 marzo (mese d’inizio dell’anno, secondo il calendario di Romolo) in onore di Liber, dio italico della natura e della famiglia. Liber aveva un tempio sull’Aventino, insieme a Libera e a Ceres. Il tempio era stato costruito dal dittatore Postumius nel 495 a.C. Il 17 marzo i giovani assumevano la toga (praetexta), la quale indicava a tutti che il ragazzo era uscito dalla pueritia ed era entrato nell’adolescentia. Esso era significato da manifestazioni esterne, quali la rottura della bulla deposta sull’altare di famiglia, l’adozione della toga virilis, la notificazione del nome completo, la designazione come vesticeps (che era sinonimo di pubere), secondo una scansione del decorso della vita umana, variamente espressa: v. Liberalia nr. 1, col. 81 s.; VI A v., col. 1450 ss.; VI A nr. 2, v. Toga, col. 1660.

[lxxv] Appian., Bel. civ. IV. 30; Dio Cass., 55. 22. 4; 56.29; cfr. J. Marquardt, La vie privée des Romains I cit., 4, 148 s.

[lxxvi] Pubes, cit., p 219 ed ivi ntt. 24-25.

[lxxvii] In antico l’espressione usata fu di virapatiens, che piú direttamente alludeva al ruolo sussidiario e complementare della donna; soltanto con le nuove idee circolanti tra la fine della Repubblica e Principato si passò all’uso del termine viripotens, il quale intendeva rimarcare una funzione piú attiva e non solo di partecipazione in posizione di sottomissione: v. sul punto S. Tafaro, Pubes e viripotens nella esperienza giuridica romana cit, 79 ss.

[lxxviii]. La posizione generale della donna era di completa soggezione dal punto di vista giuridico e sociale, rispetto al matrimonio, che era sorto, in via di fatto prima che venisse istituzionalizzato, come forma di scambio di cui oggetto erano, in antiquo, proprio le donne, considerate, appunto come `oggetto di scambio’: FRANCIOSI, Clan2 cit., 147, 203, 209.

[lxxix] De Marchi A., Il culto di Roma antica. I. La religione nella vita domestica (1896), 167, Hoepli, Milano rist. 1975, pp. 175 ss.

[lxxx] Sul punto FRANCIOSI, Clan2 cit., 126 s.

[lxxxi] Sulle quali v. il mio Ius hominum, cit., p. 25.

[lxxxii] Tac., Germ. 20. 6.

[lxxxiii] S. Tafaro, Ius hominum causa constitutum – Un diritto a misura d’uomo, ESI, Napoli 2009, p. 95 e, per una visione d’assieme, pp. 89 ss., § Ciclo della storia, ciclo della vita e numero sette.

[lxxxiv] Sul punto, rinvio a quanto osservato in Pubes e viripotens, cit., e a Ius hominum causa constitutum – Un diritto a misura d’uomo, ESI, Napoli 209, dove (pagg. 87 s.) “Già il Pernice aveva affermato che, in realtà, la fissazione della pubertà ad un’età determinata ed in particolare al 14° anno sicuramente non proveniva da concetti originari dei Romani; doveva, invece derivare dalle credenze sulle influenze misteriche dei numeri. In tempi piú recenti il Durry ha sostanzialmente confermato l’ipotesi di un’origine non romana della presunzione puberale; egli si è dichiarato convinto che la scelta del numero 14 forse dipese dalle influenze pitagoriche, le quali avrebbero suggerito l’adozione di quel numero, perché a sua volta multiplo del numero sette, che era ritenuto dotato di poteri magici e naturali sulla vita dell’uomo; da questo numero si sarebbe passato alla determinazione della presunzione di viripotenza in dodici anni, fissata volutamente in un numero inferiore di anni, per venire incontro al desiderio di sposare le fanciulle quando erano ancora nell’età della formazione. In conclusione si dovrebbe pensare che sono state le concezioni sui poteri dei numeri ad avere guidato e dettato la scelta di un’età che, come si è visto, non trovava grande riscontro nell’esperienza romana e talora agli stessi Romani, pur in età imperiale, parve difficile mantenere”.

[lxxxv] V. il mio Pubes, cit., pp. 162 ss.

[lxxxvi] Al riguardo v. J. Carcopino, La vita quotidiana a Roma all’apogeo dell’Impero [Tr. E. Omodeo Zona]12, Laterza, Bari 2005, a p. 97 nota che il matrimonio “Era anzitutto preceduto dal fidanzamento, il quale, pur senza imporre dei veri obblighi, veniva celebrato tanto spesso in Roma che Plinio il Giovane lo pone tra quei mille nonnulla di cui erano inutilmente ingombre le giornate dei suoi contemporanei”

[lxxxvii] Come ricorda il Volterra (Lezioni di diritto romano. Il matrimonio romano. Anno accademico 1960-61, Ricerche, Roma 1961, p. 100) “una serie di iscrizione dell’epoca imperiale ci mostrano fanciulle spose ad un’età molto al di sotto dei 10 anni”.

[lxxxviii] E. Volterra, op. cit., p. 101 ed ivi nt. 2, dove è ricordata la testimonianza di Corn. Nepos, Atticus 19. 4: … nata est autem Attico neptis ex Agrippa, cui virginem filiam collocarat. Hanc Caesar vix annicula Ti. Claudio Neroni, Drusilla nato, privigno suo despondit.

[lxxxix] Della voluminosa letteratura mi limito a rinviare, anche per quanto attiene al brano di Modestino (qui riportato): Pubes, cit. 219 ss. ed ivi nt. 25; R. Astolfi, Il fidanzamento nel diritto romano3, Cedam, Padova 1994, partic. (riguardo a D. 23. 1. 14) pp. 58, 66,155; M. Casola, Sponsalia nelle differentiae di Modestino, in Annali della Facoltà di Giurisprudenza di Taranto – Anno III, Cacucci, Bari 2010, pp. 29 ss.

[xc] V., M. J. Garcia Garrido, Diritto privato romano, ed. it a cura di M. Balzarini, Cedam, Padova 1992, p. 320 ed ivi nt. 2; Cfr. L. Fascione, Storia del diritto privato romano, cit., pp. 131 s.

[xci] In ciò gli sponsalia si differenziavano nettamente dalla engysis.greca, che era quasi un pre-matrimonio ed era vincolante ed era indispensabile per la convalida di un contratto di matrimonio; cfr., tra i tanti, R. Flaceliere, Daily Life in Greece, Macmillan Publishing Co., New York 1974, pp. 60 ss. La stessa configurazione si riscontra nelle legislazioni influenzate piú direttamente dal diritto bizantino, come nel caso della fejesa dell’Albania: cfr. N. Shehu, Il diritto romano in Albania: insegnamento e strumenti, in Diritto@Storia, n. 3, 2004.

[xcii] V., per tutti, Astolfi, Il fidanzamento, cit.

[xciii] Sul punto, v. il sito dell’Accademia della Crusca: https://accademiadellacrusca.it/it/stazione-bibliografica/dei-dizionario-etimologico-italiano/1596, dove si nota che l’informazione è contenuta in gran parte dei dizionari storici o etimologici italiani, come il DEI, Dizionario Etimologico Italiano Grande dizionario italiano dell’uso – Ideato e diretto da Tullio De Mauro (anche GRADIT o GDIU), cur. Carlo Battisti e Giovanni Alessio, Firenze, Barbera, 1950-1957); DELI, Dizionario etimologico della lingua italiana (a cure di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli, Bologna, Zanichelli, 1983); GDLI, Grande Dizionario della Lingua Italiana (a cura di Salvatore Battaglia, Torino, UTET, 1961-2002) che specificano anche che termine si è formato su influsso del preesistente patrimonium.

[xciv] Sul punto v. le attente osservazioni della Baccari, Matrimonio e donna, cit. partic. pp. 71 ss.

[xcv] F. Dupont, La vita quotidiana nella Roma repubblicana, Laterza, Bari 1989, p. 120.

[xcvi] Il nesso inscindibile tra matrimonio e filiazione è piú volte espresso dalle fonti romane. Quintiliano addirittura deduceva la condizione di ‘moglie’ dal fatto che un uomo conviveva con una donna allo scopo di procreare figli, anche se non vi era stata nessuna delle formalità consuete nel matrimonio: Quintilianus., Declamationes, 247: ita illud nuptiis conlocata efficit uxorem: sed non haec solummodo erit uxor. Fingamus enim nuptias fecisse nullas, coisse autem liberorum creandorum gratia: non tamen uxor non erit, quamvis nuptiis non sit collocata. Nell’età piú antica il marito doveva promettere con giuramento davanti ai censori di avere figli e di divorziare qualora ciò non si verificasse; ce lo ricorda Aulo Gellio, riferendo di un certo Carvilio costretto a divorziare sebbene innamorato della moglie sterile: Gellius, Noctes Atticae, 4. 3. 2: Atque is Carvilius traditur uxorem, quam dimisit, egregie dilexisse carissimamque morum eius gratia habuisse, sed iurisiurandi religionem animo atque amore praevertisse, quod iurare a censoribus coactus erat uxorem se liberum quaerundum gratia habiturum. Analoga promessa era prevista dalla legislazione matrimoniale di Augusto: Tituli ex corpore Ulpiani, 3. 3: Nam lege iunia cautum est, ut si civem romanam vel latinam uxorem duxerit, testatione interposita, quod liberorum quaerendorum causa uxorem duxerit. La necessità di crescita era tanto avvertita che, dopo la crisi demografica conseguita alle guerre civili, addirittura, Giulio Cesare, andando contro la radicata tradizione monogamica, pensò di introdurre la poligamia per incrementare la procreazione: Svetonius, Caesar, 52: Helenius Cinna plerisque confessus est habuisse se scriptam paratamque legem quam Caesar ferre iussisset, cum ipse abesset, ut ei uxores liberorum quaerendorum causa, quas velle ducere liceret.

[xcvii] L’accrescimento era ritenuto davvero vitale nell’antichità: al punto che nel pensiero greco, all’interno della famiglia patriarcale mal si sopportava il fatto che il figlio nascesse dalla madre e si teorizzò (come fece per tutti Aristotele) che anche se la donna era quella che aveva la gestazione, in realtà il figlio era frutto del ‘seme’ del padre ed il ruolo della madre consisteva nel nutrirlo: v., sul punto, E. Cantarella, L’amore è un Dio, Feltrinelli, Milano 2007, p. 138 s § Il dibattito sulla riproduzione.

[xcviii] È ciò che dice chiaramente, fin della prima edizione, Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612), dove alla voce matrimonio è riportata una citazione tratta del Volgarizzamento della somma Pisanella detta Maestruzza «Matrimonio una congiunzione dell’uomo, e della donna, la quale ritiene una usanza di vita, la quale dividere non si può. E perché nel matrimonio apparisce piú l’uficio d’esso nella madre, che nel padre, perciò è determinato più della madre, che dal padre, Matrimonio, tanto è a dire, come uficio di madre”.

[xcix] V. retro, p. 19 ed ivi nt. 71.

[c] (Tr.: Dunque è comune a tutti gli animali il desiderio di unirsi per procreare e prendersi cura dei figli).

[ci] Franciosi, Famiglia e persone cit. p. 131 ed ivi nt. 4; cfr. G. Lobrano, Uxor quodammodo domina, Pub. Univ. Sassari 1989, p. 48 ss., anche online in Diritto@Storia; Stepkine, cit., nota: “L’importanza della procreazione è messa in risalto dalla Lex Iulia et Papia, nonché dalla legislazione successiva: che il matrimonio sia contratto liberorum quaerendorum causa appare la finalità incontestata per la quale i consortes instauravano fra loro una piena comunanza di vita”

[cii] V. supra p. 14.

[ciii] R. Astolfi, Il matrimonio nel diritto romano preclassico, Cedam, Padova 2000, pp. 11 – 28.

[civ] Cfr. Volterra, Lezioni cit., p. 128; cui adde, anche per i ricchi richiami bibliografici, baccari, Fayer e Stepkine, cit. (v. nt. 125).

[cv] Cosí Franciosi, Famiglia e persone cit., p. 135.

[cvi] Cfr., tra i tanti, Talamanca, Istituzioni, cit., cap. IV.

[cvii] Cfr. U. Bartocci, Le species nuptiarum nell’esperienza romana arcaica. Relazioni matrimoniali e sistemi di potere nella testimonianza delle fonti, Il Cigno Galileo Galilei, Roma 1999.

[cviii] In tal senso soprattutto argomentano gli Aa. Contemporanei, a partire da quelli cit. alla prec. nt. 151, contro le precedenti affermazioni, a partire da quelle del Manenti, ravvisanti nel deductio in domu mariti, l’inizio del matrimonio.

[cix] V., per tutti, U. E. Paoli, Vita romana, Le Monnier, Firenze 1963, p.151.

[cx] Il punto molto complesso partí da una prima fase nella quale il matrimonio, al pari del fidanzamento, nasceva dall’accordo dei soli padri, seguito da una progressiva rilevanza del consenso anche degli sposi, ma sempre insieme a quello del paterfamilias: v. la lett. cit. alle ntt. prec. e in part.  Robleda, El matrimonio, cit.; Astolfi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., cap. II, cui rinvio anche per una visione delle varie forme ed ipotesi di manifestazione del consenso – Consenso. Ricordo che bastava che il marito facesse sedere a capotavola, di fronte a lui, un’altra donna (invece che la moglie) per inferirne che il matrimonio era finito.

[cxi] Infatti ancora oggi il verbo adulterare è sintomo di falsificazione: V. la corrispettiva voce nell’Enc. Treccani.

[cxii] Ad esempio, l’articolo 559 del codice penale del 1930, rubricato “adulterio” puniva esclusivamente l’adulterio della moglie, stabilendo che: La moglie adultera è punita con la reclusione fino a un anno. Con la stessa pena è punito il correo dell’adultera. La pena è della reclusione fino a due anni nel caso di relazione adulterina. Il delitto è punibile a querela del marito. Soltanto con sentenze del 1968 e del 1969 tale normativa fu abolita: v. sent. Corte Costituzionale del 19 dicembre 1968 n. 126 e sent. Corte Cost. del 3 dicembre 1969 n. 147.

[cxiii] V., anche per le fonti e l’amplissima bibliografia, R. Astolfi, La lex Iulia et Papia4, Cedam, Padova 1996; G. Rizzelli, Lex Iulia de adulteriis. Studi sulla disciplina di adulterium, lenocinium, stuprum, Grifo, Lecce 1997.

[cxiv] V. Dupont, La vita, cit. pp. 122 ss. L. A. fa diversi esempi di ciò tra i quali, quello di Pompeo, ritenuto quasi scandaloso, perché, sposato a Giulia (figlia di Cesare) se ne era innamorato, al punto di passeggiare insieme a lei nei giardini, fuori di Roma; sicché “Tutta Roma dei due innamorati”. Lo stesso avverrà in seguito, quando Pompeo, morta Giulia, sposò (ancora una volta per motivi politici) Cornelia, figlio di Metello Scipione.

[cxv] Dupont, op. cit., p. 125.

[cxvi] Sul punto v. Veyne, op. cit., pp.157 ss.

[cxvii] V. Wikipedia, al sito: https://it.wikipedia.org/wiki/Donne_nell%27antico_Egitto: Le donne nell’antico Egitto possedevano uno status che contrastava in modo significativo con la condizione della donna in molti paesi moderni, in quanto occupavano e veniva assegnata loro una fetta di potere sociale (e, in certi casi, anche politico) che non è consentito loro avere in un buon numero di società dell’età contemporanea. Anche se gli uomini e le donne in terra d’Egitto avevano poteri tradizionalmente distinti all’interno della società civile, non sussisteva alcuna barriera insormontabile – né di tipo culturale né tanto meno religioso – davanti a coloro che volessero deviare da un tale modello di separazione dei ruoli. La società egizia riconosceva non l’uguaglianza sociale dei sessi (nel senso più moderno del termine, o le pari opportunità), bensí la complementarità essenziale nei compiti a cui erano destinati rispettivamente uomini e donne. I doveri a cui era chiamata la popolazione femminile del paese erano soprattutto rivolti alla buona riuscita della vita nell’ambiente familiare, quindi alla prosperità della famiglia e alla buona salute e crescita dei figli. Un tale rispetto nei confronti della femminilità è espresso chiaramente nell’antica teologia della religione egizia e dalla sua morale, pur rimanendo alquanto difficoltoso stabilire la portata della sua applicazione effettiva nella realtà della vita quotidiana nell’antico Egitto; è stato in ogni caso molto differente per esempio nella società dell’Antica Atene dove le donne erano legalmente considerate come delle “eterne minorenni” e pertanto prive della maggior parte dei diritti civili.

[cxviii] F. Giannini, I. Baratta, La donna etrusca: indipendente, libera, moderna e bellissima, scritto il 09/06/2018, in Finestre sull’Arte – Arte antica e contemporanea. Al sito: https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/donna-etrusca-libera-bellissima-moderna. La donna etrusca poteva essere identificata anche col nome della madre, poteva partecipare ai banchetti sdraiandosi sui letti con gli uomini (mentre a Roma le donne dovevano stare sedute), si occupava di affari pubblici, discutendo di politica (anche se non poteva votare né essere eletta), usciva di casa quando voleva, talvolta era libera di scegliersi lo sposo e in genere aveva una libertà che scandalizzava molto gli scrittori greci e romani, che descrissero gli etruschi come un popolo privo di moralità.

[cxix] V. U. E. Paoli, Vita romana, cit., p.148 s. Da ultimo, cfr. E. Pischedda, I Greci, i Romani e… le donne, Carocci, Roma 2022.

[cxx] “Il nome delle donne era ai tempi di Roma antica un segreto che doveva essere custodito nel tempo. A differenza degli uomini, una donna era rappresentata soltanto dal Gens, ovvero dal gruppo di famiglia cui apparteneva ed era accompagnata dall’appellativo “Maior” o “Minor” per specificarne l’anzianità oppure da un nomignolo che la rappresentasse esteticamente.”, cosí al sito: https://www.roma.com/le-donne-romane-e-il-loro-nome-segreto/.

[cxxi] Cosí Paoli, Vita romana, cit., p. 152.

[cxxii] L’episodio si trova illustrato da A. Zizza, La moglie “in prestito”: il caso di Marzia e Catone Uticense, in MediterraneoAntico, Rivista online al sito https://mediterraneoantico.it/articoli/la-moglie-in-prestito-il-caso-di-marzia-e-catone-uticense/: “La storia di Catone Uticense e della moglie Marzia è stata, non per la sua eccezionalità, ma per i protagonisti che la interpretarono, un episodio famoso della storia romana, un ulteriore tassello nella direzione di un’immagine, quella della tarda repubblica, in cui lo stoicismo di matrice greca, il culto delle virtù civili- minacciate dalla figura cesarea- e la considerazione sociale della donna trovarono un perfetto punto di incontro. L’episodio è stato descritto con dovizia di particolari da autori come Plutarco nelle sue “Vite parallele”, Lucano all’interno della “Pharsalia” (Phars. II, 326-391) e Appiano da Alessandria nella “Historia romana”, per citare i più famosi. E anche Dante Alighieri, pur sotto un’ottica cristiana e attraverso il filtro testuale lucaneo, affrontò l’argomento. Plutarco nella vita di Catone il Giovane (“Cato minor”, 24-25), parallela a quella del greco Aristide, racconta l’episodio con una certa perplessità, evidenziando il comportamento alquanto singolare del suo protagonista, Marco Porcio Catone il Giovane (futuro Uticense). Quando avvenne l’episodio, Catone viveva già da alcuni anni con la seconda moglie, Marzia, figlia di Lucio Marcio Filippo, sposata giovanissima nel 62 a.C. dopo il ripudio per adulterio della prima moglie, Atilia. Quest’ ultima era stata sposata nel 73 a.C. da Catone Uticense dopo che la fidanzata, Emilia Lepida, aveva contratto matrimonio col senatore Quinto Cecilio Metello Pio Scipione Nasica. Atilia, che, a dire di Plutarco, fu la prima donna di Catone, gli diede due figli: Marco, che trovò la morte a Filippi, e Porzia, che sposò in prime nozze Marco Calpurnio Bibulo, console nel 59, alleato politico del padre, e in seconde, diventata vedova, il primo cugino Marco Giunio Bruto, il cesaricida, di cui – si racconta – era sempre stata innamorata. Un amico di Catone, il ricchissimo oratore Quinto Ortensio Ortalo, non aveva figli maschi. Costretto dalle circostanze, dunque, Ortensio, a scopo procreativo, chiese a Catone la figlia Porzia come moglie, facendo leva sulle virtù civili dell’amico e sul suo senso del dovere verso Roma. Così fa dire Plutarco ad Ortensio (“Cato minor”, 25, 4-9): «Sosteneva che se pure una cosa del genere può apparire strana, dal punto di vista della natura è cosa giusta e giovevole alla collettività che una donna in pieno fiore non resti inattiva fino allo spegnimento della sua capacità generatrice, senza con ciò infastidire ed impoverire la propria casa, generando più figli di quanti sia giusto. Inoltre, se uomini di valore hanno comuni discendenti, la loro virtù si accresce e si comunica a questi e lo stesso Stato si amalgama per via delle parentele». Ma Catone negò l’assenso, sostenendo che “trovava strano che gli chiedesse la figlia quando era già sposata con un altro”. Queste le parole che Plutarco gli fa pronunciare: Così Ortensio spostò la sua attenzione su Marzia, la moglie di Catone, e questi con apparente incoerenza – visto che anche Marzia era “già sposata con un altro” – acconsentì di “prestargli” la moglie a fini procreativi. Subordinò l’assenso, tuttavia, al permesso del padre di lei, Lucio Marcio Filippo. Perché serviva necessariamente l’approvazione del padre di Marzia? Perché il matrimonio della donna con Catone era sine manu e lei era sotto la tutela del padre, che poteva interrompere quando voleva il matrimonio della figlia. I matrimoni a Roma potevano essere cum manu, laddove la donna passava dalla potestas paterna a quella maritale, o sine manu, se a controllare l’operato della figlia era ancora il pater familias. La donna, per la sua “levitas animi”, infatti, era considerata soggetto dotato sì di diritti, ma esercitabili solo previo assenso del suo tutore. Questo spiega anche la prima richiesta di Ortensio a Catone relativa a Porzia, sposata anche lei, dunque, con la modalità sine manu, e per la quale l’oratore doveva rivolgersi al padre, Catone, appunto. L’assenso fu concesso, Marzia divorziò da Catone (o fu prestata, secondo alcune fonti) e fu sposata (o “affidata” ad Ortalo). Il matrimonio, se matrimonio ci fu, avvenne alla presenza del marito, che, in tal modo, volle manifestare in pubblico il suo totale assenso e sancire un’alleanza senza dubbio proficua per tre famiglie. Sappiamo dalle fonti, in questo concordi, che il matrimonio tra Catone il Giovane e Marzia era sereno e che nessuna ombra lo turbava.  L’interrogativo inevitabile è quale sia stato il ruolo di Marzia in questa vicenda, ma la risposta non deve essere inficiata dal confronto, anch’ esso forse inevitabile, con la morale sessuale attuale. In epoca repubblicana la donna, salvo alcuni rari casi, non aveva voce in capitolo sul suo matrimonio e sulle sue scelte e passava, come detto, da una tutela all’ altra, come fosse incapace di intendere e di volere. Ma Marzia era davvero la moglie perfetta e, sebbene innamorata di Catone, accettò la volontà del padre e del marito senza protestare. Anche Catone la amava ma metteva, evidentemente, il bene di Roma e della trasmissione della res familiaris (e del mantenimento del potere degli optimates susseguente) su un gradino ben superiore a quello della sua felicità individuale. Ecco cosa ci racconta lo storico Appiano di Alessandria- vissuto tra I e II secolo d.C.- nella sua “Historia romana” (2, 14, 99): «Catone aveva sposato Marzia, la figlia di Filippo, quando era ancora molto giovane; era molto attaccato a lei, e da lei aveva avuto dei figli. Tuttavia, la diede a Ortensio, uno dei suoi amici, che desiderava avere figli ma che era sposato a una donna sterile. Dopo che Marzia ebbe dato un figlio anche a lui, Catone la riprese di nuovo in casa, come se l’avesse prestata.» Marzia compì diligentemente il suo dovere e diede un figlio ad Ortalo, o forse due, se contiamo quello che teneva in grembo al momento del “prestito”. Pare che Marzia, infatti, fosse incinta di Catone quando passò nella casa del grande oratore, rivale e poi grande amico di Cicerone. Ortensio morì nel 50 a.C.  Marzia tornò di sua spontanea volontà dal primo marito e Catone la risposò”.

[cxxiii] Paoli, loc. cit.

[cxxiv] Carcopino, loc. cit.

[cxxv] Paoli, Vita romana, loc. cit. p. 153.

[cxxvi] Carcopino, op. cit., p. 99 s.: “La Chiesa, essenzialmente conservatrice, in questo genere di cose modificava solo ciò che era incompatibile con le sue credenze». In effetti, il matrimonio cristiano ricondotto alla sua nozione fondamentale, consiste nel libero dono di due anime l’una all’altra. Indipendente dalle allegrezze che lo seguono, e anche dalla cerimonia sacra che abitualmente lo accompagna, il sacramento risulta dall’affermazione d’intima unione che i coniugi esprimono alla presenza del prete, che è là solo per registrarlo davanti a Dio. Ora, il matrimonio romano dell’epoca classica richiede una definizione simile a questa: infatti, esso si costituiva nel momento in cui, forti dell’adesione della divinità, constatata dall’auspex, Gaio e Gaia dichiaravano insieme la loro volontà di unirsi l’uno all’altra; e bisogna aggiungere che proprio con tale dichiarazione si legavano”.

[cxxvii] Carcopino, op. cit., p. 99.

[cxxviii] (Tr.: Le nozze sono l’unione dell’uomo e della donna – enunciazione riscontrata, come abbia visto, anche in Ulpiano – e comunanza di ogni aspetto della vita, condivisione del diritto divino e umano).

[cxxix] Sul passo, v. la bibl. cit., nt. 125; adde C. Castello, La definizione di matrimonio secondo Modestino, in Apollinaris 51, pp.  609-640; B. Sitek, La conception du mariage dans le droit classique romain et la culture juridique en Europe. Quelques reflexions sur le mariage selon le texte de Modestin, Czasopismo Prawno Hystoryczne 50, 11-29 (1998).

[cxxx] Eco è nel fatto che ancora oggi la sposa viene accompagnata all’altare dal padre e consegnata allo sposo, secondo la rivisitazione ‘pacifica’ del cristianesimo.

[cxxxi] Paoli, Vita, cit., p. 154.

[cxxxii] Carcopino, loc. cit.

[cxxxiii] Paoli, Vita, cit., p. 155: “Quando la sposa era, giunta alla casa maritale, ne ornava la soglia con bende di lana e la ungeva con lardo di maiale e con olio, per cui la fantasia etimologica di qualche an tico 1 non arretrò davanti alla enormità di far derivare uxores da unxores! La cerimonia dell’entrata in casa avveniva cosi … Proprio il primo giorno! Sarebbe stato di pessimo augurio”.

[cxxxiv] V., tra i tanti, S.A. Cristaldi, Confarreatio e svolgimento delle nozze, in Religione e Diritto Romano. La cogenza del rito [cur. S. Randazzo], Libellula, Tricase 2015, pp. 153 ss.; cui rinvio per la vasta citazione bibliografica sia sulla confarreatio sia piú in generale sul matrimonio romano ed i modi di acquisto della manus.

[cxxxv] Noctes Atticae, X. 10.

[cxxxvi] La vita, cit. p. 97.

[cxxxvii] Cfr., da ultimo, il sito https://www.osservatoreromano.va/it/news/2021-10/quo-235/l-anello-che-sigilla.print.html.

[cxxxviii] V. retro p. 10.

[cxxxix] Cfr. il sito https://www.michelinostudio.com/blog/matrimonio/storia-delle-fedi-matrimoniali-dallegitto-ad oggi/#:nelli%20di%20matrimonio%20si,anulare%20indicava%20proprio%20la%20coppia.


[1] V., Groppi T., I diritti umani in Asia, v., in Accademia.edu, al sito: https://www.academia.edu/38140533/I_DIRITTI_UMANI_IN_ASIA; Campbell C., A. McDonald, Practice to Theory: States of Emergency and Human Rights Protection in Asia, in M. Jacobsen, O. Bruun, Human Rights and Asian Values, Richard, Curzon Press, Richmond, London 2000, p. 268; Sen A., Human Rights and Asian Values (1997), trad. it. Diritti umani e valori asiatici, in Laicismo indiano, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 151; Welch C.E., V.A. Leary, Asian Perspectives on Human Rights, Westview Press, Boulder 1990.

[1] Groppi, op. cit. pp 3-4.

[1] Adopero l’espressione in un senso molto lato e approssimativo, con riferimento, come indicato nell’Enciclopedia Treccani, all’idea che tutte le popolazioni e le società umane fossero partite da una condizione originaria comune e che alcune di esse fossero rimaste ‘primitive’, ovvero non progredite in misura significativa rispetto a tale punto di partenza comune. Invero il termine ‘primitivo’, derivato dal latino primitivus, significa ‘primo in ordine di tempo’. In questa accezione è usato in varie lingue europee per indicare la forma originaria o più antica di un’istituzione (ad esempio, ‘la Chiesa primitiva’, nel senso di Chiesa paleocristiana), oppure per descrivere una condizione attuale che ricorda la forma antica: v. A.KuperEnciclopedia delle scienze sociali, Treccani, 1998.

[1] Su di esso e su quanto tratto in questo elaborato seguo, ancorché non lo richiami espressamente, G. Franciosi, Famiglia e persone in Roma Antica Dall’età arcaica al Principato, Giappichelli, Torino 1989; nonché, dello stesso Autore, Clan gentilizio e strutture monogamiche. Contributo alla storia della famiglia romana4, Jovene, Napoli 1989; Ricerche sull’organizzazione gentilizia romana2, Jovene, Napoli 1988. Inoltre mi avvalgo di precedenti mie riflessioni: S. Tafaro Famiglia e matrimonio: le radici romanistiche, in [cur. F. Lempa – S. Tafaro] Rodizna i spoleczenstwo wczoraj i dzis. Atti del Convegno svoltosi a Bialystok nel novembre del 2004 sulla Famiglia, Temida2 (Poland). Bialystok 2006; S. Tafaro Riflessioni su familia e societas humana, cit., pp. 2537-2561; S. Tafaro, Persona e familia, in Diffusione e sviluppo del sistema del Diritto romano e il Diritto Cinese, Law press China, 2015, pp. 218-240, traduzione di Lou Aihua.

[1] L. Morgan, La società antica. Le linee del progresso umano dallo stato selvaggio alla civiltà (tr. Casiccia e Trevisan, Feltrinelli, Milano 1974. Come è noto, i risultati delle indagini del Morgan furono divulgati da F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato. In rapporto alle indagini di Lewis H. Morgan, Rinascita, Roma 1955).

[1] Non ritengo di dovermi qui soffermare sull’attenzione dedicata alle tesi di Morgan ed in particolare alla famiglia di gruppo, con specifica attenzione alla famiglia punalua della Hawai e alla famiglia pirrauru dell’Australia, da successivi pensatori, quali H. Spencer, C. Marx, F. Engels ed altri: v. alla voce Famiglia dell’Enciclopedia Treccani, Roma 1932.

[1] Di essa parlava Erodoto con riferimento ai Licii, ai Massageti, agli Agatirsi, ai Nasomoni, ai Macli. Inoltre vi è un riferimento agli Etrusci, Sanniti e Messapi in Teopompo (Fragm 222). Ne parlavano anche Cesare, con riguardo ai Britanni (De bello Gallico 5. 14: Uxores habent deni duodenique inter se communes et maxime fratres cum fratribus parentesque cum liberis. Sed si qui sunt ex iis nati, eorum habentur liberi, quo primum virgo quaeque deducta est. Tr.: Hanno mogli in comune, vivendo in gruppi di dieci o dodici, soprattutto fratelli con fratelli e genitori con figli; se nascono dei bambini, sono considerati figli dell’uomo che per primo si è unito alla donna), e Tacito relativamente ai Sarmati, Peuceti, Venedi e Finni (Germania 46: Peucinorum Venedorumque et Fennorum nationes Germanis an Sarmatis adscribam dubito, quamquam Peucini, quos quidam Bastarnas vocant, sermone, cultu, sede ac domiciliis ut Germani agunt. Sordes omnium ac torpor procerum; conubiis mixtis nonnihil in Sarmatarum habitum foedantur … Fennis mira feritas, foeda paupertas: non arma, non equi, non penates; victui herba, vestitui pelles, cubile humus Tr.: I Peucini, i Veneti e i Fenni non so se comprenderli fra i Germani o i Sarmati. Per la verità i Peucini, che alcuni chiamano Bastarni, hanno lingua, modi di vita, abitazioni fisse come i Germani. Sudiciume in tutti, indolenza nei capi. Causa i matrimoni misti, hanno peggiorato alquanto i lineamenti, prendendo fattezze da Sarmati …. Sorprendentemente selvaggi ed estremamente poveri i Fenni: non hanno armi, cavalli, vita familiare …): sul punto Franciosi, Famiglia e persone, cit., p.1925.

[1] Op. e locc.citt. alla nt. prec.

[1] V. Riflessioni su familia, cit. nt. 22. Il rapporto tra gens e familia v. anche C. Castello, Studi sul diritto familiare e gentilizio romano, Giuffré, Milano 1942.

[1] Cfr. supra nt. 7.

[1] Germania 46, cit.: Idemque venatus viros pariter ac feminas alit; passim enim comitantur partemque praedae petunt. (Tr.: Vivono di caccia tanto gli uomini che le donne; queste li accompagnano ovunque e pretendono la loro parte della preda).

[1] Franciosi, Familia, cit., p. 20.

[1] Il pensiero dell’Autore si trova articolato in diversi scritti, a partire dal 1861: J. Bachofen, Das Mutterrecht. Eine Untersuchung über die Gynaikokratie der alten Welt nach ihrer religiösen und rechtlichen Natur; Urreligion und antike Symbole (3 Bde., 1926) e Mutterrecht und Urreligion (1927).

[1] V. AA. Vari, Storia delle donne. L’Antichità [a cura di p. Shmitt Pantel], Laterza, Bari 1990, pp. 40 ss., dove viene esaminata la risposta all’interrogativo, lí stesso posto: «Dio la Madre?».

[1] Cfr. G. Filoramo, Storia delle religioni. 1. Le religioni antiche, Laterza, Bari 1994, p. 286 s.

[1] V. Enc. Treccani, cit., v. Grande Madre “La grande dea di Pessinunte (gr. Μεγάλη Μήτηρ), il cui simulacro fu portato a Roma nel 204 a.C.”.

[1] Cfr. Filoramo, Storia, cit., pp. 351, 368, 404, 419, 420 s.

[1] Divinità romana, venerata come protettrice delle donne, e specialmente delle partorienti. Poiché il nome della dea non può separarsi dall’appellativo di pater matutinus, dato a Giano (v.), come dio del principio del giorno, la Mater Matuta fu certo, in origine, come divinità parallela a Giano mattutino, una dea dell’aurora. Il suo passaggio da questo primo significato a quello di divinità protettrice del parto è fenomeno frequente alla religione romana antica e dovuto al parallelismo che i Romani vedevano fra la nascita degli uomini e il sorgere della luce dalle tenebre (si confronti Giunone Lucina). Il suo culto fu diffuso in tutta l’Italia centrale, in territorio latino, umbro ed osco; e fu accolto probabilmente anche in Etruria: dappertutto vi attendevano donne, in certi luoghi con carattere di vere sacerdotesse. A Roma si celebrava in suo onore la festa delle Matralia (11 giugno): vi partecipavano soltanto quelle matrone che avessero avuto un solo marito; per ricordare, ogni anno, l’esclusione delle donne non libere, s’introduceva nella cerimonia una schiava, che veniva cacciata a frustate. L’offerta rituale era costituita da focacce cotte in vasi di terra: v. G. Wissowa, in Roscher, Lexicon der griech. und röm. Mythologie, II, col. 2462 segg.; id., Religion und Kultus der Römer, 2ª ed., Monaco 1912, p. 110 segg.; S. B. Platner, A topogr. Diction. of ancient Rome, Oxford 1929, p. 330.

[1] V. M. Fiorentini, Ricerche sui culti gentilizi, La Sapienza, Roma 1988, pp. 244 ss.

[1] Su di essa l’Enc. Treccani (v. Dea Bona) dice: “Bona Dea, che ha un significato generale di Grande Madre, si venerava un’antica divinità laziale, il cui nome non poteva essere pronunciato”. Ne parlava Plutarco (Quaest. Rom. 20). Macrobio ne attesta l’origine greca (Macrob., Saturnalia, 1. 12, 27: Haec apud Graecos ἡ Θεὸς Γυναικεία dicitur, quam Varro Fauni filiam tradit adeo pudicam, ut extra γυναικωνῖτιν numquam sit egressa nec nomen eius in publico fuerit auditum nec virum umquam viderit vel a viro visa sit, propter quod nec vir templum eius ingreditur). Dovrebbe ravvisarsi nella Dea Famia (v. in L. Biondetti, Dizionario di mitologia classica, Baldini&Castoldi, Milano 1997), che sarebbe penetrata in Roma da Taranto, a seguito della conquista di questa città. Secondo altra versione sarebbe Faunia moglie del pastore Faunus. Il suo culto era riservato alle sole donne. È nota la disputa tra Cesare e Clodio, accusato di essersi introdotto in vesti femminili alle celebrazioni della Dea, per insidiare Pompea (moglie di Cesare) che fu ripudiata dal marito, pur se forse senza colpa:, perché dove essere senza neppure ombra di qualsiasi sospetto: “Mulier Caesaris non fit suspecta etiam suspicione vacare debet”, da cui il famoso detto “La moglie di Cesare deve essere al di sopra perfino del sospetto”: cfr. il sito https://www.studiarapido.it/lo-scandalo-della-bona-dea-odio-di-clodio-per-cicerone/).

 

[1] Cfr. J. Champeaux, La religione dei romani [cur. N. Salomon Traduzione G. Zattoni Nesi], Il Mulino, Bologna 2002; V. Dini, Il potere delle antiche madri, Pontecorboli, Firenze 1995; L. Rangoni, La grande madre. Il culto del femminile nella storia, Xenia, Milano 2005; A. Romanazzi, Guida alla Dea Madre in Italia. Itinerari fra culti e tradizioni popolari, Venexia, Roma 2005. V. anche il sito: https://www.romanoimpero.com/2010/04/culto-della-mater-matuta.html?m=0.

[1] Cfr. N. H. Rothschild, Emperor Wu Zhao and Her Pantheon of Devis, Divinities, and Dynastic Mothers, Columbia University Press, 16 Giugno 2015, ISBN 9780231539180. Metà donna ma con la coda di drago un giorno, scivolando lungo il Fiume Giallo ed abbassando il capo, vide la propria bella immagine riflessa nell’acqua. Molto felice, decise allora di modellare figurine con l’argilla del letto del fiume a secondo il proprio aspetto. Ingegnosa e abile, portò ben presto a termine la modellazione di molte figurine quasi simili a lei, sostituendo tuttavia due gambe alla coda di drago. Quindi soffiò su di loro, infondendovi la vita. Di conseguenza le figurine cominciarono a muoversi, diventando essere intelligenti e agili capaci di camminare e parlare. Nüwa li chiamò “uomini”, poi infuse nel corpo di alcuni l’energia Yang, l’elemento maschile attivo, per cui questi diventarono maschi, e nel corpo di altri l’energia Ying, l’elemento femminile dolce, rendendoli femmine. Maschi e femmine si misero a saltellare e a chiamarsi attorno a Nüwa, dando cosí vita alla terra.

[1] Conosciuta anche come Mahadevi, è una delle divinità più importanti e complesse della religione induista. Rappresenta la forza vitale che dà vita all’universo ed è conosciuta come la creatrice della vita e madre universale. Il suo nome significa appunto “dea” o ”divinità femminile” in sanscrito. Il ruolo di questa dea nella religione induista è molto ampio e complesso, poiché la sua figura incarna diverse qualità e aspetti dell’universo e della vita stessa. In molti testi sacri induisti Devi è descritta come la madre di tutti gli dei e degli esseri viventi, colei che dona la vita e il nutrimento: cfr. AA. Vari, Storia delle donne. L’Antichità, cit., p. 41 s.: «Senza dubbio la Dea è detta “Madre del mondo”». Va tenuto presente che specialmente tra induismo e mondo ellenico-romano idee e culti si sono spesso influenzati: cfr. Filoramo, op. cit.

[1] Mut (anche MautMout) è una divinità egizia appartenente alla religione dell’antico Egitto. Era una dea-madre (nella lingua egizia, il suo nome significa madre) dai molteplici aspetti che mutarono nelle migliaia di anni di storia del pantheon egizio. Era una dea di primaria importanza, associata alle acque da cui tutto avrebbe avuto origine tramite partenogenesi. Era venerata come regina di tutti gli dei. Veniva designata come Madre del mondo, Signora del cielo, Madre degli dei, Colei Che partorisce ma che non è mai stata partorita: cfr. V. Ions, Egyptian Mythology, Paul Hamlyn, Hamburg 1973. pp.90, 99-103.

[1] Detta anche Pacha Mama o Mama Pacha significa, in lingua quechua, “Madre Terra”. Era una divinità venerata dagli Inca e da altri popoli abitanti gli altipiani andini, quali gli Aymara e i Quechua; cfr. il sito: www.takiruna.com/2015/07/17/mito-de-pachamama-en-el-pensamiento-colectivo-andino/.

[1] Cioè la curiosa costumanza per cui la donna, immediatamente dopo lo sgravo lascia il letto al marito, il quale, prendendo la cura del neonato e, talvolta, simulando le doglie del parto, riceve le felicitazioni degli amici e dei vicini: v. la relativa voce nell’Enciclopedia Treccani, a cura di R. Corso.

[1] Svet. Caesar 22: … ac negante quodam per contumeliam facile hoc ulli feminae fore, responderet, quasi adludens, in Syria quoque regnasse Semiramin, magnamque Asiae partem Amazonas tenuisse quondam (Tr.: … e quando un tale – cioè un senatore -, per offenderlo, gli disse che ciò non sarebbe stato possibile a nessuna donna, assecondando lo scherzo, replicò che anche Semiramide aveva regnato in Siria e che le Amazzoni avevano dominato su gran parte dell’Asia). Va precisato che l’accusa era riferita ai rapporti omosessuali avuti da Cesare con Nicomede, re di Bitinia (Svet. Caesar 2), per i quali fu deriso come “Re di Bitinia”. Essi gli procurarono una cattiva fama, al punto che Curione (padre) ripreso poi da Cicerone, lo definí: “marito di tutte le mogli e moglie di tutti i mariti” (Svet. 52).

[1] V. prec. 11.

[1] D. 41. 1. 3. pr., Gaius libro secundo rerum cottidianarum sive aereorum: Quod enim nullius est, id ratione naturali occupanti conceditur: Cfr. G. Lombardi, Libertà di caccia e proprietà privata in diritto romano, BIDR. 53-54 (1948), pp. 273-344; R. Cardilli, Fondamento romano dei diritti odierni, Giappichelli, Torino 2021, p. 103 s. L’A., avvalendosi anche della testimonianza di Paul. D. 41. 1. 2. 1, dà conto delle conseguenze del passaggio dall’economia del consumo a quella dell’accumulo, prefigurato dallo stesso Gaio, in Inst., 2. 18-65, dove il giurista antoniniano parlava delle cose frutto di accumulo e suscettive di dominium ex iure civili.

[1] Franciosi, op. cit., p. 21.

[1] A. Schiavone, Storia del diritto romano e linee di diritto privato, Giappichelli, Torino 2005, part. p. 315.

[1] Gli aspetti salienti di siffatta trasformazione, ancora una volta, sono stati lucidamente evidenziati dal Franciosi, riguardo alla familia romana: v. Franciosi, op. cit., pp. 21 s.

[1] Cfr. M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Giuffré, Milano 1990, partic. p. 152; F. Amarelli – L. De giovanni – P. Garbarino – V. Marotta – A. Schiavone – U. Vincenti, Storia del diritto romano e linee di diritto privato, Giappichelli, Torino 2000, part. p. 14; AA. Vari, Dizionario giuridico romano3 [Introduzione. A. Guarino; Presentazione S. Di Salvo], Simone, Napoli 2003, v. gens, p. 221; L. Fascione, Storia del diritto privato romano, Giappichelli, Torino 2006, p. 97.

[1] V. Franciosi, loc. cit.: Che la gens abbia preceduto la famiglia si desume da vari aspetti della società romana. Occorre però chiarire che quando si parla di anteriorità della gens alla famiglia non si intende negare la possibile formazione, anche precoce, nell’ambito della comunità gentilizia, di singole famiglie di coppia. Ma la famiglia di coppia che vive all’ombra del più vasto ordinamento comunitario gentilizio è cosa diversa dalla forte famiglia patriarcale, che si afferma successivamente emergendo all’interno e in certo senso contro l’ordinamento comunitario della gens. L’affermarsi a livello istituzionale della famiglia patriarcale presuppone la definitiva privatizzazione dei mezzi di produzione e l’utilizzazione in chiave privata degli stessi organismi e delle istituzioni già comunitarie. I capi di grandi famiglie patriarcali alla testa di gruppi clanico-gentilizi non stanno a indicare una identità di struttura tra i due organismi, ma solo l’utilizzazione delle istituzioni gentilizie da parte di potenti famiglie sorte nel seno stesso della gens, ciò che dà luogo a una seconda fase dell’organizzazione gentilizia, la fase aristocratico-patrizia rispetto al precedente assetto comunitario di questo organismo … La storia più antica di Roma è storia di gentes; solo più tardi, dallo scorcio del quarto secolo in poi, essa diverrà storia delle grandi famiglie. … La gens è una formazione naturale antichissima, che nasce dal frazionamento di ampi organismi primitivi (tribù, orda) in più unità esogamiche attraverso la pratica del matrimonio collettivo tra serie di fratelli e serie di sorelle. Sono argomenti che valgono anche a respingere la cosiddetta teoria patriarcale, che vede nella famiglia il nucleo primordiale del genere umano e nella gens un prodotto successivo, dovuto all’allargamento della famiglia o alla fusione tra più famiglie”.

[1] Cosí G. Franciosi, op. cit., p. 25.

[1] Festo, pur scrivendo nel 2° sec. d. C. ci dà testimonianza dell’età arcaica perché si avvalse dell’opera di Verrio Flacco, vissuto nell’ultimo secolo della Repubblica, il quale aveva conosciuto le antiche testimonianze contenute nei libri pontificali e presenti nei libri (che egli lesse) sul diritto pontificale del suo contemporaneo Antistio Labeone; perciò nel De verborum significatu di Festo sono presenti notizie e nozioni risalenti alle età più antiche dell’esperienza romana: cfr., S. Tafaro, Pubes e viripotens nella esperienza giuridica romana, Cacucci, Bari 1988, 28 s. ed ivi ntt. 15-16 e cap. II.

[1] La circostanza che familia al suo apparire doveva indicare “l’insieme degli schiavi appartenenti al gruppo” è evidenziata da: Franciosi, op. cit., 25.

[1] Il legame indissolubile con la ‘casa’ è evidenziato dagli autori classici, come, ad esempio, Columella, De re rustica 12: ... apud Romanos usque in patrum nostrorum memoriam … nihil conspiciebatur in domo dividuum.(Tr.: presso i Romani, come ricordavano ancora i nostri padri…non si vedeva nulla che fosse diviso nella casa). Sul legame tra familia e ‘casa’ cfr., tra i tanti, A. Strobel, Der Begriff des Hauses im griechischen und römischen Privatrecht, in ZSS 56, 1965, pp. 91-99 [Zeitschr. Neutest. Wissensch. 56, 91-99 (1965)]; R.P. Saller, ‘Familia’, ‘domus’ and the Roman Conception of the Family, Phenix 38, Phoenix 1984.

[1] Ne conseguiva che le donne non potevano avere sottoposti, di modo che pur quando ne venne riconosciuta l’autonomia non avevano altro che se stesse nella propria famiglia, come sottolineava Ulpiano: Ulp. D. 50. 16. 195. 5: Mulier autem familiae suae et caput et finis est. Cfr., in proposito, G. Heyse, Mulier non debet abire nuda. Das Erbrecht und die Versorgung der Witwe in Rom [Europäische Hochschulschriften, Reihe II, Rechtswissenschaft, Bd. 1541], Lang, Frankfurt 1994; cfr. Calderai V. – C. Favilli, Genere, riproduzione, filiazione, Esi, Napoli 2011; L. Peppe, Civis Romana. Forme giuridiche e modelli sociali dell’appartenenza e dell’identità femminili in Roma antica, Grifo (Cavallino), Lecce 2016; V. Marotta, Cittadinanza e condizione giuridica delle donne in Roma repubblicana e imperiale – (A proposito di Leo Peppe, Civis Romana), in Diritto@Storia, riv. Online, – Tradizione romana – n. 15, 2017.

[1] Ulp. D. 50. 16. 195. pr.: Pronuntiatio sermonis in sexu masculino ad utrumque sexum plerumque porrigitur Cfr. H. Kaufmann, Die altrömische Miete. Ihre Zusammenhänge mit Gesellschaft, Wirtschaft und staatlicher Vermögensverwaltung [Forschungen zum römischen Recht, Abh. 18], Böhlau, Köln-Graz 1964.

[1] V. quanto ho osservato in Riflessioni su familia e societas humana, cit., p. 2541.

[1] V. Cardilli, Fondamento cit. partic. pp. 251 ss., cui rinvio per le citazioni della pregressa dottrina: in particolare riguardo alla tesi del fondamento ‘politico’, del Bonfante, e del fondamento economico, dell’Arangio-Ruiz (v. ivi nt. 3).

[1] È appena il caso di osservare che il tentativo di sistemare la ‘materia’ trattata servendosi di partizioni in grado di consentire classificazioni e distinzioni era propria di una tecnica argomentativa penetrata nel pensiero giuridico romano attraverso le tecniche della dialettica greca, che ebbero grande diffusione nel mondo romano: basti citare la significativa summa divisio del diritto prospettata da Gaio, all’inizio dei suoi commentarî: Gai. 1. 8: Omne ius quo utimur, vel ad personas pertinet vel ad res vel ad actiones; sul punto v. R. Quadrato, Le Institutiones nell’insegnamento di Gaio, Jovene, Napoli, 1979, 5 ed ivi ntt. 19-20; in via più generale sull’introduzione ed il ricorso alle tecniche incentrate sulla diairesis v. M. Bretone, Storia del diritto romano, Laterza, Bari 1987, 184 ss. Cfr. anche M. Talamanca, Lo schema ‘genus-species’ nelle sistematiche dei giuristi romani, in Colloquio Italo-Francese La filosofia greca e il diritto romano (Roma, 14-17 aprile 1973), t. II, Quaderno dell’Accademia nazionale dei Lincei N. 221, 1977, 3 ss. L’A., osserva: “le tecniche divisorie, di cui lo schema genus-species rappresenta – si può dire – il paradigma, costituiscono il momento portante di tutta l’attività sistematica – per usare di questa terminologia – dei giuristi romani”.

[1] L’identificazione di familia con il patrimonio può essere desunta da Gai. 2. 102: Qui neque calatis comitiis neque in procinctu testamentum fecerat, is si subita morte urguebatur, amico familiam sua, id est patrimonium suum, mancipio dabat, eumque rogabat quid cuique post mortem suam dari vellet.

[1] Il significato di corpus, assunto dalla realtà biologica, è molto pregnante ed indica le organizzazioni riconosciute dal diritto per il fatto che si presentavano come un soggetto unico nel quale venivano assorbite le individualità, anche se occorrerebbe una riflessione molto analitica per comprendere tutte le implicazioni degli accostamenti di familia a corpus ed alle entità dei collegi, della, curia, del popolo, oggetto di vivaci contrasti tra gli studiosi contemporanei; nello specifico, rinvio alle perspicaci e persuasive osservazioni contenute in P. Catalano, Diritto e persone – studi su origine e attualità del sistema romano I, Giappichelli, Torino 1990, partic. pp. 173 ss.

[1] Per alcuni aspetti, soprattutto per le fasi legate alla nascita ed all’infanzia v. G. Pugliese, Il ciclo della vita individuale nell’esperienza giuridica romana, in Atti dei Convegni Lincei 61 (1984) – Colloquio: Il diritto e la vita materiale (Roma, 22-23 novembre 1982), 55 ss.; S. Tafaro, Pubes e viripotens cit., 19 ss.

[1] Sui punti qui richiamati rinvio a quanto ho osservato in altro scritto: S. Tafaro, La responsabilité de l’enfant dans le droit romain, in Enfant et romanité. Analyse comparée de la condition de l’enfant, Paris 2007, § 1, pp. 119-133 e a Pubes e viripotens cit., partic. cap. I.

[1] Rinvio alla suggestiva enunciazione fattane da Lucrezio: De rerum natura II, vv. 1105-1174.

[1] V. S. Tafaro, Pubes cit. 107 s. ed ivi nt. 15.

[1] Ritengo che la familia, rispetto alla struttura politica (prima gens poi Civitas), fosse preesistente ed era indispensabile per i singoli, poiché era conseguente alla loro naturale prima forma di aggregazione Mi faccio carico della soggettività di questa mia affermazione, avvertendo che la preesistenza della famiglia, rispetto soprattutto alla gens, è discussa: v., da ultimo, G. Franciosi, Preesistenza della ‘gens’ e ‘nomen gentilicium’, in AA. Vari, Ricerche sull’organizzazione gentilizia romana, cur. G. Franciosi, 1, Napoli 1984, 3 ss.; Id., Famiglia e persone in Roma antica cit., 22: “Che la gens abbia preceduto la famiglia si desume da vari aspetti della società romana”. A me pare che, se si considerino a fondo le implicazioni delle fonti e del passo festino ricordato, dove l’esposizione dei sacra privata sembra seguire un ordine cronologico di realizzazione storica dei sacra stessi, la preesistenza della famiglia non sia contestabile. Bisogna però intendersi su cosa si voglia ritenere essere la ‘famiglia’. Lo stesso autore riconosce che “Occorre però chiarire che quando si parla di anteriorità della gens alla famiglia non si intende negare la possibile formazione, anche precoce, nell’ambito della comunità gentilizia, di singole famiglie di coppia”. Ma che sono le ‘famiglie di coppia’, se non la ‘famiglia’, cosí come noi oggi la concepiamo? Vero è che il Franciosi, rivisitando precedenti posizioni, riferisce il significato di famiglia alla grande famiglia, che egli sostiene essere stata ‘patriarcale’, la quale era un organismo politico strutturato e, perciò, mi sembra più conseguenza che non antecedente della ‘famiglia’: direi, infatti, che la famiglia intesa come gruppo ristretto assato sull’intimità di due persone sia cosa diversa, dall’organizzazione di gruppi più ampi che si riconoscevano in un capo per fini politici, economici e sociali, vale a dire per difendersi dai nemici esterni e per meglio realizzare conquiste avere ‘peso’ nel proprio tempo e sul territorio. Sono convinto che sia più aderente alla società antica l’ipotesi della preesistenza della ‘famiglia’ rispetto alla gens, sulla quale v. F. Serrao, Diritto privato cit. 72.

[1] Questo significato restò fermo almeno sino alla fine del Principato: v. P. Catalano, Diritto e persone cit., loc. cit.

[1] La famiglia aveva un proprio culto, assato intorno ai Lari (anima di un antenato defunto protettrice della casa) ed al Genio (Dio della genealogia domestica): v. F. Dupont, La vita quotidiana nella Roma repubblicana, cit.

[1] Sul punto, cfr. G. Filoramo [a cura di], Storia delle religioni. 1. Le religioni antiche, Laterza, Bari 1994, 377 s.

[1] M. Bretone, Storia cit. 38 s., dove viene ricordato che la suggestiva ed efficace immagine dei ‘cerchi concentrici’ per la visione romana della società proviene da M. Pohlenz, Antikes Führertum. Cicero de officiis und das Lebensideal des Panaitios, Leipzig-Berlin 1934, 37 = L’ideale della vita attiva secondo Panezio nel de officiis di Cicerone, Brescia 1970, 66.

[1] Si tratta dell’opera, val la pena ricordarlo, definita ‘il manuale della classe dirigente romana”: s. Mazzarino, L’Impero romano, 1, Roma-Bari, 1984, 27; cfr. M. Bretone, Storia cit. 38.

[1] Cic., De off. 1. 17. 53-54: Gradus autem plures sunt societatis hominum. Ut enim ab illa infinita discedatur, proprior est eiusdem gentis, nationis, linguae qua maxime homines coniunguntur; interius etiam est eiusdem esse civitatis: multa enim sunt civibus inter se communia, forum, fana, porticus, viae, leges, iura, iudicia, suffragia, consuetudines praeterea et familiaritates multisque cum multis res rationesque contractae. Artior vero colligatio est societatis propinquorum; ab illa enim immensa societate humani generis in exiguum angustumque concluditur. (Tr.: Peraltro la società umana ha diversi gradi o forme. La società più ampia, dopo quella che non ha confini e di cui abbiamo già parlato, è quella che consiste nell’identità di nazione e di linguaggio, che è il vincolo più saldo che unisca gli uomini fra loro. Società più intima ancora è quella di appartenere alla stessa città: molte cose i cittadini hanno in comune fra loro, come il fòro, i templi, i portici, le strade, le leggi, i diritti, i tribunali, i suffragi; inoltre, la familiarità e le amicizie, i molteplici e scambievoli rapporti d’interessi e di affari. Ancora più stretto è il legame che avvince i membri di una stessa famiglia: la società umana, da quella forma universale e infinita, si restringe cosí a una cerchia piccola e angusta).

54: Nam cum sit hoc natura commune animantium, ut habeant libidinem procreandi, prima societas in ipso coniugio est, proxima in liberis, deinde una domus, communia omnia; id autem est principium urbis et quasi seminarium rei publicae. Sequuntur fratrum coniunctiones, post conso­brinorum sobrinorumque, qui cum una domo iam capi non possint, in alias domos tamquam in colonias exeunt. Sequuntur conubia et affinitates ex quibus etiam plures propinqui; quae propagatio et suboles origo est rerum publicarum. (Tr.: In verità, poiché per natura è comune agli esseri viventi il fatto di tendere alla procreazione, la prima forma di società si realizza nell’unione matrimoniale; la seconda, nella prole, e quindi la casa comune e la comunanza di tutto. Questo è il fondamento della città e come il vivaio della Repubblica. Seguono le unioni tra fratelli e sorelle, poi tra cugini e biscugini, i quali, quando una sola casa non può più contenerli escono a fondar nuove case, quasi come colonie. Seguono i matrimoni e le affinità dalle quali per cui si moltiplicano le parentele; e in questo propagarsi e pullulare della prole è appunto l’origine delle Repubbliche).

[1] Il punto è stato colto dal Bretone, il quale, (op. cit., 39) chiosa il pensiero di Cicerone in questi termini: “Quali siano i principii che la natura ha stabilito per la società, per la comunità degli uomini, è forse possibile vederlo solo movendo da molto lontano. Il primo è quello che si scorge nella società del genere umano tutto intero. Il vincolo che la tiene unita, è la ragione e la parola: esse – con l’insegnare e l’apprendere, il comunicare, il discutere, il giudicare – conciliano gli uomini tra loro e li uniscono in una sorta di società naturale. Questa è la società più ampia che si apra agli uomini e ai loro rapporti, e ai rapporti di tutti con tutti. In essa si deve conservare la comunione di tutti i beni che la natura ha prodotto per l’uso comune, con una distinzione: i beni che le leggi e il diritto civile hanno assegnato ai singoli, saranno nel loro possesso esclusivo, cosí come fu stabilito; quanto agli altri, avrà valore per essi il proverbio greco secondo cui fra gli amici tutto è in comune. Parecchi sono i gradi della società umana. Allontanandoci da quella che non ha confini, la più prossima comprende la stessa gente o nazione, o si fonda sulla stessa lingua, che è fra gli uomini il legame più saldo. Un vincolo ancora più stretto è l’appartenere a una medesima città: molte cose, infatti hanno in comune gli abitanti di una città: il foro, i templi, i portici, le strade, le leggi, le norme tradizionalmente osservate, i tribunali, i suffragi, e inoltre le consuetudini e le amicizie e le diverse relazioni di affari di molti con molti. Ma più intimo è il legame all’interno del gruppo familiare; cosí, da quella immensa società che abbraccia il genere umano, si arriva a una cerchia piccola e angusta”.

[1] Il senso dell’enunciato fu lucidamente esposto, in sede costituente (nel 1946) dall’on. Moro; egli ricordò (ai Costituenti) che la formula: La «famiglia è una società naturale» era stata adottata (dalla prima Sottocommissione) quasi all’unanimità ed era stata proposta dall’onorevole Togliatti, il quale, dopo discussione, concordò su questo punto che nella Costituzione si dovesse dichiarare il carattere naturale della famiglia in quanto società. Il grande politico e giurista chiarí che quando si afferma che la famiglia è una «società naturale», si intende qualche cosa di più dei diritti della famiglia. Non si tratta soltanto di riconoscere i diritti naturali alla famiglia, ma di riconoscere la famiglia come società naturale, la quale abbia le sue leggi e i suoi diritti di fronte ai quali lo Stato, nella sua attività legislativa, si deve inchinare. Vi è naturalmente un potere legiferante dello Stato che opera anche in materia familiare; ma questo potere ha un limite precisamente in questa natura sociale e naturale della famiglia. Si dice poi nella formula: «e come tale lo Stato ne riconosce i diritti»: vi è quindi una sequenza logica e si completa il pensiero che per noi è caro e sul quale si è avuto anche l’accordo dell’onorevole Togliatti e di altri colleghi di parte comunista.

[1] Cic., De officiis 1. 16. 50: sed quae naturae principia sint communitatis et societatis humanae, repetendum videtur altius. Est enim primum quod cernitur in universi generis humani societate. Eius autem vinculum est ratio et oratio, quae docendo, discendo, communicando, disceptando, iudicando, conciliat inter se homines coniungitque naturali quadam societate.

[1] V. nt. 65

[1] Cfr. M. Bretone, Pomponio lettore di Cicerone, in Labeo 16, 1970, 177 ss.; Id., Tecniche e ideologie dei giuristi romani, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1971, cap. VI, Pomponio lettore di Cicerone, 181 ss.

[1] Da ultimo vanno segnalate le acute osservazioni di P. P. Onida, Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico romano, Giappichelli, Torino 2002, 95 ss. All’autore rinvio per la letteratura e le posizioni da essa espresse riguardo al diritto naturale ed alla consapevolezza riguardo ad esso raggiunta dai giuristi romani, esimendomi dalla citazione della letteratura, richiamata dall’Onida in gran parte alla nt. 2 di96.

[1] V. P. P. Onida, Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico romano cit., loc. cit. e 34 ss. L’adesione alle idee pre-aristoteliche ha avuto anche grande influenza sulla sistematica proposta dal giurista severiano, spingendolo ad adottare una classificazione tripartita del diritto. D. 1. 1. 1. 2, Ulp. 1 inst: privatum ius tripertitum est: collectum etenim est ex naturalibus praeceptis aut gentium aut civilibus. La tripartizione, che sembra non corrispondente alla dicotomia proposta, in età antonina, da Gaio nel suo manuale istituzionale, imperniata sulla bipartizione ius civileius gentium, è stata oggetto di perplessità, le quali hanno generato dubbi sull’effettiva provenienza da Ulpiano della tripartizione. Secondo la migliore dottrina tuttavia si deve riconoscere l’effettiva provenienza dall’originale di Ulpiano, come conseguenza della sua adesione alle visioni del diritto naturale, inteso come diritto comune dei viventi: cfr., sul punto, P. P. Onida, Studi sulla condizione degli animali, 116 ss., l’A., richiamandole, supera le opposte opinioni espresse in passato (soprattutto dal Bonfante, dal Perozzi, dal Castelli e dall’Albertario, dal Maschi, dall’Arangio-Ruiz, che però era più cauto, ed altri), operando anche una incisiva sintesi delle opinioni presenti nei manuali istituzionali di diritto romano.

[1] V., in particolare: Cic., De re publica, 3. 18-19: Non enim mediocres viri sed maxumi et docti, Pythagoras et Empedocles, unam omnium animantium condicionem iuris esse denuntiant, …; sul passo cfr. P. P. Onida, Studi sulla condizione degli animali cit.107.

[1] Piú volte il Signore indica nella Sua intenzione di far crescere i figli di Abramo (che per via dei molti figli si chiamerà Abraamo) come i granelli di terra o come le stelle: indice che la crescita costituiva l’o scopo principale ed essenziale dei popoli; v., ad es., Sacra Bibbia, Gn13.16; 15.5; 17.4-6; 22.17; 26.4; 26.24; 28.14; 35.11; 47.27; 48.4, San Paolo, Cinisello Balsamo 1987.

[1] V. G. Devoto, Storia della lingua di Roma, Bologna 1940, 57, 77, 80; Idem, Dizionario etimologico. Avviamento alla etimologia italiana, rist. Firenze 1968, 324, v. popolo (“parola mediterr. risal. a una base poplo ‘crescita”); F. De Martino, Storia della costituzione romana. I, Jovene, Napoli 1958, 88 ed ivi nt. 30. Il collegamento tra poublicus, publicus e il significato di crescita era già intravisto da L. Ceci, Le etimologie dei giuristi romani, L’Erma, Roma, 1966, 1112; l’A. ricordava, richiamandola, l’analoga opinione già espressa dal Thurneysen. Il collegamento tra populus e il concetto di ‘crescita’ è sottolineato anche dal Lombardi: v. G. Lombardi, Su alcuni concetti del diritto pubblico romano: ‘civitas’, ‘populus’, ‘res publica’, ‘status rei publicae’, in Archivio Giuridico, 126 (1941), 199 ed ivi nt. 8; l’a. ripropone l’ipotesi del Devoto, il quale “parla di una radice mediterranea e fa importare a Roma il termine da parte degli etruschi”, di modo che “populus vien collegato con una radice mediterranea del crescere’”: sul punto v. la puntuale riproduzione in M. P. Baccari, Il concetto di civitas augescens: origine e continuità, in SDHI, LXI, 1995, 760 ed ivi nt. 9. Idem, Concepito: l’antico diritto per il nuovo millennio, Giappichelli, Torino 2004, partic. pp.  47 ss.

[1] Sul punto cfr. i manuali di Istituzioni di diritto romano. Ad es. M. Marrone, Istituzioni di diritto romano3, Palumbo, Palermo 2006, pp. 193 ss.; 263 ss.; M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, cit. 75 ss., 155 ss. V. anche G. Wesener, v. Pubertas, in PWRE, Suppl. XIV (1974), I, 571

[1] V. quanto credo di avere evidenziato in Pubes e viripotens cit. cui adde, R. Astolfi, Il matrimonio nel diritto romano classico, 2a ed., Cedam, Padova 2014; il quale, in proposito, osserva “Il matrimonio classico, nel pretendere la pubertà degli sposi, la intende, come il matrimonio preclassico, quale capacità fisiologica di procreare e non quale capacità intellettuale di decidere del proprio stato”.

[1] V. quanto ho osservato in Pubes e viripotens, cit., pp. 131 ss. Cfr. le osservazioni di G. Pugliese, Precedenti romani della moderna legislazione sui minori, in Atti dei Convegni Lincei 59 (1983) – Colloquio italo-polacco: La legislazione sui minori (Roma, 22-23 novembre 1979), 111 ss.; Appunti sugli impuberi e i minori in diritto romano, in St. Biscardi IV (1983), 469 ss.

[1] Cfr. G. Franciosi, Clan gentilizio, cit., p. 49.

[1] Il concetto di crescita infatti è alla base delle visioni di tutte le società dell’antichità ed in particolare dei popoli italici, dei romani e di Roma. Esso era nella radice di populus, che deriva da una radice mediterranea *poplo la quale significa, per l’appunto, “crescita”: G. Devoto, Dizionario Etimologico. Avviamento alla etimologia italiana, Firenze 1968.

[1] Riguardo al nesso tra puber e l’idea di ‘crescita’ va osservato che essa poteva essere espressa dallo stesso etimo adoperato dai Romani: vi era una comune derivazione di pop(u)lus e pubes da può-, pum, pu-dh e che la radice del termine richiama anche puer, pupus, pupa: v. il mio volume Pubes e viripotens, cit., p. 48, dove osservavo: “Vien fatto di domandarsi se il termine, la cui radice sembra avere tanto il significato di uomo, quanto quello di ragazzo, non fosse una contaminazione tra questa stessa radice e uber; cioè, se il termine non stesse ad indicare il ragazzo o l’uomo ‘fecondo’: capace di accrescere il popolo, con la sua partecipazione all’assemblea armata, in un primo significato, poi inteso come capace di procreare”.

[1] V., sulle visioni e le motivazioni dei Romani, trasfuse nel diritto romano rinvio al mio volume Pubes e viripotens, cit., pp. 22 ss., cui rinvio per gli opportuni ragguagli bibliografici.

[1] I Liberalia erano una festa celebrata il 17 marzo (mese d’inizio dell’anno, secondo il calendario di Romolo) in onore di Liber, dio italico della natura e della famiglia. Liber aveva un tempio sull’Aventino, insieme a Libera e a Ceres. Il tempio era stato costruito dal dittatore Postumius nel 495 a.C. Il 17 marzo i giovani assumevano la toga (praetexta), la quale indicava a tutti che il ragazzo era uscito dalla pueritia ed era entrato nell’adolescentia. Esso era significato da manifestazioni esterne, quali la rottura della bulla deposta sull’altare di famiglia, l’adozione della toga virilis, la notificazione del nome completo, la designazione come vesticeps (che era sinonimo di pubere), secondo una scansione del decorso della vita umana, variamente espressa: v. Liberalia nr. 1, col. 81 s.; VI A v., col. 1450 ss.; VI A nr. 2, v. Toga, col. 1660.

[1] Appian., Bel. civ. IV. 30; Dio Cass., 55. 22. 4; 56.29; cfr. J. Marquardt, La vie privée des Romains I cit., 4, 148 s.

[1] Pubes, cit., p 219 ed ivi ntt. 24-25.

[1] In antico l’espressione usata fu di virapatiens, che piú direttamente alludeva al ruolo sussidiario e complementare della donna; soltanto con le nuove idee circolanti tra la fine della Repubblica e Principato si passò all’uso del termine viripotens, il quale intendeva rimarcare una funzione piú attiva e non solo di partecipazione in posizione di sottomissione: v. sul punto S. Tafaro, Pubes e viripotens nella esperienza giuridica romana cit, 79 ss.

[1]. La posizione generale della donna era di completa soggezione dal punto di vista giuridico e sociale, rispetto al matrimonio, che era sorto, in via di fatto prima che venisse istituzionalizzato, come forma di scambio di cui oggetto erano, in antiquo, proprio le donne, considerate, appunto come `oggetto di scambio’: FRANCIOSI, Clan2 cit., 147, 203, 209.

[1] De Marchi A., Il culto di Roma antica. I. La religione nella vita domestica (1896), 167, Hoepli, Milano rist. 1975, pp. 175 ss.

[1] Sul punto FRANCIOSI, Clan2 cit., 126 s.

[1] Sulle quali v. il mio Ius hominum, cit., p. 25.

[1] Tac., Germ. 20. 6.

[1] S. Tafaro, Ius hominum causa constitutum – Un diritto a misura d’uomo, ESI, Napoli 2009, p. 95 e, per una visione d’assieme, pp. 89 ss., § Ciclo della storia, ciclo della vita e numero sette.

[1] Sul punto, rinvio a quanto osservato in Pubes e viripotens, cit., e a Ius hominum causa constitutum – Un diritto a misura d’uomo, ESI, Napoli 209, dove (pagg. 87 s.) “Già il Pernice aveva affermato che, in realtà, la fissazione della pubertà ad un’età determinata ed in particolare al 14° anno sicuramente non proveniva da concetti originari dei Romani; doveva, invece derivare dalle credenze sulle influenze misteriche dei numeri. In tempi piú recenti il Durry ha sostanzialmente confermato l’ipotesi di un’origine non romana della presunzione puberale; egli si è dichiarato convinto che la scelta del numero 14 forse dipese dalle influenze pitagoriche, le quali avrebbero suggerito l’adozione di quel numero, perché a sua volta multiplo del numero sette, che era ritenuto dotato di poteri magici e naturali sulla vita dell’uomo; da questo numero si sarebbe passato alla determinazione della presunzione di viripotenza in dodici anni, fissata volutamente in un numero inferiore di anni, per venire incontro al desiderio di sposare le fanciulle quando erano ancora nell’età della formazione. In conclusione si dovrebbe pensare che sono state le concezioni sui poteri dei numeri ad avere guidato e dettato la scelta di un’età che, come si è visto, non trovava grande riscontro nell’esperienza romana e talora agli stessi Romani, pur in età imperiale, parve difficile mantenere”.

[1] V. il mio Pubes, cit., pp. 162 ss.

[1] Al riguardo v. J. Carcopino, La vita quotidiana a Roma all’apogeo dell’Impero [Tr. E. Omodeo Zona]12, Laterza, Bari 2005, a p. 97 nota che il matrimonio “Era anzitutto preceduto dal fidanzamento, il quale, pur senza imporre dei veri obblighi, veniva celebrato tanto spesso in Roma che Plinio il Giovane lo pone tra quei mille nonnulla di cui erano inutilmente ingombre le giornate dei suoi contemporanei”

[1] Come ricorda il Volterra (Lezioni di diritto romano. Il matrimonio romano. Anno accademico 1960-61, Ricerche, Roma 1961, p. 100) “una serie di iscrizione dell’epoca imperiale ci mostrano fanciulle spose ad un’età molto al di sotto dei 10 anni”.

[1] E. Volterra, op. cit., p. 101 ed ivi nt. 2, dove è ricordata la testimonianza di Corn. Nepos, Atticus 19. 4: … nata est autem Attico neptis ex Agrippa, cui virginem filiam collocarat. Hanc Caesar vix annicula Ti. Claudio Neroni, Drusilla nato, privigno suo despondit.

[1] Della voluminosa letteratura mi limito a rinviare, anche per quanto attiene al brano di Modestino (qui riportato): Pubes, cit. 219 ss. ed ivi nt. 25; R. Astolfi, Il fidanzamento nel diritto romano3, Cedam, Padova 1994, partic. (riguardo a D. 23. 1. 14) pp. 58, 66,155; M. Casola, Sponsalia nelle differentiae di Modestino, in Annali della Facoltà di Giurisprudenza di Taranto – Anno III, Cacucci, Bari 2010, pp. 29 ss.

[1] V., M. J. Garcia Garrido, Diritto privato romano, ed. it a cura di M. Balzarini, Cedam, Padova 1992, p. 320 ed ivi nt. 2; Cfr. L. Fascione, Storia del diritto privato romano, cit., pp. 131 s.

[1] In ciò gli sponsalia si differenziavano nettamente dalla engysis.greca, che era quasi un pre-matrimonio ed era vincolante ed era indispensabile per la convalida di un contratto di matrimonio; cfr., tra i tanti, R. Flaceliere, Daily Life in Greece, Macmillan Publishing Co., New York 1974, pp. 60 ss. La stessa configurazione si riscontra nelle legislazioni influenzate piú direttamente dal diritto bizantino, come nel caso della fejesa dell’Albania: cfr. N. Shehu, Il diritto romano in Albania: insegnamento e strumenti, in Diritto@Storia, n. 3, 2004.

[1] V., per tutti, Astolfi, Il fidanzamento, cit.

[1] Sul punto, v. il sito dell’Accademia della Crusca: https://accademiadellacrusca.it/it/stazione-bibliografica/dei-dizionario-etimologico-italiano/1596, dove si nota che l’informazione è contenuta in gran parte dei dizionari storici o etimologici italiani, come il DEI, Dizionario Etimologico Italiano Grande dizionario italiano dell’uso – Ideato e diretto da Tullio De Mauro (anche GRADIT o GDIU), cur. Carlo Battisti e Giovanni Alessio, Firenze, Barbera, 1950-1957); DELI, Dizionario etimologico della lingua italiana (a cure di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli, Bologna, Zanichelli, 1983); GDLI, Grande Dizionario della Lingua Italiana (a cura di Salvatore Battaglia, Torino, UTET, 1961-2002) che specificano anche che termine si è formato su influsso del preesistente patrimonium.

[1] Sul punto v. le attente osservazioni della Baccari, Matrimonio e donna, cit. partic. pp. 71 ss.

[1] F. Dupont, La vita quotidiana nella Roma repubblicana, Laterza, Bari 1989, p. 120.

[1] Il nesso inscindibile tra matrimonio e filiazione è piú volte espresso dalle fonti romane. Quintiliano addirittura deduceva la condizione di ‘moglie’ dal fatto che un uomo conviveva con una donna allo scopo di procreare figli, anche se non vi era stata nessuna delle formalità consuete nel matrimonio: Quintilianus., Declamationes, 247: ita illud nuptiis conlocata efficit uxorem: sed non haec solummodo erit uxor. Fingamus enim nuptias fecisse nullas, coisse autem liberorum creandorum gratia: non tamen uxor non erit, quamvis nuptiis non sit collocata. Nell’età piú antica il marito doveva promettere con giuramento davanti ai censori di avere figli e di divorziare qualora ciò non si verificasse; ce lo ricorda Aulo Gellio, riferendo di un certo Carvilio costretto a divorziare sebbene innamorato della moglie sterile: Gellius, Noctes Atticae, 4. 3. 2: Atque is Carvilius traditur uxorem, quam dimisit, egregie dilexisse carissimamque morum eius gratia habuisse, sed iurisiurandi religionem animo atque amore praevertisse, quod iurare a censoribus coactus erat uxorem se liberum quaerundum gratia habiturum. Analoga promessa era prevista dalla legislazione matrimoniale di Augusto: Tituli ex corpore Ulpiani, 3. 3: Nam lege iunia cautum est, ut si civem romanam vel latinam uxorem duxerit, testatione interposita, quod liberorum quaerendorum causa uxorem duxerit. La necessità di crescita era tanto avvertita che, dopo la crisi demografica conseguita alle guerre civili, addirittura, Giulio Cesare, andando contro la radicata tradizione monogamica, pensò di introdurre la poligamia per incrementare la procreazione: Svetonius, Caesar, 52: Helenius Cinna plerisque confessus est habuisse se scriptam paratamque legem quam Caesar ferre iussisset, cum ipse abesset, ut ei uxores liberorum quaerendorum causa, quas velle ducere liceret.

[1] L’accrescimento era ritenuto davvero vitale nell’antichità: al punto che nel pensiero greco, all’interno della famiglia patriarcale mal si sopportava il fatto che il figlio nascesse dalla madre e si teorizzò (come fece per tutti Aristotele) che anche se la donna era quella che aveva la gestazione, in realtà il figlio era frutto del ‘seme’ del padre ed il ruolo della madre consisteva nel nutrirlo: v., sul punto, E. Cantarella, L’amore è un Dio, Feltrinelli, Milano 2007, p. 138 s § Il dibattito sulla riproduzione.

[1] È ciò che dice chiaramente, fin della prima edizione, Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612), dove alla voce matrimonio è riportata una citazione tratta del Volgarizzamento della somma Pisanella detta Maestruzza «Matrimonio una congiunzione dell’uomo, e della donna, la quale ritiene una usanza di vita, la quale dividere non si può. E perché nel matrimonio apparisce piú l’uficio d’esso nella madre, che nel padre, perciò è determinato più della madre, che dal padre, Matrimonio, tanto è a dire, come uficio di madre”.

[1] V. retro, p. 19 ed ivi nt. 71.

[1] (Tr.: Dunque è comune a tutti gli animali il desiderio di unirsi per procreare e prendersi cura dei figli).

[1] Franciosi, Famiglia e persone cit. p. 131 ed ivi nt. 4; cfr. G. Lobrano, Uxor quodammodo domina, Pub. Univ. Sassari 1989, p. 48 ss., anche online in Diritto@Storia; Stepkine, cit., nota: “L’importanza della procreazione è messa in risalto dalla Lex Iulia et Papia, nonché dalla legislazione successiva: che il matrimonio sia contratto liberorum quaerendorum causa appare la finalità incontestata per la quale i consortes instauravano fra loro una piena comunanza di vita”

[1] V. supra p. 14.

[1] R. Astolfi, Il matrimonio nel diritto romano preclassico, Cedam, Padova 2000, pp. 11 – 28.

[1] Cfr. Volterra, Lezioni cit., p. 128; cui adde, anche per i ricchi richiami bibliografici, baccari, Fayer e Stepkine, cit. (v. nt. 125).

[1] Cosí Franciosi, Famiglia e persone cit., p. 135.

[1] Cfr., tra i tanti, Talamanca, Istituzioni, cit., cap. IV.

[1] Cfr. U. Bartocci, Le species nuptiarum nell’esperienza romana arcaica. Relazioni matrimoniali e sistemi di potere nella testimonianza delle fonti, Il Cigno Galileo Galilei, Roma 1999.

[1] In tal senso soprattutto argomentano gli Aa. Contemporanei, a partire da quelli cit. alla prec. nt. 151, contro le precedenti affermazioni, a partire da quelle del Manenti, ravvisanti nel deductio in domu mariti, l’inizio del matrimonio.

[1] V., per tutti, U. E. Paoli, Vita romana, Le Monnier, Firenze 1963, p.151.

[1] Il punto molto complesso partí da una prima fase nella quale il matrimonio, al pari del fidanzamento, nasceva dall’accordo dei soli padri, seguito da una progressiva rilevanza del consenso anche degli sposi, ma sempre insieme a quello del paterfamilias: v. la lett. cit. alle ntt. prec. e in part.  Robleda, El matrimonio, cit.; Astolfi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., cap. II, cui rinvio anche per una visione delle varie forme ed ipotesi di manifestazione del consenso – Consenso. Ricordo che bastava che il marito facesse sedere a capotavola, di fronte a lui, un’altra donna (invece che la moglie) per inferirne che il matrimonio era finito.

[1] Infatti ancora oggi il verbo adulterare è sintomo di falsificazione: V. la corrispettiva voce nell’Enc. Treccani.

[1] Ad esempio, l’articolo 559 del codice penale del 1930, rubricato “adulterio” puniva esclusivamente l’adulterio della moglie, stabilendo che: La moglie adultera è punita con la reclusione fino a un anno. Con la stessa pena è punito il correo dell’adultera. La pena è della reclusione fino a due anni nel caso di relazione adulterina. Il delitto è punibile a querela del marito. Soltanto con sentenze del 1968 e del 1969 tale normativa fu abolita: v. sent. Corte Costituzionale del 19 dicembre 1968 n. 126 e sent. Corte Cost. del 3 dicembre 1969 n. 147.

[1] V., anche per le fonti e l’amplissima bibliografia, R. Astolfi, La lex Iulia et Papia4, Cedam, Padova 1996; G. Rizzelli, Lex Iulia de adulteriis. Studi sulla disciplina di adulterium, lenocinium, stuprum, Grifo, Lecce 1997.

[1] V. Dupont, La vita, cit. pp. 122 ss. L. A. fa diversi esempi di ciò tra i quali, quello di Pompeo, ritenuto quasi scandaloso, perché, sposato a Giulia (figlia di Cesare) se ne era innamorato, al punto di passeggiare insieme a lei nei giardini, fuori di Roma; sicché “Tutta Roma dei due innamorati”. Lo stesso avverrà in seguito, quando Pompeo, morta Giulia, sposò (ancora una volta per motivi politici) Cornelia, figlio di Metello Scipione.

[1] Dupont, op. cit., p. 125.

[1] Sul punto v. Veyne, op. cit., pp.157 ss.

[1] V. Wikipedia, al sito: https://it.wikipedia.org/wiki/Donne_nell%27antico_Egitto: Le donne nell’antico Egitto possedevano uno status che contrastava in modo significativo con la condizione della donna in molti paesi moderni, in quanto occupavano e veniva assegnata loro una fetta di potere sociale (e, in certi casi, anche politico) che non è consentito loro avere in un buon numero di società dell’età contemporanea. Anche se gli uomini e le donne in terra d’Egitto avevano poteri tradizionalmente distinti all’interno della società civile, non sussisteva alcuna barriera insormontabile – né di tipo culturale né tanto meno religioso – davanti a coloro che volessero deviare da un tale modello di separazione dei ruoli. La società egizia riconosceva non l’uguaglianza sociale dei sessi (nel senso più moderno del termine, o le pari opportunità), bensí la complementarità essenziale nei compiti a cui erano destinati rispettivamente uomini e donne. I doveri a cui era chiamata la popolazione femminile del paese erano soprattutto rivolti alla buona riuscita della vita nell’ambiente familiare, quindi alla prosperità della famiglia e alla buona salute e crescita dei figli. Un tale rispetto nei confronti della femminilità è espresso chiaramente nell’antica teologia della religione egizia e dalla sua morale, pur rimanendo alquanto difficoltoso stabilire la portata della sua applicazione effettiva nella realtà della vita quotidiana nell’antico Egitto; è stato in ogni caso molto differente per esempio nella società dell’Antica Atene dove le donne erano legalmente considerate come delle “eterne minorenni” e pertanto prive della maggior parte dei diritti civili.

[1] F. Giannini, I. Baratta, La donna etrusca: indipendente, libera, moderna e bellissima, scritto il 09/06/2018, in Finestre sull’Arte – Arte antica e contemporanea. Al sito: https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/donna-etrusca-libera-bellissima-moderna. La donna etrusca poteva essere identificata anche col nome della madre, poteva partecipare ai banchetti sdraiandosi sui letti con gli uomini (mentre a Roma le donne dovevano stare sedute), si occupava di affari pubblici, discutendo di politica (anche se non poteva votare né essere eletta), usciva di casa quando voleva, talvolta era libera di scegliersi lo sposo e in genere aveva una libertà che scandalizzava molto gli scrittori greci e romani, che descrissero gli etruschi come un popolo privo di moralità.

[1] V. U. E. Paoli, Vita romana, cit., p.148 s. Da ultimo, cfr. E. Pischedda, I Greci, i Romani e… le donne, Carocci, Roma 2022.

[1] “Il nome delle donne era ai tempi di Roma antica un segreto che doveva essere custodito nel tempo. A differenza degli uomini, una donna era rappresentata soltanto dal Gens, ovvero dal gruppo di famiglia cui apparteneva ed era accompagnata dall’appellativo “Maior” o “Minor” per specificarne l’anzianità oppure da un nomignolo che la rappresentasse esteticamente.”, cosí al sito: https://www.roma.com/le-donne-romane-e-il-loro-nome-segreto/.

[1] Cosí Paoli, Vita romana, cit., p. 152.

[1] L’episodio si trova illustrato da A. Zizza, La moglie “in prestito”: il caso di Marzia e Catone Uticense, in MediterraneoAntico, Rivista online al sito https://mediterraneoantico.it/articoli/la-moglie-in-prestito-il-caso-di-marzia-e-catone-uticense/: “La storia di Catone Uticense e della moglie Marzia è stata, non per la sua eccezionalità, ma per i protagonisti che la interpretarono, un episodio famoso della storia romana, un ulteriore tassello nella direzione di un’immagine, quella della tarda repubblica, in cui lo stoicismo di matrice greca, il culto delle virtù civili- minacciate dalla figura cesarea- e la considerazione sociale della donna trovarono un perfetto punto di incontro. L’episodio è stato descritto con dovizia di particolari da autori come Plutarco nelle sue “Vite parallele”, Lucano all’interno della “Pharsalia” (Phars. II, 326-391) e Appiano da Alessandria nella “Historia romana”, per citare i più famosi. E anche Dante Alighieri, pur sotto un’ottica cristiana e attraverso il filtro testuale lucaneo, affrontò l’argomento. Plutarco nella vita di Catone il Giovane (“Cato minor”, 24-25), parallela a quella del greco Aristide, racconta l’episodio con una certa perplessità, evidenziando il comportamento alquanto singolare del suo protagonista, Marco Porcio Catone il Giovane (futuro Uticense). Quando avvenne l’episodio, Catone viveva già da alcuni anni con la seconda moglie, Marzia, figlia di Lucio Marcio Filippo, sposata giovanissima nel 62 a.C. dopo il ripudio per adulterio della prima moglie, Atilia. Quest’ ultima era stata sposata nel 73 a.C. da Catone Uticense dopo che la fidanzata, Emilia Lepida, aveva contratto matrimonio col senatore Quinto Cecilio Metello Pio Scipione Nasica. Atilia, che, a dire di Plutarco, fu la prima donna di Catone, gli diede due figli: Marco, che trovò la morte a Filippi, e Porzia, che sposò in prime nozze Marco Calpurnio Bibulo, console nel 59, alleato politico del padre, e in seconde, diventata vedova, il primo cugino Marco Giunio Bruto, il cesaricida, di cui – si racconta – era sempre stata innamorata. Un amico di Catone, il ricchissimo oratore Quinto Ortensio Ortalo, non aveva figli maschi. Costretto dalle circostanze, dunque, Ortensio, a scopo procreativo, chiese a Catone la figlia Porzia come moglie, facendo leva sulle virtù civili dell’amico e sul suo senso del dovere verso Roma. Così fa dire Plutarco ad Ortensio (“Cato minor”, 25, 4-9): «Sosteneva che se pure una cosa del genere può apparire strana, dal punto di vista della natura è cosa giusta e giovevole alla collettività che una donna in pieno fiore non resti inattiva fino allo spegnimento della sua capacità generatrice, senza con ciò infastidire ed impoverire la propria casa, generando più figli di quanti sia giusto. Inoltre, se uomini di valore hanno comuni discendenti, la loro virtù si accresce e si comunica a questi e lo stesso Stato si amalgama per via delle parentele». Ma Catone negò l’assenso, sostenendo che “trovava strano che gli chiedesse la figlia quando era già sposata con un altro”. Queste le parole che Plutarco gli fa pronunciare: Così Ortensio spostò la sua attenzione su Marzia, la moglie di Catone, e questi con apparente incoerenza – visto che anche Marzia era “già sposata con un altro” – acconsentì di “prestargli” la moglie a fini procreativi. Subordinò l’assenso, tuttavia, al permesso del padre di lei, Lucio Marcio Filippo. Perché serviva necessariamente l’approvazione del padre di Marzia? Perché il matrimonio della donna con Catone era sine manu e lei era sotto la tutela del padre, che poteva interrompere quando voleva il matrimonio della figlia. I matrimoni a Roma potevano essere cum manu, laddove la donna passava dalla potestas paterna a quella maritale, o sine manu, se a controllare l’operato della figlia era ancora il pater familias. La donna, per la sua “levitas animi”, infatti, era considerata soggetto dotato sì di diritti, ma esercitabili solo previo assenso del suo tutore. Questo spiega anche la prima richiesta di Ortensio a Catone relativa a Porzia, sposata anche lei, dunque, con la modalità sine manu, e per la quale l’oratore doveva rivolgersi al padre, Catone, appunto. L’assenso fu concesso, Marzia divorziò da Catone (o fu prestata, secondo alcune fonti) e fu sposata (o “affidata” ad Ortalo). Il matrimonio, se matrimonio ci fu, avvenne alla presenza del marito, che, in tal modo, volle manifestare in pubblico il suo totale assenso e sancire un’alleanza senza dubbio proficua per tre famiglie. Sappiamo dalle fonti, in questo concordi, che il matrimonio tra Catone il Giovane e Marzia era sereno e che nessuna ombra lo turbava.  L’interrogativo inevitabile è quale sia stato il ruolo di Marzia in questa vicenda, ma la risposta non deve essere inficiata dal confronto, anch’ esso forse inevitabile, con la morale sessuale attuale. In epoca repubblicana la donna, salvo alcuni rari casi, non aveva voce in capitolo sul suo matrimonio e sulle sue scelte e passava, come detto, da una tutela all’ altra, come fosse incapace di intendere e di volere. Ma Marzia era davvero la moglie perfetta e, sebbene innamorata di Catone, accettò la volontà del padre e del marito senza protestare. Anche Catone la amava ma metteva, evidentemente, il bene di Roma e della trasmissione della res familiaris (e del mantenimento del potere degli optimates susseguente) su un gradino ben superiore a quello della sua felicità individuale. Ecco cosa ci racconta lo storico Appiano di Alessandria- vissuto tra I e II secolo d.C.- nella sua “Historia romana” (2, 14, 99): «Catone aveva sposato Marzia, la figlia di Filippo, quando era ancora molto giovane; era molto attaccato a lei, e da lei aveva avuto dei figli. Tuttavia, la diede a Ortensio, uno dei suoi amici, che desiderava avere figli ma che era sposato a una donna sterile. Dopo che Marzia ebbe dato un figlio anche a lui, Catone la riprese di nuovo in casa, come se l’avesse prestata.» Marzia compì diligentemente il suo dovere e diede un figlio ad Ortalo, o forse due, se contiamo quello che teneva in grembo al momento del “prestito”. Pare che Marzia, infatti, fosse incinta di Catone quando passò nella casa del grande oratore, rivale e poi grande amico di Cicerone. Ortensio morì nel 50 a.C.  Marzia tornò di sua spontanea volontà dal primo marito e Catone la risposò”.

[1] Paoli, loc. cit.

[1] Carcopino, loc. cit.

[1] Paoli, Vita romana, loc. cit. p. 153.

[1] Carcopino, op. cit., p. 99 s.: “La Chiesa, essenzialmente conservatrice, in questo genere di cose modificava solo ciò che era incompatibile con le sue credenze». In effetti, il matrimonio cristiano ricondotto alla sua nozione fondamentale, consiste nel libero dono di due anime l’una all’altra. Indipendente dalle allegrezze che lo seguono, e anche dalla cerimonia sacra che abitualmente lo accompagna, il sacramento risulta dall’affermazione d’intima unione che i coniugi esprimono alla presenza del prete, che è là solo per registrarlo davanti a Dio. Ora, il matrimonio romano dell’epoca classica richiede una definizione simile a questa: infatti, esso si costituiva nel momento in cui, forti dell’adesione della divinità, constatata dall’auspex, Gaio e Gaia dichiaravano insieme la loro volontà di unirsi l’uno all’altra; e bisogna aggiungere che proprio con tale dichiarazione si legavano”.

[1] Carcopino, op. cit., p. 99.

[1] (Tr.: Le nozze sono l’unione dell’uomo e della donna – enunciazione riscontrata, come abbia visto, anche in Ulpiano – e comunanza di ogni aspetto della vita, condivisione del diritto divino e umano).

[1] Sul passo, v. la bibl. cit., nt. 125; adde C. Castello, La definizione di matrimonio secondo Modestino, in Apollinaris 51, pp.  609-640; B. Sitek, La conception du mariage dans le droit classique romain et la culture juridique en Europe. Quelques reflexions sur le mariage selon le texte de Modestin, Czasopismo Prawno Hystoryczne 50, 11-29 (1998).

[1] Eco è nel fatto che ancora oggi la sposa viene accompagnata all’altare dal padre e consegnata allo sposo, secondo la rivisitazione ‘pacifica’ del cristianesimo.

[1] Paoli, Vita, cit., p. 154.

[1] Carcopino, loc. cit.

[1] Paoli, Vita, cit., p. 155: “Quando la sposa era, giunta alla casa maritale, ne ornava la soglia con bende di lana e la ungeva con lardo di maiale e con olio, per cui la fantasia etimologica di qualche an tico 1 non arretrò davanti alla enormità di far derivare uxores da unxores! La cerimonia dell’entrata in casa avveniva cosi … Proprio il primo giorno! Sarebbe stato di pessimo augurio”.

[1] V., tra i tanti, S.A. Cristaldi, Confarreatio e svolgimento delle nozze, in Religione e Diritto Romano. La cogenza del rito [cur. S. Randazzo], Libellula, Tricase 2015, pp. 153 ss.; cui rinvio per la vasta citazione bibliografica sia sulla confarreatio sia piú in generale sul matrimonio romano ed i modi di acquisto della manus.

[1] Noctes Atticae, X. 10.

[1] La vita, cit. p. 97.

[1] Cfr., da ultimo, il sito https://www.osservatoreromano.va/it/news/2021-10/quo-235/l-anello-che-sigilla.print.html.

[1] V. retro p. 10.

[1] Cfr. il sito https://www.michelinostudio.com/blog/matrimonio/storia-delle-fedi-matrimoniali-dallegitto-ad oggi/#:nelli%20di%20matrimonio%20si,anulare%20indicava%20proprio%20la%20coppia.

Sebastiano Tafaro

Il professor Sebastiano Tafaro classe 1936 è nato a Minervino Murge in provincia di Bari ed è Onorario dell'Università degli Studi di Bari. Animatore e co-conduttore di una serie di dibattiti politici storici e filosofici.