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Atteso da oltre vent’anni dai fan è stato pubblicato il 1° marzo The Mandrake Project, il nuovo disco di Bruce Dickinson, il leggendario vocalist degli altrettanto mitici Iron Maiden. Lo scrivo subito, questa produzione di Dickinson richiede un ascolto attento, l’album è ecclettico, ricco di tantissimi spunti in cui Bruce non pone limiti sia dal punto di vista sonoro che degli arrangiamenti; una scrittura dei brani che risultano eterogenei, a tratti coraggiosi, ma mai dispersivi, mantiene cioè una coerenza compositiva di fondo. Ho ritrovato una componente metallica meno presente rispetto all’album precedente (Tiranny of Souls), molto ricercato nelle sonorità.

A mio parere il disco è prodotto benissimo (i suoni sono bellissimi), e gli arrangiamenti hanno un approccio duttile ed attento ai vari stati d’animo dei brani in cui la presenza della tastiera, suonata da Mr. Mistheria, in questo senso diviene imprescindibile pur mantenendo una discrezione e supporto decisivi. Passiamo ad una veloce disamina dei brani. La pubblicazione del disco è stata anticipata dall’uscita di due singoli “Afterglow of Ragnarok” e “ Rain on the graves”. Il primo è un brano duro, pesante che si stempera lievemente sul ritornello, ma tipico brano da inserire all’inizio di un album, un buon colpo diretto semplice ed efficace per le orecchie degli ascoltatori più “tradizionali” per iniziare un percorso che ci porta al secondo pezzo, piu vicino al tipico rock anni settanta con influenza Black Sabbath o Alice Cooper, come preferite, insomma atmosfera da Horror rock seventees. Brani che si difendono ma a parere di chi scrive non i migliori di questa produzione. “Many door to hell” invece contiene quello che io ho interpretato come un tributo evidente agli Scorpions, in cui ritroviamo una parte vocale tipica di Dickinson, che approda ad un ritornello “aperto” d’impatto, tutto sulla base di un organo di sostegno, e di una ritmica essenziale di chitarra di Roy Z. Il pezzo contiene anche una piccola parte psichedelica, che converge nuovamente sulla struttura iniziale. “Eternity has failed” sappiamo essere un brano che fu proposto da Bruce a Steve Harris (bassista degli Iron Maiden), che lo fece suo ed inserì nel repertorio della stessa band. Qui viene proposto nella sua versione originale, con un titolo leggermente diverso (quello dei Maiden era “ If Eternity Should Fail”).

Questo pezzo sostanzialmente si presenta leggermente più lento sotto il profilo ritmico rispetto al suo predecessore gemello, e la composizione risulta però piacevolmente più semplice “snella” e apprezzabile. “Mistress of Mercy” è decisamente un brano diverso da quello che lo precede in scaletta, come si suol dire un pezzo che “spacca” davvero, un tipico riff che arriva dritto al punto, ricorda come sonorità “Accident of Birth”. Un brano che riaccende i ricordi dei nostalgici dell’hard rock bello secco, un ritornello che rimane impresso nella mente, oltre ad un assolo di Mr Ramirez molto bello e soprattutto carico. “Face in the mirror” è la ballata dell’album, qui Dickinson è molto piu intimista, non esagera nella ricerca di altezze tonali che il brano non richiede, ha un’atmosfera contemplativa e la voce di Bruce quasi ci trasmette la carica discreta ed emotivamente alta del brano, che viene ampliata con un assolo (eseguito dallo stesso Dickinson) dalle caratteristiche sonore “spagnoleggianti”.

E arriviamo a quello che reputo il brano migliore del disco.” Shadow of the Gods” , un brano completo con un inizio pacato, tranquillo, con la presenza del pianoforte e della voce e a mio avviso belle scelte stilistiche nelle orchestrazioni, che attribuiscono al brano una dimensione imponente, integrata dall’ingresso di basso e batteria. Più cresce d’intensità più la voce di Bruce diventa coinvolgente, fino a trasformarsi in incendiaria quando arriva l’ingresso della chitarra di Roy Z, che con suono metal si accoda al finale.

L’ultimo brano si intitola “Sonata (Immortal Beloved)”, a mio avviso sembra un esperimento , un brano difficile a dir la verità in cui, il cantato sicuramente colpisce ed emoziona, assieme ad un tappeto di chitarra molto “minimal”, ma efficace, la durata è importante come però le sfumature che il brano finale offre.

“The Mandrake Project” alla fine è un disco che cerca di arrivare al pubblico, con calma, e dopo un ascolto profondo. E’ chiaro che in questo lavoro Dickinson è libero da qualsiasi costrizione creativa e decide di regalarsi al suo pubblico nel modo più ecclettico e sincero possibile, senza stereotipi ma seguendo il proprio gusto nel fare arte, cosa oggi più unica che rara.

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