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Gli amici che lo accompagnano in tour lo chiamano Still, il suo soprannome da sempre, lui gira per l’hotel con gli occhiali scuri – “Ora mi sono preso questi con le lenti più chiare così li posso tenere anche durante le interviste senza sembrare scemo”  – e racconta di aver passato la notte quasi in bianco perché “Questa sera si scrive un pezzo della mia storia”. Coez ha chiuso il tour di È sempre bello al Palaflorio di Bari ed effettivamente, dai centri sociali a sud di Roma calcati con la storica crew Brokenspeakers, ne sono corsi di anni e di strada. Sente particolarmente questa data: “È come se questo fosse il mio primo tour grande, tutte le persone che c’erano in quello precedente venivano dal botto di una canzone (dall’album Faccio un casino, ndr) adesso c’è un pubblico diverso”. È più teso rispetto alle precedenti tappe romane: “Perché lì mi conoscono da sempre. Il parterre di Roma era andato via in otto minuti, sono fan consolidati da un sacco di anni che sanno come la penso su tutto”.

Coez non teme il prendere posizione: durante il concerto proietterà un video dedicato a Open Arms, “Non è un filmato pesante, parlo di un ragazzo X, che in realtà è un mio amico, che da qualche mese parte su queste barche, ma ce n’è più di uno come lui. Qualcuno fa il cuoco, gli altri qualcosa per essere utili se la inventano”. Il tema è il salvataggio di vite umane, è dedicato a chi capisce che stando solo a guardare non cambierà nulla. “Anche se alla fine uno nelle canzoni non si esprime su questi argomenti, qualcosa trapela. Poi io vengo dal rap e, alla fine, se fai rap è naturale che tu sia schierato”.

L’attitudine hip-hop Coez la porta dalla musica allo stage: fa il suo ingresso dal retro, camminando tra il pubblico che gli stringe la mano, tra di loro qualcuno ha legata tra i capelli la sciarpa del tour. Lui avanza cantando Mal di Gola, maglia bianca e jeans a chiazze scolorite, gli immancabili occhiali da sole blu. Quando sale su, tiene il palco come un rapper: muove le mani contando con le dita, si tocca il cavallo dei pantaloni, gira molleggiandosi, poi prende l’asta del microfono e la solleva in aria, saltella suonando una chitarra immaginaria come una rockstar.

È sempre bello è un album con mood più sereno rispetto ai passati ed è quella l’atmosfera in cui si immerge il Palaflorio, tra scritte cubitali, spezzoni di vecchi video, viste notturne su Roma e giochi di luce che si succedono sullo schermo del palco. “Diciamo che quando è esploso Faccio un casino avevo proprio un mood demmerda e il titolo un po’ me l’ha chiamata: è successo un casino, bello ma sfiancante. Ho voluto dare un titolo un po’ più sereno all’album dopo, anche un po’ per scaramanzia. Non so perché ma i miei titoli spesso si avverano, se mi guardo indietro infatti, ci rivedo tanto il mio percorso. Poi magari questo è un trip mio, a parte che nella musica sono tutti trip tuoi, non c’è una cosa oggettiva”.

Di È sempre bello Coez canta ogni brano, il momento di La tua canzone è uno dei più intimi con quel “per quando mi amerai” simbolo di una fiducia nel futuro che Coez non aveva mai avuto il coraggio di mettere in una canzone. “Le prime parole sono Amare te è facile come odiare la polizia, ma il significato del pezzo non è ACAB – precisa lui – È anche vero che, per il periodo in cui l’ho scritto, c’entrava anche il caso di Stefano Cucchi, forse stavano girando il film. Di lui ne avevo già parlato in Costole rotte e questa diffidenza viene anche da quegli episodi là, dai pestaggi”. Coez continua: “Non faccio di tutta l’erba un fascio comunque, ma ogni tanto inserire nel pop una cosa più spinosetta ci sta. Nel rap questo tema è un classico, da ragazzino il mio film preferito era L’odio…”.

Tra i classici romantici più recenti (La musica non c’èLe luci della cittàDomenica) infila anche qualche vecchio cavallo di battaglia, Coez chiede: “Per quanti è la prima volta al mio concerto?” un buon numero alza la mano dagli spalti dell’arena, ma quando lui inizia a cantare Siamo morti insieme (2013) tutti cantano come una sola voce. Ali sporche è dello stesso anno e album (Non erano fiori) e anche qui tutti si uniscono a Coez, che racconta: “Questo pezzo ha segnato un cambio, la necessità di passare dal rap alla canzone più… poetica. C’è stato un richiamo, la voglia di un’apertura per arrivare a più persone. E spesso per farlo ci vuole la commistione di elementi”. Il mix perfetto tra i generi che Coez padroneggia si vede bene in Fuori di me, scritta anni fa ma a cui mancava sempre una strofa. Dal palco l’annuncia così: “La hit la sceglie il pubblico, ma l’artista ha la sua preferita”. “Se pezzi come Fuori di me potessero diventare hit secolari ci metterei la firma – racconta –  A volte qualche fan mi dice “fai sempre canzoni d’amore” ma in realtà nel disco è pieno di roba. In quest’album c’è Fuori di me, che è una delle cose più belle che abbia scritto. Faccio tante cose, ma la comprensione media spesso ne abbraccia solo certe. In tema amore ho parlato anche di quello un po’ sporco, un po’ che non è il massimo (riferendosi a Delusa da me, ndr). È solo che la gente vuole anche un po’ sognare e la realtà non è che piaccia più di tanto, io li capisco, però nei dischi quel lato mio ce lo metto sempre, fa parte di me”.

Sul finire del concerto, Coez fa impazzire il Palaflorio con Occhiali Scuri. Luci psichedeliche e autotune (sì, avete letto bene, autotune sullo stesso palco calcato da cantanti d’opera) tirano fuori tutta l’energia del cantante e della sua band. Senza perdere un secondo ci attaccano E invece no, pezzo più rap “Questo pezzo piace alla mia band, perché questi ragazzi vengono dal rap, dal metal ecc… ma forse è una delle ultime volte che lo suono”. Prima del brano di chiusura che, come da tradizione, è La strada è mia, Coez ringrazia e presenta i membri della band: Gaspare alla chitarra “Con lui abbiamo suonato anche tutto From the rooftop”, alla tastiera Valerio “Ultimo ma validissimo acquisto”, al giradischi/campionatore il Banana, Passerotto alla batteria, Orange al basso “Lui è il vero capo della baracca” conclude Coez.

Coez dà l’idea di essere quel tipo di persona che non potrebbe mai voltare le spalle alle sue origini, alle persone a cui vuole bene, con cui è cresciuto. Sull’avanbraccio porta tatuato con orgoglio Brokenspeakers “Il gruppo ha chiuso i battenti da un sacco di tempo però non abbiamo mai litigato, abbiamo fatto un ultimo disco in un momento in cui attorno a noi c’era anche una discreta hype, solo che stavamo prendendo tutti strade diverse: chi andava a Londra, Nicco che si è messo a fare video e ha fondato gli YouNuts, a me m’era partita la nave per iniziare a fare le canzoni, Lucci è quello che è rimasto un po’ più attivo su quel fronte. Siamo rimasti molto amici, una famiglia. Insomma se abbiamo un problema ci sentiamo, se siamo stressati per qualcosa ci chiediamo come va. E anche tutta la scena rap che frequento (tra gli altri Gemitaiz, Gemello, Noyz, ndr) è abbastanza vera, anche se siamo tutte prime donne, soprattutto quando c’è il momento in cui quello ti supera in classifica. Ma ci sta, è normalissimo anzi è giusto che sia così. La cosa buona è che poi quando ci troviamo in un locale a bere una cosa, alla fine c’è sempre un bel clima. Quelli del rap sono abbastanza real. Più di quelli del pop, sì”.

Foto di Michele Traversa (riproduzione riservata)

Michele Traversa

Direttore responsabile e Editore di LSDmagazine. Esperto di turismo, spettacolo, gastronomia e tecnologia. Attento alle strategie social media e preparato all'interazione tra gli strumenti che questi offrono e la diffusione dei loro contenuti. Collabora con le principali riviste del settore turistico, italiane e straniere, autore di libri e documentari di viaggio e di mostre fotografiche.