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"rigoletto"“Nel Marzo avremo un lavoro alla Fenice, m’han detto, nuovissimo, il Rigoletto. Si parla d’un capolavoro.” (Guido Gozzano)
“Quest’opera non ha speranza di successo.” (Gazette musicale de Paris del 22 maggio 1853)

L’accoglienza dedicata alle nuove opere – e a quelle liriche in particolare – è stata costantemente – storicamente quanto attualmente – oggetto di giudizi discordanti, spesso addirittura antitetici, ma raramente questo è avvenuto con la veemenza con cui fu salutata la nascita del “Rigoletto”, l’opera in tre atti di Giuseppe Verdi su libretto di Francesco Maria Piave, la prima della cosiddetta “trilogia popolare” completata da “Il trovatore” e “La traviata”, andata in scena per la prima volta l’11 marzo 1851 al Teatro La Fenice di Venezia; riteniamo che, forse come non mai, questo si debba all’opera stessa ed ai suoi contenuti, alla materia che vi viene trattata, a quella miriade di antinomie, contraddizioni, opposizioni e contrapposizioni presenti nell’animo del protagonista, magnificamente analizzate nel dramma storico di Victor Hugo “Le Roi s’amuse (Il Re si diverte)” di cui Verdi si innamorò (“Le Roi s’amuse è il più gran soggetto che ho trovato finora, e forse il più gran dramma dei tempi moderni. Io trovo appunto bellissimo rappresentare questo personaggio esternamente difforme e ridicolo, internamente appassionato e pieno d’amore”), tanto da riprenderlo quasi integralmente nel suo lavoro.
Il genio di Hugo aveva posto la sua attenzione sulle dissolutezze della corte francese, con al centro il libertinaggio di Francesco I, re di Francia, in modo sì analitico da attirarsi gli strali del pubblico, della critica e finanche della censura, che ne impedì la messa in scena a seguito della prima parigina del 1832 (scure che, in seguito si abbatté anche sull’opera verdiana da parte della censura austriaca che ne consentì la messa in scena solo cinquant’anni dopo), non potendosi ammettere che il regnante fosse pubblicamente paragonato ad un uomo lussurioso, immorale e lascivo, quasi un novello Don Giovanni mozartiano, affetto da una ipersessualità che lo conduce sino a violentare la figlia del suo buffone di corte, Triboulet, essere deforme e crudele (in cui molti rividero il Quasimodo di Notre-Dame de Paris, il capolavoro di Hugo edito solo l’anno prima) incoraggiato dal suo sovrano a compiere le azioni più spregevoli, il quale, recedendo le catene che lo legavano al suo padrone, che lo avevano relegato al ruolo di lacchè, se non di schiavo, o, meglio, di killer, pronto ad uccidere con l’impietosa parola chiunque il suo mandante gli indicasse, si trasforma da comparsa a protagonista del dramma, dominatore della scena e della sua stessa lucida follia, finalmente dimentico del suo precedente ruolo che ora gli occorre solo per denunciare, in tutta libertà e coscienza, le più scomode verità ed i più inconfessabili vizi del potere, un inesorabile censore – in cui certamente si rispecchiava lo stesso Hugo – che utilizza la sua penna intinta nel veleno e la sua arte attorea per inscenare, incarnandola, così da divenirne forma e manifestazione, la propria irriverente catarsi, squarciando il velo dell’ipocrisia e polverizzando la quarta parete, così da trascinare con sé anche lo spettatore in un vortice da cui non è possibile risalire se non con una rivoluzionaria nuova visione sociale.
"rigoletto1"La sensibilità di Verdi coglie immediatamente che è il buffone Triboulet – personaggio peraltro realmente esistito – il perno della pesante denuncia del drammaturgo francese e così, con la complicità del librettista Piave, dà vita al suo Rigoletto (dal francese “rigoler”, ridere); spostando furbescamente l’azione nella ormai scomparsa Corte di Mantova, con il Re che si trasforma nel Duca, gli autori si possono lucidamente concedere il lusso di schernire e mettere alla berlina i costumi ottocenteschi, ancora pregni di tensioni sociali e di una visione di subalternità dell’universo femminile, costruendo, grazie ad una perfetta e passionale commistione di ricchezza melodica e potenza drammatica, che passa, senza soluzione di continuità, dal grottesco alla tragedia, un’Opera indimenticabile, irreplicabile, irraggiungibile, che fosse di forte impatto emotivo, seguendo le convinzioni del Maestro di Busseto che riteneva che “ognuno dovrebbe provare rispetto davanti all’umanità che soffre”, dominata dall’antieroe per eccellenza che, nell’istante in cui si scopre umanissimo tenutario di emozioni e sentimenti che credeva di aver definitivamente seppellito assieme alla sua dignità, leverà il capo per chiedere vendetta, vinto da un anelito di amore, onore e giustizia che, pur non concedendogli il lieto fine, lo farà assurgere ad un nuovo ruolo, finalmente unico responsabile, nel bene e nel male, della sua esistenza.
In altre parole, noi crediamo fermamente che Verdi e Piave, dando vita al loro personaggio probabilmente più disumano, abbiano costruito, scavando approfonditamente nell’animo umano, un perfetto prototipo di individuo in cui coesistono caleidoscopicamente il vizio e la virtù, il bello e il brutto, il riso e il pianto, il ghigno e il gemito, un immarcescibile modello in cui possa riconoscersi ogni uomo – anche dei nostri incerti tempi – che si faccia prendere da una profonda riflessione ed analisi interiore, una figura che, ponendosi – ancora oggi – davanti agli occhi degli spettatori al pari di un implacabile specchio, può essere individuata come fonte di studio metafisico, se non addirittura psicanalitico. Sarà forse a causa di questa nostra personalissima convinzione che – a differenza dei tanti detrattori levatisi a manifestare la propria irritazione – abbiamo gradito – e molto – l’edizione del dramma verdiano con cui si è riaperta l’annuale Stagione Lirica del Teatro Petruzzelli dopo la pausa estiva, soprattutto per quanto attiene la visionaria regia di Arnaud Bernard, qui ripresa da Angela Saroglou, con l’imponente scenografia di Alessandro Camera che trasporta tutta la vicenda in un’immensa biblioteca, luogo principe di ogni studio e contenitore dell’intero scibile umano, in cui, durante l’ouverture iniziale, scopriamo il Duca, nelle improbabili vesti di medico e scienziato, studiare il buffone, analizzandolo come fosse un corpo da vivisezionare; è come se tutta la vicenda che si materializza davanti ai nostri occhi sia già stata studiata, riportata e trascritta sui quegli enormi volumi, che contengono anche le miniature – o forse i plastici, all’uso dei moderni analizzatori di delitti – dei luoghi imputati ad essere stati teatro dell’accaduto, ma quando tutto sembra navigare tranquillo, come la barca che appare nel terzo atto a sostituire la locanda dell’assassino Sparafucile, verso un finale di purificatrice vendetta, ecco che l’amore incomprensibile, incontrollabile ed incondizionato della giovine figlia di Rigoletto, Gilda, spingendola ad immolarsi per la salvezza del fedifrago Duca, giunge come una tempesta a sparigliare gli elementi, a scompaginare il trattato/copione, che infatti vola via come fosse ormai inutile orpello di scrittura, costruito non tenendo conto di un sentimento che, nella sua manifestazione più pura, non ha nulla di scientificamente individuabile, verificabile, contenibile e governabile: tutto questo trapela perfettamente, assieme ad una certa lettura hard del testo, con nudi ed ammiccamenti – anche un po’ volgari – che probabilmente non sarebbero piaciuti all’integrità di Verdi ma che crediamo comunque siano contenuti più o meno esplicitamente tra le righe, dall’allestimento scenico giunto al Teatro Petruzzelli dopo esser stato già sperimentato dall’Arena di Verona, l’Opera di Losanna, l’Opera di Marsiglia e L’Opera Teatro di Avignone, grazie anche ai riusciti costumi, dello stesso Bernard, che ci sono sembrati richiamare taluni capolavori dell’Arte pittorica, “La lezione di anatomia del dottor Tulp” di Rembrandt soprattutto, ed alle luci di Paolo Mazzon.
Ma vi è un elemento aggiunto che contraddistingue l’edizione del nostro Politeama: la magica bacchetta del Maestro Giampaolo Bisanti, che ci regala un’altra direzione di assoluto valore, rileggendo la partitura con un’incisività davvero sorprendente, sottolineando in modo incisivo i tanti chiaroscuri che si celano tra le note e sviluppandone in modo più che consono le dinamiche e la scelta dei colori, così da proiettare l’Opera verso il futuro, verso un modo inedito di intendere l’esecuzione dei capolavori del passato, un’idea di Musica che Bisanti ha ben radicata nel suo DNA, che condividiamo e che irrimediabilmente ci conquista ad ogni nuovo fortunato incontro. Grazie a lui, ogni tassello appare perfettamente al proprio posto, con l’Orchestra della Fondazione Petruzzelli che offre – salvo qualche rarissima imperfezione certamente dovuta alla tensione della Prima – una prova efficacissima, con il Coro, sempre diretto da Fabrizio Cassi, in grande evidenza, più che eccellente in più di un’occasione, e con un cast davvero molto convincente, in cui si fanno notare il Marullo di Tommaso Barea ed il Monterone di Raffaele Raffio, ma soprattutto lo Sparafucile di Mariano Buccino e – ça va sans dire – il Duca di Ivan Magri, validissimo ma talvolta non combaciante con la perfezione, qualità che, invece, non abbandona mai la performance di Marco Vratogna, un Rigoletto memorabile anche per presenza scenica, e di Giuliana Gianfaldoni, magnifica Gilda, capace di rendere tutti gli impeti amorosi della giovane donna; entrambi hanno donato uno spessore ai loro personaggi cui raramente ci è stato dato di assistere, dimostrando cura nel canto, ma anche una totale attenzione all’aspetto mimico che appagava totalmente il pubblico delle grandi occasioni.

Michele Traversa

Direttore responsabile e Editore di LSDmagazine. Esperto di turismo, spettacolo, gastronomia e tecnologia. Attento alle strategie social media e preparato all'interazione tra gli strumenti che questi offrono e la diffusione dei loro contenuti. Collabora con le principali riviste del settore turistico, italiane e straniere, autore di libri e documentari di viaggio e di mostre fotografiche.