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"a“Si muore sempre troppo presto o troppo tardi. E nonostante ciò la vita è là, conclusa. Il dado è tratto. Bisogna fare le somme. Non si possiede altro che la propria vita.”
“<<L’inferno sono gli altri>> è sempre stato frainteso. Si credeva che intendessi con questo che i nostri rapporti con gli altri erano sempre avvelenati, che si trattava sempre di rapporti infernali. Ma è qualcos’altro che voglio dire. Intendo dire che se le relazioni con gli altri sono distorte, imperfette, allora l’altro non può essere che l’inferno. Perché? Perché gli altri sono, in fondo, ciò che è più importante in noi stessi, per la nostra conoscenza di noi stessi. Quando pensiamo a noi stessi, quando proviamo a conoscere noi stessi, in fondo usiamo la conoscenza che gli altri hanno già di noi, ci giudichiamo con i mezzi che gli altri hanno, ci hanno dato, per giudicarci. Qualunque cosa io dica di me stesso, vi entra sempre il giudizio degli altri. Qualunque cosa provi per me, il giudizio degli altri entra in esso. Il che significa che se la mia relazione è cattiva, mi metto nella totale dipendenza degli altri e poi, davvero, sono all’inferno. E ci sono molte persone nel mondo che sono all’inferno perché dipendono troppo dal giudizio degli altri. Ma questo non significa che non possiamo avere altre relazioni con gli altri, segna solo la fondamentale importanza di tutti gli altri per ciascuno di noi.”

Al nostro ingresso in sala, uno strano angelo dalle ali nere, con in mano una statuetta raffigurante Atlante, si occupa di quella che potrebbe essere una tavola, non ancora imbandita, o un letto o, vista anche la posizione sopraelevata, un ring. Una notissima canzone irrompe: quante volte l’avremo ascoltata, suonata, cantata, ma in questa circostanza le sue parole assumono un significato diverso, profetico, definitivo: “In un mondo che non ci vuole più, il mio canto libero sei tu. E l’immensità si apre intorno a noi, al di là del limite degli occhi tuoi. Nasce il sentimento, nasce in mezzo al pianto, e s’innalza altissimo e va, e vola sulle accuse della gente, a tutti i suoi retaggi indifferente, sorretto da un anelito d’amore, di vero amore.”, ripete Battisti prima di essere interrotto dall’arrivo su quello strano letto di un uomo; dalle prime battute comprendiamo di trovarci all’inferno, che l’uomo è un dannato e quello che credevamo un angelo è in realtà un diavolo, ma uno di quelli buoni, una specie di maggiordomo che spiega come sono organizzate le cose lì: niente fiamme, niente pene corporali, ma anche niente specchi o spazzolino per i denti, nessuna possibilità di uscire o di dormire. Presto si aggiungono al gruppo due donne, altre due anime condannate alla dannazione eterna. Ma, in assenza delle canoniche pene mutuate dalla fantasia dantesca, quale punizione dovranno mai aspettarsi i tre? Solo col tempo comprenderanno che sono condannati ad essere l’uno carnefice dell’altro (“l’enfer, c’est les autres”) per la forzata eterna convivenza, che si farà tanto più terribile ed angosciante quando capiranno che, pur non essendovi alcun vincolo che li costringa a non allontanarsi da quella claustrofobica situazione, l’obbligatorietà di quella condizione di controllo totale sull’individuo esercitato da altri individui per nulla empatici è l’unica possibile per affrontare l’eternità; “essere”, fosse anche solo come specchio per gli altri e come proiezione dell’immagine che gli altri hanno di noi, relegati al giudizio altrui, consapevoli che qualsiasi cosa noi facciamo per alterarlo ed apparire migliori, l’ultima parola spetterà sempre agli altri coi loro giudizi e pregiudizi, pur determinando l’impossibilità di una salvifica metamorfosi, appare comunque condanna ben più ragionevole ed accettabile del “non essere”.
Sin qui (e molto, molto oltre) la magnifica opera di Jean-Paul Sartre “Huis clos (A porte chiuse)”, capolavoro assoluto della drammaturgia di tutti i tempi che dal 1944 non smette di interrogarci sulla pressione sociale come fonte di sofferenza dell’essere umano e di porci di fronte a scelte risolutive; oggi Andrea Adriatico e Stefano Casi riprendono il filo del pensiero sartriano per licenziare il loro “A porte chiuse”, produzione dei “Teatri di vita” e seconda parte, dopo “Bologna, 900 e duemila”, del progetto “Atlante (progetto cervicale per chi soffre di dolori al collo, dolori da peso del mondo)”, giunta al Teatro Kismet di Bari per tre affollatissime repliche. Una lettura, quella di Adriatico e Casi, che si immerge nella recente cronaca italiana, dando una perfetta e precisa rintracciabilità dei tre peccatori dannati: l’uomo è Giuseppe Pellicanò che il 12 giugno 2016 svitò il tubo del gas del suo appartamento milanese, causando la morte della moglie e di due vicini di casa e ferendo gravemente le sue due figlie, ora condannato all’ergastolo, mentre le due donne rappresentano una musulmana convertita morta di botte per mano del marito, la quale amando clandestinamente Giulio Regeni, il giovane ricercatore ucciso al Cairo, ne avrebbe causato la morte per mano dello stesso marito tradito e dei servizi segreti egiziani, e una versione al femminile di Vittorio Casamonica, boss dell’omonimo clan romano, che qui diventa la signora Casa Monica, strozzina romana, il cui funerale, svoltosi nello sfarzo tra una carrozza trainata da cavalli, la banda che intonava il tema de “Il Padrino” ed un elicottero che spargeva sugli astanti petali di rosa, fu visto come l’attestazione del potere della mafia in Italia. Sono i nuovi mostri italici ma hanno radici ben piantate nel passato, hanno cuscini verdi, bianchi e rossi, e per spiare la terra (che si trova giù e non su) assumono le medesime pose dei dannati del Giudizio Universale michelangiolesco; ma se lo spostamento temporale ai giorni nostri e la perfetta aderenza con la realtà aggiunge emozione in alcuni passaggi (come in quello in cui riecheggiano le parole della mamma di Giulio Regeni), permettendo allo spettatore di sentirsi partecipe delle vicende narrate, non vi è dubbio che qualcosa sottraggano all’elemento psicologico del lavoro di Sartre; l’immedesimazione, quindi, è data – se vi è – dalla conoscenza dei fatti che vengono illustrati e non dal sentirsi accomunati ai personaggi che si agitano sul palco, così da far assurgere lo spettacolo al ruolo di testimonianza, di netta presa di posizione rispetto al degrado della società italiana e non.
Sotto la sapiente regia dello stesso Adriatico, risultano straordinari tutti gli attori impegnati; Francesca Mazza, nel ruolo di Casa Monica, Teresa Ludovico, in quello della musulmana, e Gianluca Enria, cui deve aggiungersi il convincente demone di Leonardo Bianconi, gareggiano in bravura, consegnandoci una versione della piéce assolutamente memorabile, giocata sul filo dell’istrionismo, perfetti nel rappresentare l’umanità moderna e le sue maschere, tanto quelle comiche alla Plauto quanto quelle tragiche alla Pirandello, a loro agio nel ritrarre ogni sfaccettatura, ogni anima di quelle tre anime dannate, quella intellettuale e quella popolare, l’inquadrata e la ribelle, la razionale e l’irrazionale, abilissimi nel fotografare, mettendole a nudo, le nefandezze della nostra società, facendoci comprendere che l’inferno non sono gli altri, ma siamo noi.

Michele Traversa

Direttore responsabile e Editore di LSDmagazine. Esperto di turismo, spettacolo, gastronomia e tecnologia. Attento alle strategie social media e preparato all'interazione tra gli strumenti che questi offrono e la diffusione dei loro contenuti. Collabora con le principali riviste del settore turistico, italiane e straniere, autore di libri e documentari di viaggio e di mostre fotografiche.