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"Geppetto“Non insegnate ai bambini, ma coltivate voi stessi il cuore e la mente. Stategli sempre vicini. Date fiducia all’amore. Il resto è niente.” (Giorgio Gaber)

“Se ci sarebbe più amore, tutti i problemi non ci sarebbero.” (Tindaro Granata)

Un film di qualche tempo fa, con protagonista un inconsueto Robin Williams, osservava che “le foto di famiglia ritraggono volti sorridenti, nascite, matrimoni, vacanze, feste di compleanno dei bambini. Si scattano fotografie nei momenti felici della propria vita. Chiunque sfogli un album fotografico ne concluderebbe che abbiamo vissuto un’esistenza felice e serena, senza tragedie. Nessuno scatta una fotografia di qualcosa che vuole dimenticare”. Modificare questa granitica concezione della vita, se non proprio ribaltandola quantomeno ampliandola, inserendo nella teca dei ricordi alcuni ritratti meno riusciti, fermoimmagine sfocati, scattati da mano improvvida o semplicemente priva della dovuta esperienza, in cui le ombre prendono il sopravvento sulla luce, talvolta nascondendola del tutto, è quello che, a nostro modesto parere, si propone “Geppetto e Geppetto”, la pièce teatrale coprodotta dal Teatro Stabile di Genova, dal Festival delle Colline Torinesi e da Proxima Res, vincitrice del Premio Ubu 2016 quale migliore novità italiana, giunta, per nostra fortuna, a Bari ad aprire la rassegna del Teatro Abeliano “To the theatre”, che quest’anno gode della imprescindibile collaborazione artistica della nostra Licia Lanera, partorita (la pièce, non Licia) dal genio di Tindaro Granata, tra i più talentuosi drammaturghi che suolo italico abbia generato negli ultimi decenni, che con solo tre testi (“Antropolaroid” ed “Invidiatemi come io ho invidiato voi” i precedenti) ha di fatto creato un personalissimo linguaggio teatrale. Ed ha veramente del geniale l’opera cui abbiamo assistito, che, dietro una messa in scena – all’apparenza – talmente semplice da far pensare ad una recita scolastica di fine anno, fatta da bambini per un pubblico di bambini, dove è bene che i nomi dei personaggi siano visibilmente scritti sulle maglie degli attori per non creare confusione, con una scarna, se non essenziale, scenografia formata da un tavolo, che l’immaginazione degli spettatori dovrà trasformare, come indicano tre cartelli, a volte in agenzia, a volte in cucina, “avvolte” in scuola, un gabinetto (ad indicare il luogo da sempre deputato alle crisi familiari), delle sedie (anch’esse scolastiche), riesce a celare tutto l’intero mondo di passioni e repulsioni, certezze e dubbi, coraggio e paura, sicurezze e contraddizioni, che catturano qualsivoglia essere umano si ponga di fronte alla coraggiosa scelta della genitorialità, tanto più ardita e temeraria quando ad affrontarla siano due gay.
Toni (Paolo Li Volsi) e Luca (lo stesso Granata) sono una rodata coppia che, all’indomani dello stralcio della “stepchild adoption” dal DDL Cirinnà, discussa legge sulle unioni civili, decidono di “perfezionare” la loro famiglia dando vita al proprio figlio tramite la cosiddetta pratica dell’utero in affitto, che così tanto scalpore fece in passato dalle nostre parti per la decisione di intraprenderla da parte dell’uomo che deteneva la maggiore carica istituzionale regionale. Tra le rimostranze ed opposizioni della madre di Toni (Roberta Rosignoli) e dell’amica della coppia Franca (Alessia Bellotto), i due novelli Geppetto, contravvenendo alle più elementari leggi di natura, si costruiscono il loro figliolo: nasce così Matteo (Angelo Di Genio, insignito del Premio Nazionale della Critica 2016 come miglior attore emergente per la sua interpretazione) che, ricoperto dall’amore caloroso dei suoi due papà, non sentirà il peso della sua “irregolare” nascita nemmeno a seguito degli attacchi dei suoi compagni di classe e delle – assai poco ortodosse – spiegazioni della giovane maestra.
“Il legame che unisce la tua vera famiglia non è quello del sangue, ma quello del rispetto e della gioia per le reciproche vite.” ripeteva Richard Bach, in certo qual modo contrapponendosi ai dettami dello psicologo Bert Hellingerm che sentenziava che “ciascuno di noi fa parte di una famiglia con cui vive ed a cui è legato, che lo voglia o meno. Spesso continuiamo a ripetere conflitti e malesseri nelle nostre esperienze, oppure portiamo sulle spalle pesi che non ci appartengono. O anche, viviamo a nostra insaputa il tragico destino di un familiare, scomparso da tanto tempo e mai conosciuto. Tutte queste dinamiche ci legano in modo negativo alla famiglia, impedendoci di guardare in avanti con forza gioiosa e di avere successo nella nostra vita”. Ebbene, quasi a voler dar ragione al secondo, lo scorrere tranquillo del lungo fiume della vita di Matteo viene devastato dalla morte prematura per tumore di Toni, il padre biologico, che abbandona i due sopravvissuti ad un rapporto totalmente incompiuto, tanto per la legge quanto, soprattutto, per la psiche del giovane, che, nell’ennesimo anniversario della morte di Toni, getterà tutta la sua rabbia sugli amici di sempre, Lucia (Lucia Rea, anche nel ruolo della maestra), figlia di Franca, e Walter (che qui a Bari è stato Marco Bonadei in sostituzione di Carlo Guasconi), e sull’amorevole padre putativo, allontanandosene per sempre. Tornerà sui suoi passi Matteo solo per recarsi al capezzale di un Luca morente d’infarto (o di cosiddetto “crepacuore”?), forse perché spinto dalla sua imminente paternità ovvero perché, crescendo, finalmente ha compreso che, come diceva Charles Dickens, “capitano incidenti anche nelle migliori famiglie”, siano esse nate da coppie etero o da coppie gay, o, come molto più semplicemente, nel suo italo/siculo slang, avrebbe detto Luca, “se ci sarebbe più amore, tutti i problemi non ci sarebbero”.
Granata riesce miracolosamente a trattare questi temi pesantissimi, in cui ogni genitore, qualunque sia la sua scelta sessuale, può riconoscersi, senza sentenziare o pontificare, evitando di cadere nella trappola dello spettacolo di denuncia (“Questa non è la storia universale di tutti i figli nati da coppie omosessuali. Non è la storia di una bandiera spinta dal vento del “pro” o da quello del “contro”, chi se ne frega!” ha superbamente detto Tindaro), con una leggerezza ed un gusto più unici che rari, creando un accurato meccanismo in cui, come nella vita, farsa e dramma si mescolano indissolubilmente, facendoci passare dal riso al pianto in una sola frazione di secondo, partorendo un’operazione di altissimo livello tanto nella sua regia quanto nella sua scrittura, preziosissima, semplice e coltissima allo stesso tempo, caleidoscopica, con incastri degni del più luminoso dei puzzle, ma anche nella recitazione dell’intera compagnia, sempre perfetta, che richiama addirittura la Commedia dell’Arte in quello stazionare dei magnifici attori a bordo palco, ulteriore illusione di essere in presenza di un semplice canovaccio e non – come invece è – di un testo indiscutibilmente compiuto che cattura in ogni singolo istante. Quando, al termine delle magnifiche due ore di spettacolo, Matteo corregge l’espressione paterna in un “se ci fosse più amore”, non possiamo fare a meno di sentirci accomunati in questo impeto, in questa richiesta, in questa preghiera pagana che è la ragione stessa, purtroppo spesso dimenticata, della vita di ognuno di noi.

Michele Traversa

Direttore responsabile e Editore di LSDmagazine. Esperto di turismo, spettacolo, gastronomia e tecnologia. Attento alle strategie social media e preparato all'interazione tra gli strumenti che questi offrono e la diffusione dei loro contenuti. Collabora con le principali riviste del settore turistico, italiane e straniere, autore di libri e documentari di viaggio e di mostre fotografiche.