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"FB_IMG_1507812163674"Difficile parlare del progetto “White Rabbit Red Rabbit”.
Molto difficile.
E sarebbe già difficile parlarne a prescindere, cercare di esporre compiutamente il senso di questo “esperimento sociale in forma di spettacolo” senza cadere nell’ovvio e nel déjà vu o, meglio, déjà dit, se non vi fossero da rispettare anche le regole di questo magnifico gioco che dal 2011 affascina e conquista le platee – ed i palchi – di tutto il mondo; una di queste ferree clausole vuole che quanti siano chiamati a scrivere della pièce non ne svelino il contenuto, ma – se proprio ci riescono – condividano solo le impressioni percepite. Proveremo ad attenerci a quanto prescritto; chi avrà la bontà di leggerci saprà comprendere.
In “White Rabbit Red Rabbit” il palco è vuoto, se si eccettua la presenza di una sedia, un tavolino, un leggio, una scala e, soprattutto, due bicchieri (due, come le pillole di Matrix, il capolavoro cinematografico che – guarda caso – aveva scelto il coniglio come proprio simbolo). E poi c’è un attore. E basta. Non c’è regista, non ci sono prove, ma ogni sera all’interprete di turno, uno diverso per ogni recita, viene chiesto di entrare in scena senza conoscere nulla del copione, che gli viene consegnato a spettacolo iniziato in busta sigillata;
dal 2011 sino ad oggi al gioco si sono prestati grandi attori in ogni parte del Globo, tra cui Sinead Cusack, Whoopi Goldberg, Ken Loach, 
F. Murray Abraham, Martin Short e, last but not leastLella Costa in Italia, dove lo spettacolo gode della puntuale e mirabile produzione della 369gradi diretta da Valeria Orani.
Il testo di “White Rabbit Red Rabbit” è stato scritto dal drammaturgo iraniano Nassim Soleimanpour nel periodo in cui era impossibilitato a lasciare il suo paese per motivi politici e, persino, temeva per le sue sorti e per quelle della sua famiglia; ha pensato così di dare vita ad uno spettacolo che avesse la possibilità di girare il mondo al suo posto, in modo da recuperare un vago – ma comunque appagante – senso di libertà senza rinunciare alla possibilità – superfluo dirlo – di lanciare un nuovo atto di accusa nei confronti del regime del suo Paese. È ovvio che, in tale guisa, vi fossero tutte le premesse per creare un’opera politicamente scorretta, di forte denuncia, un sasso di enormi proporzioni che, lanciato nel ristagnante lago delle coscienze, potesse far nascere onde talmente alte da farci affogare non solo i persecutori ma anche gli ignavi spettatori dei crimini. Eppure “White Rabbit Red Rabbit” – credeteci sulla fiducia – non è soltanto questo, ma, partendo da tale analisi, invita a ripensare al ruolo che ognuno di noi ha nella vita propria e degli altri esseri umani, anche i più remoti, ci ricorda che, lo voglia o no, nessun uomo è un’isola, e tutti influenzeremo con il nostro modus vivendi le maree delle coste che condividiamo, ci spinge ad elaborare nuove ipotesi sul passato, sul presente e sul futuro, su ciò che è reale e ciò che non è – o ancora non è – reale, con tutte le potenziali ripercussioni, che potrebbero addirittura essere letali, che la scelta nasconde, esamina l’essere umano nella sua nudità e nella sua povertà, si inerpica per un sentiero ripidissimo ed intriso di insidie che – pare – non avere alcuna destinazione, affronta una discesa agli inferi attraverso un pozzo senza fine in cui non si intravedono possibilità di risalita, chiede ai “giocatori” di farsi complici, di accettare le regole, dimenticando la linea di confine tra l’incredulità e la conformità, crea una collettiva seduta psicanalitica che coinvolge in una esperienza unica nel suo genere sino allo spasimo il pubblico, l’attore e l’autore stesso.
Inutile nasconderci come sia più che ovvio che, a fronte delle suddette clausole, la riuscita del gioco sia affidata anche e soprattutto alla maestria dell’artista impegnato nella recitazione; ebbene, se già alla vigilia non avremmo potuto immaginare interprete migliore della nostra Licia Lanera, deus ex machina delle Fibre Parallele, compagnia di cui ci siamo professati irriducibili ammiratori, oggi possiamo, senza tema di smentita, affermare di aver assistito ad una nuova sublime prova d’Attrice. Alle prese con la sua sinfonia di pura improvvisazione, la Lanera, forte di tutta la sua audacia e della sua innegabile immensa personalità, ne esce vincente al pari di un Keith Jarrett della parola, costruendo un modello da cui – qualora le regole del gioco lo concedessero – nessun futuro interprete potrebbe riuscire ad allontanarsi. È lei l’incarnazione della protagonista dell’opera teatrale, la splendida equilibrista che cammina sulla corda tesa da Soleimanpour, senza rete, sempre sul punto di cadere e di perdersi, che cattura i cuori di tutti gli astanti sino a farli salire con lei su quel filo; il suo modo di prendere per mano, imbrigliare, guidare il pubblico ha dell’incredibile, del fantastico. E non è solo astuta Arte attoriale – che qui è più che visibile in tutte le sue innate, ma sempre in evoluzione, sfaccettature – ma è pulsioni e vibrazioni, riso e pianto, emozione e compartecipazione, è sangue che scorre in un corpo vibrante, è dono impagabile, è vita.
Se non fossimo a conoscenza della richiesta dell’autore riguardo alla conoscenza del testo da parte dell’attore impegnato, non chiederemmo di meglio che poter correre nuovamente a vedere la performance di Licia Lanera. Ma le regole del gioco non lo consentono e, forse, anche questa esclusività, questo voler fermare l’attimo in un momento unico ed irripetibile, rende l’evento impareggiabile e, soprattutto, inamovibile dalla nostra memoria.

Michele Traversa

Direttore responsabile e Editore di LSDmagazine. Esperto di turismo, spettacolo, gastronomia e tecnologia. Attento alle strategie social media e preparato all'interazione tra gli strumenti che questi offrono e la diffusione dei loro contenuti. Collabora con le principali riviste del settore turistico, italiane e straniere, autore di libri e documentari di viaggio e di mostre fotografiche.