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"james"Il feeling è sicuro, quello non se ne va: lo butti fuori ogni momento, è tutta la tua vita e sai di essere un nero a metà”.

Ci sono incontri che mutano il corso del tempo, lo piegano, gli fanno seguire altre rotte, lontane dall’umana conoscenza, sino a cancellarlo del tutto; ci riferiamo alle – in realtà sin troppo rare – occasioni in cui famelici ed incontentabili fruitori di musica – quali noi ci professiamo – hanno la somma fortuna di trovare sul proprio cammino un gruppo di artisti, universalmente annoverati tra le stelle di prima grandezza, che, spinti da una comune dichiarazione d’intenti, hanno deciso di riunirsi sotto la stessa bandiera, indomiti alfieri di una musica pura, innovativa, sanguigna, potente, che parla sempre direttamente al cuore e che, non accettando compromessi e concessioni, non ha alcuna possibilità di deludere il fan della prima ora come quello di ultima generazione. James Senese ed i suoi Napoli Centrale incarnano perfettamente questa categoria, oggi come quarant’anni fa, quando, messo da parte il pur luminoso periodo degli Showmen, sconvolsero il panorama musicale italiano pubblicando il loro primo album; da allora molta acqua è passata sotto i ponti e, di collaborazione in collaborazione, la band è giunta a quella che – senza offesa per i membri succedutisi – possiamo, con tutta probabilità, considerare la sua migliore formazione, con Ernesto Vitolo alle tastiere, Gigi De Rienzo al basso ed Agostino Marangolo alla batteria, magnifici ingranaggi di una macchina perfetta che, viaggiando al suono del migliore jazz – rock, è arrivata sino al Teatro Forma di Bari per un memorabile concerto / evento, sold out da settimane, tappa del tour scaturito dalla pubblicazione dell’ottimo album “‘O sanghe”, premiato anche con la Targa Tenco come miglior album in dialetto del 2016, un lavoro che può essere certamente annoverato tra le migliori produzioni del gruppo, con cui James è riuscito nuovamente a dimostrare, qualora ve ne fosse stato ancora bisogno, di essere in possesso della capacità visionaria, ricevuta in dono dal Dio della Musica, di saper guardare nel futuro pur non trascurando la grande lezione del passato, di riuscire a creare sempre nuove fantastiche forme di linguaggio pur non distruggendo le favolose architetture di quanti lo hanno preceduto nel ruolo di precursori, Davis e Coltrane su tutti.

A ben vedere, tutto il percorso artistico di Senese è dettato da un continuo cercare, un movimento inarrestabile, mai sconnesso o incoerente, pregno di continue adrenaliniche accelerate, uno spaziare senza alcuna soluzione di continuità tra le musiche possibili, riuscendo a dar loro una nuova vita, un nuovo moto, uno scatto diverso; il suo apporto alla musica moderna è inestimabile e, a nostro modesto parere, ancora in là dall’essere compreso appieno, mentre il suo sound è inconfondibile, non lascia mai indifferenti e riesce a trasmettere sempre qualcosa di sconosciuto e stimolante, figlio di una visione inedita e caleidoscopica, talvolta finanche impressionistica, di quelle stesse note che, agli occhi di tanti altri suoi colleghi, continuano a restare sempre uguali a se stesse sul freddo pentagramma.

Ogni esibizione live, poi, di questo giovanotto che, solo per l’anagrafe, ha da poco festeggiato 72 primavere, ha qualcosa di arcano e magico che cattura anche l’ascoltatore più distratto; fu così, a nostra memoria, in un concerto di qualche tempo fa al Castello di Bari nell’ambito del Festival Aqua Vitae, ed è stato così anche nella performance inserita nel cartellone del Teatro Forma, che ci ha consegnato un quartetto di geni musicali in assoluto stato di grazia, di quattro magnifiche menti pensanti che, oltre alle riconosciute doti solistiche, dimostravano in ogni istante una prodigiosa sinergia, un’inesplicabile capacità di interagire, peraltro divertendosi da matti. Scorrevano così velocemente le note di Alhambra”, “So vivo”, “Go away”, “Tutto o niente”, “Na bella jurnata”, “Mille poesie”, “Malasorte”, la mitica “Campagna”, “Jesceallàh”, “Manama”, “O nonno mio”, “Vecchie, mugliere, muorte e creature”, “Simme iute e simme venute”, “’O sanghe”, fino a chiudere con “Bon voyage”, brano che in realtà apre l’ultimo album, quasi a creare nel pubblico un corto circuito, un movimento circolare infinito.

Ed in questo oceano di note che ci ha sommersi è stata innegabilmente palpabile la fortissima emozione che ha catturato l’osannante platea quando il band leader, raccontando un dolcissimo sogno (o una inconfessabile realtà), ha introdotto “Chi tene ‘o mare”, capolavoro – occorre dirlo? – del divino Pino Daniele, a cui – e questa è storia – tanto James quanto Agostino, Gigi ed Ernesto erano indissolubilmente legati (basti ricordare che, tra l’altro, hanno tutti partecipato – e De Rienzo ne fu anche produttore – alla creazione di quella pietra miliare della musica di tutti i tempi che è “Nero a metà”); il loro commovente, coinvolgente, vero, intenso omaggio all’amico, al fratello tanto amato, mai perduto, sempre presente, è sublime, scevro dagli odiosi sfruttamenti (ancor oggi perpetuati) dell’immagine di Pino posti in essere dopo la sua dolorosissima scomparsa: è, come diceva Gesualdo Bufalino, “un massaggio serafico sulle cicatrici dell’anima”, le stesse “cicatrici della gioia e del dolore della vita” che, per sua stessa ammissione, hanno segnato il sax del Maestro James Senese.

Michele Traversa

Direttore responsabile e Editore di LSDmagazine. Esperto di turismo, spettacolo, gastronomia e tecnologia. Attento alle strategie social media e preparato all'interazione tra gli strumenti che questi offrono e la diffusione dei loro contenuti. Collabora con le principali riviste del settore turistico, italiane e straniere, autore di libri e documentari di viaggio e di mostre fotografiche.