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Sorte infausta quella del Sancarluccio: uno spazio storico che, nell’anno del quarantennale della propria attività, rischia concretamente di chiudere, complice (carnefice) la cecità istituzionale, sotto lo sguardo indifferente di una città che ha disimparato – se mai imparato l’avesse – a tutelare i propri patrimoni culturali. Ciononostante, con caparbietà quasi commovente, il Sancarluccio ha cominciato una stagione (che non sa nemmeno se riuscirà a portare a termine), presentando un cartellone di tutto rispetto. Questa settimana è la volta di “Ercole e le stalle di Augia”, piéce portata in scena dalla Compagnia dell’Elce di Firenze, prendendo spunto da un racconto di Friedrich Dürrenmatt.
Protagonista della vicenda un eroe di un altro tempo calato in una realtà che assomiglia a quella del nostro tempo. Un solo attore in ribalta (l’ottimo Stefano Parigi), a dar luogo al gioco del teatro con pochi oggetti di scena (uno sgabello, un ombrello, un drappo di stoffa color arancio, una campanella), dando vita e voce a rotazione ad Ercole, al suo segretario Polibio, alla sua sposa Deianira, oltreché ai vari personaggi di contorno.
Il mito greco è lontano dall’Olimpo, dissacrato per sua stessa ammissione da una torma di poetastri derubricati come spudorati contafrottole; l’Ercole costretto ad accettare l’umile incarico di sobbarcarsi la “deletamizzazione” delle stalle di Augia, sovrano bifolco dell’Elide, è un mito in declino dell’eroismo, divorato dai debiti, braccato dai creditori, svilito della sua aura d’invincibilità e calato in una realtà sì terrena da rasentare il meschino. Immediata la riconducibilità della vicenda ad emergenze a noi coeve, e non solo per l’ambientazione allusivamente greca: l’Ercole che accondiscende controvoglia a farsi ingaggiare per un repulisti di letame, affronta un’avventura in un Paese che è nei guai (nello sterco) fino al collo, eppure all’eroe non è dato modo di condurre a termine la propria opera, impastoiato da cavilli burocratici, dall’infuriare del cicaleccio di pretestuose gazzarre parlamentari, dalle lungaggini di commissioni e controcommissioni.
Facile leggere la rielaborazione di Marco Di Costanzo come una metafora del nostro tempo senza eroi, un tempo di Paesi al collasso e, ancor più scandagliando l’aderenza al reale, facile leggere la metafora come allusiva anche di una crisi del settore teatrale, in cui chi opera è come un Ercole che si sobbarca un’inane fatica, rimanendo comunque sommerso da una situazione che non pare far intravvedere all’orizzonte interventi più erculei e risolutivi (ed ogni riferimento alla situazione del Sancarluccio stesso è puramente voluto!).
Tornando allo spettacolo, il monologo variato su più voci, affidato a repentini trasformismi, accompagna il viaggio di Ercole e del suo seguito con giocolerie di scena che sono esaltazione del meccanismo teatrale, incanalate da una regia attenta e precisa; unica pecca, forse, una certa qual difficoltà a variare un ritmo alla lunga troppo uniforme, tenuto conto anche della considerevole durata della piéce.
Mito, eroe iracondo, pulitore di sterco, fenomeno da circo, debitore fuggiasco: la parabola dell’Ercole di Dürrenmatt riletto da Di Costanzo è un progressivo anticlimax; il mondo non si cambia con la forza, vieppiù quando a detenere la forza sono eroi non più capaci di eroismi.
Foto di Miriam Caltabiano