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"intothewild"E’ andato in onda ieri su Rai4 "Into the Wild" controverso film di Sean Penn tratto dall’omonimo romanzo di Jon Krakauer.
Il cinema anche in tv spesso attiene a canoni estetici, ed emozionali del tutto personali, e momentanei, e cambia da soggetto a soggetto, nello stesso momento, e in momenti diversi. Ma dopo qualche ripensamento iniziale sulla tenuta della pellicola, sulle qualità delle sensazioni che questa mi ha dato, e sul mio stato di grazia al cospetto di questo lavoro, mi rendo conto che certamente non cambia l’impatto primigenio. La prima volta che lo vidi a cinema era il lontano 2008.
Era un sabato pomeriggio e decisi di andare a cinema da solo sperando che anche la sala potesse essere deserta. Così non era!
La affollavano, indistinte, decine di coppie di cinquantenni e quarantenni, neppure fosse il film di San Valentino. Io mi andai a mettere avanti avanti, dove di solito nessuno si siede. Me ne stavo seduto centrale in modo da vedere tutto e godermi a pieno l’incombere dello schermo su di me, e non essere distratto dall’inevitabile parlottio, dalla confusione del commento continuo.
L’effetto di isolamento totale potetti conquistarlo in pochi minuti.
Un film dalla fortissima carica emozionale che esalta il ruolo del cinema come centro nevralgico di un percorso iniziatico al valore della vita, della conoscenza di sé, dell’intraprendenza e del coraggio verso la scoperta. Viene da pensare ai vent’anni, alle esperienze da zaino in spalla.
Into the wild mi ha aiutato a pensare, a ricordare com’eravamo o come avremmo voluto essere, a come non si è stati, a come siamo oggi, a tutte le cose che facevo a vent’anni, agli amici di allora, che tranne rari casi sono gli stessi di oggi.
Ho pensato agli Stati Uniti, al viaggio di allora alla scoperta di un continente di cui sembra di sapere tutto ma di cui in realtà non si sa niente. Una notte passata a bere Tequila e Margaritas, che scendevano a fiumi da damigiane formato famiglia, mentre si giocava alla Playstation, e la mia sola necessità vitale era comunicare, in un inglese il più possibilmente comprensibile, l’unica esigenza che avessi mai davvero avuta "uereisdetoilett".
La verità è che questo film di Sean Penn è bellissimo perché ha la capacità di farti sognare, di prenderti la testa e di portarla per 148 minuti in giro per le foreste dell’Alaska, per i meandri della tua vita, per i sogni che non sei più capace di vivere o non hai più il coraggio di sognare.
E’ un film magico, perché ti perdi. E’ un film triste perché alla fine esci dal cinema e devi riprendere a camminare per le strade cittadine. Riprendere a pensare ad amori impossibili, al cinema che vorresti fare e non fai, agli amici con cui da tempo si è rotto l’idillio e che ti ostini a chiamare da dieci anni e da dieci ne rimani sempre deluso. Per quei baci che hai dato ad una donna e hai ricevuto tanto tempo fa e ti sembrano gli unici che potrai mai dare e mai ricevere. Ma altri ne dai, altri ne ricevi e sei deluso! E sai che non ci saranno più perché lei è donna in carriera, ha un altro taglio di capelli, un altro modo di vestire, un altro sguardo sul mondo, fors’anche un altro uomo, e non ha più il tempo di volare come la Wendy di Peter Pan e neppure di camminare, on the wild side.
Questo è un film da godersi da soli, non è il sogno felliniano collettivo, epocale, italiota, ma è un autentico amarcord, non indotto da altri ma auto-generato dal sé, attraverso le sollecitazioni sinaptiche più pure. Non è un film sul sogno, ma è il sogno stesso, e ce ne sono pochi di film simili, eppure dovrebbe essere questo il cinema! Il lavoro dei reparti – straordinaria acutezza della fotografia, il fondamentale lavoro di montaggio – proprio del grande cinema americano, c’è ed è notevolissimo, ma non si vede, lo spettatore non se ne accorge, si gode l’opera, si gode il viaggio.
Se ne avvede il critico, l’esegeta, l’erudito puntiglioso, come è giusto che sia.
Anche le musiche, composte e assemblate da Eddie Wedder – front man dei Pearl Jam – sono banali, come è banale "Volare…ohoh", ma proprio come la canzone di Franco Migliacci e Domenico Modugno ci aiutano a elevarci "nel blu dipinto di blu".

Michele Traversa

Direttore responsabile e Editore di LSDmagazine. Esperto di turismo, spettacolo, gastronomia e tecnologia. Attento alle strategie social media e preparato all'interazione tra gli strumenti che questi offrono e la diffusione dei loro contenuti. Collabora con le principali riviste del settore turistico, italiane e straniere, autore di libri e documentari di viaggio e di mostre fotografiche.