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"Doghouse"Il rock è vivo e gode di buona salute. La conferma? I Doghouse hanno tirato fuori “libertà compositiva, forte capacità di sintetizzare le diverse esperienze musicali, desiderio di osare e d’ignorare le ferree norme del mercato”. Parole decise quelle rilasciate dai componenti di questa nuova band rock barese, non ammettono mezzi termini e rivelano una progettualità ormai definita. Guardano sicuramente oltre i confini nazionali Alfredo Garribba (voce, armonica) Angelo Pantaleo (batteria, percussioni e voci) Salvatore De Paolis (basso) e Vincenzo Martella (chitarra elettrica e slide). Hanno cercato volontariamente nel cd in distribuzione di esaltare al massimo la vena compositiva per “non restare ingabbiati in un genere, spaziando dal blues rivisitato, al folk miscelato con il rock, dal rock duro a ballate più morbide e intimistiche, dalla psichedelica a sonorità più cupe e neogotiche. Consci del fatto – rivelano i Doghouse – che se si resta intrappolati in un genere si rischia di farsi appioppare etichette dalle quali diventa impossibile liberarsi”. Una “bomba“ energetica e di intenti che va solo ascoltata dal vivo. Formazione artistica che inizia il suo difficile percorso nel 1997, dove ancora si sentiva l’influenza della matrice da cui i Doghouse hanno preso ispirazione. Poi il salto, il cambiamento.

Com’è nato questo passaggio?

Abbiamo cominciato con il blues perché è il nostro primo amore. Anche perché quando un gruppo si forma è gioco forza cominciare con le cover, visto che non si hanno riferimenti d’altro genere. Il problema è liberarsi da un codice, mai facile. Dunque abbiamo fatto un po’ di fatica a cercare una sintesi che ci permettesse di creare un sound originale che non fosse immediatamente riconducibile alle nostre radici. La svolta si è verificata proprio in questa fase, una lenta ma inesorabile trasformazione. Non qualcosa di istantaneo, piuttosto un processo che ha solo una direzione.

Sound trascinante e composizioni originali solo in inglese. Perché?

Siamo sempre stati convinti che per scrivere in una qualsiasi lingua fosse necessaria una poetica, un metodo efficace e originale di comunicare attraverso un idioma. Abbiamo sviluppato questa poetica in lingua inglese perché riteniamo l’italiano non sia particolarmente adeguato. Inoltre l’inglese è una lingua che fa largo uso dell’onomatopea e non è spigolosa come l’italiano. Insomma siamo convinti che le parole di un grande sperimentatore della voce come Demetrio Stratos siano illuminanti a riguardo. Lui diceva ”ciò che conta in musica è il suono”, vale a dire che in musica ciò che suscita emozioni è la musica stessa, non le parole. La gioia, la tristezza, l’angoscia o la speranza sono già descritte dalla musica. Il significato e la scelta delle parole sono subordinate alla musica. Così noi cerchiamo un compromesso tra il senso e l’emozione, tra il significato e il suono.

Solo questo?

No, c’è poi un altro motivo per cui scriviamo in inglese, ed è perché è inammissibile che negli anni che viviamo si insista ancora su una sorta di autarchia linguistica: “o italiano o morte” per intenderci. L’Italia musicalmente parlando (e non solo) ha necessità di sprovincializzarsi e, nel nostro piccolo, è in questa direzione che vogliamo muoverci.

Il cd è appena uscito, ci parlate di tutto il progetto?

Anche nel caso del cd dobbiamo parlare di un processo lento, ma inesorabile. Di pari passo con la trasformazione del nostro stile è maturata in noi l’esigenza di fissare i momenti decisivi di questo percorso. A partire dalla prima prova su disco del ’98 CATFISH, in cui era ancora forte l’influenza del blues, passando attraverso il disco registrato live in acustico al teatro Kismet di Bari nel 2003, fino al demo del 2005, per giungere a “DOGHOUSE”, il filo conduttore è più o meno lo stesso come abbiamo già detto. E’ vero che abbiamo uno smisurato amore per un certo tipo di rock, ma è anche vero che la Doghouse è un laboratorio non una prigione, è una fucina di future evenienze, una zona franca e magmatica in cui la forma e il senso possono essere plasmate, modellate, interpretate e mescolate senza freni o limitazioni. Il nostro obiettivo è liberarci sempre più da vincoli stilistici, puntare dritti alle emozioni.

In pratica scrivere canzoni in italiano vi avrebbe limitati? 

L’italiano lo lasciamo a chi sa scrivere canzoni rock in italiano, noi sappiamo scrivere in inglese. Il nostro sound è intimamente legato alla lingua inglese, i nostri ascolti sono in gran parte riconducibili al rock e al blues inglese e americano, la struttura stessa dei brani è concepita per la lingua inglese. E’ una scelta stilistica, le nostre canzoni le pensiamo in inglese.

"Doghouse"Ma che tipo di mercato ha il rock in Italia?

Innanzitutto bisogna intendersi su cosa si vuol dire quando si parla di rock. E di quale mercato si parla. In Italia il mercato del rock si può dire sia diviso in due tronconi. Che fatalmente viaggiano su due binari paralleli e in gran parte irriducibili. Da una parte c’è il mercato del rock di MTV, radio dj e quant’altro, il rock edulcorato, ammorbidito, socialmente condiviso e accettabile, quello che passa in radio, il rock delle major e della grande industria discografica. Che si limita ormai a riprodurre gli schemi e i codici correnti. E non rischia, per timore di rovinare un mercato già abbondantemente in crisi. Dall’altro c’è quello indipendente in cui sorprendentemente possiamo trovare musica originale, scritta in inglese o in qualsiasi altra lingua, che non si preoccupa dei dettami di un’industria della musica. Insomma il rock in Italia un mercato ce l’ha. Però se si vuole entrare dalla porta principale si deve essere disposti ad accettare innumerevoli compromessi che hanno il solo effetto di snaturare ogni buon afflato creativo. Mettendo paletti alla spontaneità e alla libertà espressiva. Se invece si sceglie la porta di servizio allora ci si condanna all’anonimato o nel migliore dei casi, si accetta di essere un fenomeno di nicchia, marginale, senza visibilità e in definitiva, poco significativo.

Tornando a voi, c’è stata una fase in cui voi vi siete esibiti in acustico. Il risultato dal punto di vista di ascolto del pubblico?

Nonostante la nostra anima rock e il nostro bisogno di volumi colossali e di distorsioni roboanti, abbiamo anche una nostra dimensione acustica alla quale teniamo molto. Mai stata marginale nei nostri lavori. Nel tempo, alternando le esibizioni in acustico a quelle elettriche, ci siamo resi conto che il pubblico rispondeva con più calore e più entusiasmo alle prime. Ma abbiamo sempre attribuito la cosa al fatto che probabilmente i contesti in cui ci siamo esibiti erano più adatti a quelle sonorità. Anche se c’è da dire che tutti coloro che ci ascoltano tendono a nutrirsi del nostro entusiasmo che trasmettiamo sul palco.

Qual è la vostra dimensione ideale?

Non esiste in realtà una dimensione ideale ma “un ideale della dimensione”. Se c’è una bella atmosfera, un locale appropriato, in definitiva una buona vibrazione, allora si può suonare qualsiasi cosa in qualsiasi modo. Anche un coro d’alpini può suscitare straordinarie sensazioni, se il contesto è quello giusto. Ma c’è sempre da considerare la variabile: magari il locale è appropriato ma la gente è poco ricettiva, oppure c’è una bella atmosfera ma la location non funziona e così via…. Insomma, come tutto ciò che viene definito “ideale” nel confronto con la realtà qualcosa la si perde sempre. Di fatto siamo un gruppo che trova proprio nel sound elettrificato gli stimoli più forti.

Sul palco energia pura, si sente ascoltando il cd, ma anche brani che catturano l’anima, il vostro messaggio?

Noi vorremmo che chiunque ascolti la nostra musica percepisca l’amore e la passione, l’impegno che mettiamo nel nostro lavoro. Siamo sempre stati convinti che la musica basti a se stessa. Inoltre quando componiamo non abbiamo in testa un messaggio preciso da lanciare; cerchiamo di comunicare come facciamo nella vita d’ogni giorno. Non ci tiriamo indietro quando si tratta di parlarne. Basta scorrere velocemente le canzoni del disco per capire che c’è poco spazio per le spensierate riflessioni sull’amore: si parla della necessità di abbattere le barriere, di smascherare le menzogne e il pregiudizio, della vergogna della schiavitù, della guerra come abominio assoluto. Si parla anche di droga, di esperienze dolorose, dell’ipocrisia di chi gira le spalle alla vita e di chi invece la vita vuole viverla guardandola negli occhi.

Doghouse, titolo divertente per una band che fa rock: ma c’è un significato preciso?

Di nomi ne abbiamo cambiati parecchi. C’è stato un periodo in cui ci siamo incautamente chiamati ”babie’s helicopters” ed un altro in cui abbiamo scelto di chiamarci “catfish” in onore di uno dei nostri numi tutelari Sir Jimi Hendrix. La scelta del nome di una band è sempre un momento altamente drammatico: o ci sono troppe idee e non si sa cosa scegliere o ce ne sono poche e si rinuncia a scegliere in attesa di qualche idea interessante. Nel nostro caso siamo stati aiutati da uno dei più grandi scrittori della letteratura americana ovvero Mr. Raymond Chandler. Il nome doghouse viene proprio da uno dei suoi libri “Il grande sonno”. Ci piaceva l’idea dello pseudonimo di un nome falso che nasconde una storia quanto mai vera. Ci piaceva il suono e il senso dato a doghouse che in inglese significa “canile”. Non un caso. Nel periodo della scelta del nome ci sentivamo un po’ come quattro randagi chiusi in gabbia. Ci piace questo nome, racconta in otto lettere ciò che siamo. Un branco di umani randagi uniti dall’amore per la musica.

Progetti a lungo termine e dove possiamo ascoltarvi?

Per il momento stiamo curando la promozione e la distribuzione del disco, un’impresa piuttosto ardua. In quanto ai progetti a lunga scadenza tra non molto, probabilmente già in primavera, ritorneremo in studio per registrare i brani del nuovo disco. Dovrebbe essere pronto per l’estate prossima, titolo provvisorio “dog only knows”. Quanto alle esibizioni live saremo in grado di fornire un elenco di date che saranno disponibili proprio qui sul web. Mentre di concreto c’è la possibilità di unirsi ad altre band baresi in un concerto, potrebbe svolgersi a Bari al Teatro Kismet, o a Trani allo Spazio off. Garantito ci sarà da divertirsi.

Michele Traversa

Direttore responsabile e Editore di LSDmagazine. Esperto di turismo, spettacolo, gastronomia e tecnologia. Attento alle strategie social media e preparato all'interazione tra gli strumenti che questi offrono e la diffusione dei loro contenuti. Collabora con le principali riviste del settore turistico, italiane e straniere, autore di libri e documentari di viaggio e di mostre fotografiche.