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Se dovessi scrivere questa parola con caratteri minuscoli, scriverei comunque la esse iniziale in maiuscolo. Il Sessantotto è stata una stagione felice e movimentata del secolo scorso. Molti sessantenni di oggi, siamo nel 2009, ne hanno un ricordo particolarmente intenso e gradevole. Alcuni gruppi politici conservatori contemporanei, sotto sotto gradirebbero averne anch’essi uno splendido ricordo, ma, dovendo fare i conti con la loro “moderazione” alcuni, e con la loro precisa volontà di cancellare il senso della storia nelle nuove generazioni, sono diventati i peggiori nemici del Sessantotto medesimo. E’ molto difficoltoso scrivere su questo periodo in maniera distaccata, almeno per me, per cui ho deciso di intitolare questo mio resoconto Il mio Sessantotto.
Si è scritto molto sul Sessantotto, quasi sempre a sproposito, spesso con superficialità, molte volte per sottintesa invidia, raramente con purezza di cuore. Voglio scrivere anche io qualche cosa sul mio Sessantotto, non certamente a sproposito, forse con superficialità, non certamente per invidia, non so se con purezza di cuore, mi piacerebbe molto averne avuta, ora è troppo tardi per autoanalizzarmi al riguardo, di una cosa comunque sono certo: quello che scriverò sarà certamente visto attraverso la mia spocchia e la mia partigianeria, la mia fottuttissima partigianeria della quale mai sono stato tanto fiero come in questi tempi di grandissima barbarie e di difficoltose speranze.
Sono stato testimone diretto del Sessantotto perché in quegli anni ero iscritto alla facoltà di architettura di Venezia. Citerò le date a memoria, quindi è possibile che possa sbagliare qualche data, qualche collocazione temporale di qualche accadimento, ma lo ritengo ininfluente perché non è mia intenzione scrivere una ricostruzione storica di quel periodo temporale non essendo io uno storico. Mi preme invece cercare di descrivere certe atmosfere, certe situazioni esistenziali di quella straordinaria temperie culturale. Quando dico situazioni esistenziali mi riferisco alla mentalità corrente di quegli anni.
Ricordo che una mattina, se non ricordo male era la fine del 1967, iniziò a circolare nell’Iuav di Venezia il resoconto di una telefonata che gli studenti di Milano, forse quelli di architettura, avevano fatto ai colleghi veneziani dicendo loro che stavano rivendicando nuove condizioni di studio, intervenendo sui meccanismi interni dell’Università e nei rapporti fra i prof e gli studenti. Gli studenti milanesi chiedevano una maggior elasticità nel calendario degli esami, una maggior elasticità nei rapporti con i professori e la revisione di molti altri vecchi meccanismi che concernevano la vita universitaria in generale e che la rendevano molto farraginosa e poco elastica. Noi dell’Iuav sorridemmo ascoltando queste richieste perché erano già diversi anni che i rapporti con buona parte dei professori della scuola d’architettura veneziana, erano improntati a grande civiltà, snellezza e comprensione, ciò nonostante ci rendemmo totalmente disponibili a dividere con i colleghi milanesi, e con quelli delle altre università che stavano anch’essi iniziando a protestare, le istanze che ritenevamo assolutamente fondamentali per il buon funzionamento dei meccanismi dell’istruzione d’eccellenza. Come è facilmente intuibile, il ping pong fra le due iniziali componenti universitarie più procedeva e più la progettazione del nuovo diventava giorno per giorno più complessa mentre contemporaneamente il dialogo e il flusso di informazioni si allargavano rapidamente a tutte le altre Università italiane, coinvolgendo un numero sempre maggiore di ragazze e di ragazzi.
Questi grandi mezzi di comunicazione, sotto la regia sottile ma dominante dell’allora maggioranza politica al governo, formata come tutti sanno, o dovrebbero sapere, per la maggior parte dalla democrazia cristiana ed altri piccoli partiti fiancheggiatori, i liberali, i repubblicani, iniziarono a costruire artificialmente uno scenario falso e menzognero nel quale agivano i buoni e i cattivi, i nostri e i loro, esaltando quelli che volevano studiare (la cosiddetta maggioranza silenziosa che pavidamente restava alla finestra) e denigrando quelli che loro (sto parlando dei nemici del movimento, i politici del tempo, i gattopardi dell’epoca) additavano come i giovani degenerati, i diavoli, quelli che, in fondo in fondo, non volevano studiare. Questi ultimi, cioè tutti i protagonisti in prima persona del movimento studentesco, erano invece tutti quelli che finalmente avevano molto faticosamente aperto una finestra sul futuro e che con molta fatica e sudata conoscenza cercavano di chiarire a sé stessi e agli altri il progetto di un mondo diverso e molto più partecipato e, conseguentemente, molto più civile. Il paternalismo, lo affermo con forza è il primo nemico della laicità e, conseguentemente, della democrazia.
Permettetemi, prima di continuare in questa mia personalissima analisi del Sessantotto, di fare un salto nel presente, nel 2009, per fare una considerazione di ordine linguistico e una di ordine comportamentale. Personalmente diffido di tutti quegli opinionisti che utilizzano all’oggi il termine contestazione quando si riferiscono alla protesta contemporanea. Questa parola ha i suoi anni, è indicativa dell’epoca e, con il trascorrere del tempo, è stata caricata di plusvalori in positivo e in negativo che nulla hanno a che spartire con la contemporaneità. All’oggi va benissimo la frase protesta studentesca e il nome Onda con il quale si riconosce l’attuale protesta. Chi usa dunque all’oggi la parola contestazione è dunque un vecchio e un nemico del movimento studentesco.
Ognuno iniziava a costruirsi la sua identità culturale, la sua identità politica, spesso anche in maniera oltremodo gagliarda e talora anche settaria, fatto quest’ultimo che dava luogo a frizioni che forse si potevano evitare; era come una rinascenza in tutti i sensi che portava ovviamente con sé anche connotazioni che potevano diventare negative, bianco o nero, insomma, con tutti i rischi del caso. Non rinnego nulla di tutto quanto fin qui esposto, assolutamente nulla, so benissimo che del buon senno di poi sono lastricate le strade dell’inferno. Un‘altra connotazione di quei magnifici anni era il senso della storia che i sessantottini andavano affinando quotidianamente, mai più visto negli anni seguenti un senso della storia così sviluppato e così presente in ognuno di noi, sia della storia con la esse minuscola che di quella con la esse maiuscola, senso della storia, voglio riaffermarlo, molto vivo e potente in ognuno di quella generazione.
Qui potrebbe terminare questa mia rapida ricostruzione del Sessantotto, ma non avrebbe senso se non mi fossi proposto, quando ho iniziato a scrivere questo brano, non dico di fare delle analogie con quanto accaduto in seguito, quanto di fare delle considerazioni fondate solo su mie personalissime emozioni e dovute solo al mio istinto, alla mia spocchia e alla mia partigianeria di cui ho parlato dianzi, e alla mia lunga esperienza fra i giovani. Chi sta scrivendo queste note, dopo l’esperienza diretta del Sessantotto a Venezia, ha insegnato per diversi decenni nell’Accademia di belle arti di Bari e subito dopo in quella di Venezia, quindi ha contezza del gran continente giovanile del sud e del nord. Senza la frequentazione quotidiana dei giovani la mia vita sarebbe stata molto piatta e assolutamente noiosa.
Ma arriviamo alla protesta studentesca, all’oggi, al 2009. Che differenza c’è fra il Sessantotto e l’Onda? Penso sia assolutamente inutile e fuori luogo fare dei parallelismi, cercare di trovare delle analogie, dei primati, dello somiglianze. Così come nessuna persona civile mai farà il paragone su come baciava il suo o la sua compagna precedente rispetto all’attuale compagno o compagna, così bisogna comportarsi con gli eventi storici che hanno certamente della somiglianze talora anche accentuate, somiglianze comunque diverse perché lo scenario, le situazioni, le condizioni al contorno non sono mai perfettamente uguali alle precedenti.
La mia prima considerazione di fondo è che fra il Sessantotto e l’attuale protesta studentesca ci sono delle differenze fondamentali evidenti: nel Sessantotto non esisteva la facilità e la rapidità dello scambiarsi informazioni che esiste all’oggi all’interno della società contemporanea. La rete, questa straordinaria rete, dà la possibilità di rendere agilissimo e estremamente rapido il fiume di informazione fra tutti gli interessati, altresì dicasi per quanto riguarda l’esistenza dei cellulari. Un fatto del genere dà all’attuale protesta studentesca delle possibilità prima sconosciute, addirittura impossibili nel 1968. Queste sono le grandi innovazioni disponibili e costituiscono la grande novità strumentale dell’intero movimento il quale, proprio per queste ragioni non può più permettersi il lusso di spirare dolcemente un bel giorno, qualunque esso dovesse essere. Diciamo che i frutti della seminagione crescono molto più rapidamente e oltretutto sono in numero molto maggiore. A tutto ciò si aggiunga la presenza nel movimento anche di adulti, di professori, di genitori, di persone che avevano perso la fiducia nel nuovo e che grazie all’onda, stanno rapidamente ritrovando l’entusiasmo per il finalmente “nuovo”. Il movimento studentesco non è più quindi stretto nel proprio ghetto generazionale ma riceve contributi e linfa da diverse generazioni. I nuovi studenti comprendono immediatamente chi è dalla loro parte e chi non lo è, per cui l’operazione di cernita dei contributi forniti da altre generazioni e da altri soggetti sarà agevole e facile, basterà soltanto tenere l’attenzione sempre desta e sempre ai massimi livelli. L’indottrinamento, parola orrenda, con cui i parrucconi codini e ipocriti dell’establishment contemporaneo si sciacquano la bocca, non esiste se non nelle loro menti vecchie e bacate. Ciò che i benpensanti moderati credono, e che cioè i giovani non siano capaci di gestire da soli la conoscenza e i propri metodi per aumentare e migliorare la conoscenza medesima, sarà rapidamente buttato nel cestino della carta straccia. Considerate le nuove tecnologie e i nuovi soggetti sociali presenti sullo scenario contemporaneo, vista la straordinaria varietà di culture (non ho usato il termine diversità, è molto più corretto e più aderente alla realtà usare la parola varietà) forse questa è la volta buona per progettare un futuro di studio molto ma molto più civile e, naturalmente , più aderente ai tempi complessi nei quali noi tutti, bianchi e neri, gialli e rossi, alti e bassi, meridionali e settentrionali, occidentali e orientali, uomini e donne di ogni generazione, ci troviamo a vivere. Se non ora quando?