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Se ci si volta indietro, col capo dritto, si vede L’Aquila capoluogo dell’Abruzzo con i suoi abitanti, i suoi 27mila studenti, le sue attività di commercio, turismo e allevamento. La sua arte, la sua cultura. Se ci si guarda indietro si vede una terra per gran parte montuosa nel mezzo dell’Appennino Centrale, con le sue vallate montane ricche di vegetazione. Si vedono correre i bambini tra i boschetti di pioppi e cerri, tra larici e abeti rossi. Se ci si volta indietro, a prima di quel fatale 6 aprile, si vede la vita in tutte le sue forme e colori. Oggi, a distanza di più di un mese, vediamo città e paesi spettrali, bambini e ragazzi fuggiti sulla costa, campi verdi pieni di ruspe che strappano l’erba, spianano e posizionano ciottoli bianchi, per preparare il terreno a ulteriori tendopoli e container. Ma all’orizzonte un barlume di luce sembra rinvigorire di speranza i cuori: è la promessa delle casette in legno che dovrebbero riparare dal freddo rigido che qua arriva già a fine agosto, è la ricostruzione totale e la ristrutturazione parziale di case e uffici. Tutti sperano ardentemente nella celerità delle manovre, che sappiamo essere un neo importante per il nostro Stato come lo era futilmente per Cleopatra.
Il pullman da Roma si ferma al terminal di Collemaggio de L’Aquila, lassù la villa cittadina è chiusa al pubblico e la strada che la costeggia chiusa al traffico, c’è un poliziotto che piantona. La città è tutta presidiata. E’ questo che non sopportano più gli aquilani e che salta agli occhi dopo la devastazione visibile e tangibile delle case e monumenti oramai per terra in una miscela poltigliosa. La vista strozza il fiato. Prendiamo l’autobus che da lì porta a Pettino, zona residenziale agganciata alla città. Percorrendo “via Antica Arischia” le villette e le palazzine sono una accanto all’altra, in un bell’ordine scenografico, una più desolante di un’altra, nessuna luce si diparte dalle finestre, nessun uscio aspetta con ansia di essere oltrepassato.
Due occhi da gatta ci incrociano. Di un verde-azzurro intenso. E’ Antonella. “Quella notte del 6 aprile, per quei venti-trenta secondi, non lo ricordo nemmeno perché sembrava un tempo infinito, sono rimasta nel mio letto mentre si muoveva in modo ‹‹ondulatorio e sussultorio›› e mentre cadevano libri e suppellettili dalle mensole. Non potevo alzarmi, ero come immobilizzata”. Questa è la storia di Anto, come la chiamano gli amici, un’assistente sociale, che abitava al centro storico de L’Aquila e che ora sta operando a Paganica. La sua casa ha retto, per fortuna, ma è ritenuta inagibile. “Ero già vestita perché da tempo c’erano scosse e ogni notte con le mie amiche facevamo spola dal letto alla macchina, già riempita di coperte, asciugamani e vestiario. Quella notte ero stanca di andare in macchina alla minima scossa, ero stanca di sentirmi dire da tutti che non si poteva prevedere la scossa di grande entità. Così ho preferito rimanere al caldo pensando che: quando dovrà arrivare ciò che deve arriverà”.
E così quella notte è arrivata “la Strega” e ha portato tanto dolore nero per tutti. E ci si chiede, tra rabbia e rassegnazione, il perché di tanta crudeltà. Il perché dell’aver portato via quattrocento vite, la tranquillità, le case, i ricordi di una vita, le aspettative presenti per gli anziani e quelle future per i giovani.
“Finita la scossa sono scesa dalle scale, sei piani di cui non ricordo nulla tranne che il muro mi si crepava dietro mentre scendevo le rampe e che arrivata alla fine il portone non si apriva, battevo ma non si apriva. Da fuori qualcuno ha fatto forza. Si è aperto. Poi dopo qualche ora, quando ero in strada, alcune persone anziane, del condominio dove abitavo, mi hanno raccontato che su loro richiesta ero entrata nella loro casa per prendere scarpe e vestiti, dato che erano nel pianerottolo in mutande, e che le avevo aiutate a scendere e a uscire. Dicono che sono rimasta lucida e calma, ma io non ricordo nulla”. Questo racconto fa capire quanto sia involontario rimuovere o negare un evento, in parte o nella sua totalità. Si resettano dalla mente, per rabbia o per paura o per altro, alcuni momenti specifici, che con il passare del tempo con molta probabilità affioreranno chiari e nitidi. Come nitide saranno le difficoltà per riappropriarsi di una sicura abitazione che abbia il dovere di definirsi tale.
Abbiamo conosciuto Antonella a Pettino, lei fungerà da trait d’union per il lavoro pastorale e di ascolto che svolgeranno nei mesi a venire la Caritas Siciliana insieme alla delegazione Lombarda nella zona di Paganica-Onna. Mentre lei racconta arriviamo appunto a Paganica, dove c’è anche la tenda in cui vive col fidanzato. Notiamo che tutti gli sfollati si danno una mano gli uni con gli altri, i più forti ai più deboli. “Ma sai che – continua Anto – alcune richieste non le puoi soddisfare, non gli puoi ridare la normalità come se niente fosse successo, e proprio in quel momento ti senti impotente”. E’ come in un giro di giostra che fa su e giù in cui a turno tutti sono forti e tutti sono deboli.
E se invece si fa un giro su se stessi si ritrovano tutt’ intorno le montagne e una vegetazione di una rigogliosa semplicità. Il sole ha regnato per quasi tutti i dieci giorni in cui siamo stati in Abruzzo. Sullo sfondo ha sempre brillato il Gran Sasso, da qualsiasi paese, da qualunque angolatura, con la sua imponenza e solennità che si estende per oltre venticinque chilometri . Questa montagna, attraversata da uno smisurato tunnel autostradale, meta ambitissima di Papa Giovanni Paolo II che quando poteva scappava da Roma per ritemprarsi sciando sulle piste di Campo Imperatore, sede nel suo interno del laboratorio dell’Istituto nazionale di fisica nucleare, definita dal poeta Gabriele D’Annunzio – che l’adorava – la “Bella addormentata”, non può rimanere dormiente. “Deve risvegliarsi e lottare, e con essa gli abruzzesi, per continuare ad essere meta turistica, come in passato, per sciatori e appassionati delle alte quote” – ci dice una speranzosa Anna che di inverni qui ne ha vissuti tanti -. La “Bella” deve aiutare questa terra a riprendere in mano un turismo che giorno dopo giorno possa ridiventare fiorente. Deve in un carsico abbraccio, surreale, dare la forza alla popolazione di ribellarsi alle promesse dei politici per pretendere fatti reali sia a breve sia a lungo termine. Insomma questa dama forte, una roccia, dal manto ancora bianco a maggio, grida la eco di non mollare perché vede nel carattere degli aquilani sé stessa che da secoli gli è compagna di giochi, di meditazioni, di lavoro, di una compenetrazione di ideali e obiettivi.
Le foto sono di Stefania Oliveri