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Continua il mio sogno lungo quanto l’Italia. Domenica mattina si parte presto. Raggiungeremo Arezzo, da dove manco da circa vent’anni, e l’occasione è data dal “7° Grand Chapitre”, in Toscana, dei Discepoli di Escoffier. Con mio fratello Sandro, interessato alla manifestazione quale giornalista specializzato in enogastronomia, si viaggia veloci e comodi. Lui al volante, tutto intento alla strada e alla rotta, ed io a contemplare il paesaggio, oppure immerso in eterogenee letture o beatamente sprofondato sul sedile… ad occhi chiusi.

Eh sì, bravo, proprio un sogno o un sonno lungo quanto l’Italia, direte voi con facile ironia.

Se smettete di prendermi in giro, vi spiego ancora che il sogno di cui parlo io è, invece, quello che in me suscitano tanti luoghi e le persone con essi in simbiosi. Strada facendo, ci capita di incontrare e conoscere, un po’ dappertutto, in un ritrovato fervore che dà sostanza e speranza all’Italia, uomini e donne che non hanno mai smarrito o hanno recuperato antichi saperi artigiani, abilità manuali, esperienze, sapori “non omologati”. Gente laboriosa e onesta, con la testa sul collo e, nello stesso tempo, capace di sognare e di far vivere agli altri il proprio sogno. Chi lo fa con la penna o il pennello, chi lavorando la terra, chi preparando una pietanza. Quanto vale tutto questo! Così, a saper ordinare le idee, organizzare il lavoro e comunicare in maniera corretta e coordinata ciò che si fa, può moltiplicarsi, a beneficio di tutti, una ricchezza materiale e immateriale, provocando l’interesse e titillando la fantasia di chi vuol conoscere il nostro Paese e i nostri paesi.

Un piatto preparato col cuore può profumare di storie o di storia, riempirsi di volti e paesaggi; un quadro o un brano musicale può far materializzare il mare o fruscianti campi di spighe; le pagine di un libro o una poesia possono regalare il calore e lo struggimento di grandi camini familiari, aprire la finestra su un’altra stagione, possono favorire l’ascolto della voce della natura od evocare un cibo accostandolo alla fatica degli uomini che, in filiera, lo producono e lo portano sulle tavole ogni giorno.

Il viaggiatore non distratto, quello educato o che educhiamo al rispetto delle persone che incontra e dei luoghi che attraversa, sa cogliere queste sfumature e apprezzare l’osmosi di attività, fra loro, apparentemente diverse e distanti. Egli, nel tempo delle giornate che, anche inconsapevolmente, gli apprestiamo, quando le nostre vite si incrociano, trova il modo di liberare emozioni e riempire mente e polmoni di ossigeno, arte, cultura. Torna a casa felice, con quel pezzo di sogno che gli è stato regalato, un lievito naturale che innesca altri sogni e sospinge a viaggi di conoscenza, non sterili, alla continua scoperta di un territorio generoso e di grande bellezza.

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I DISCEPOLI DI ESCOFFIER CELEBRANO IL CAPITOLO

Alla Fiera di Arezzo ci attende ospitale Roberto Lodovichi, presidente della locale Associazione dei Cuochi e titolare, in Fiera presso il padiglione Redi, dell’Area Lounge Lodovichi, il quale, appassionato di gastronomia storica, è anche autore, con Mario Giorgio Lombardi e Rossana Del Santo, di “Arezzo e le sue vallate, storia, arte ed enogastronomia di un territorio tutto da gustare”, una pubblicazione alla 2^ ristampa, edita dall’A.I.G.S., che, pur lodevole per la ricerca delle ricette della tradizione aretina, avrebbe avuto bisogno di un minimo lavoro di editing.

Lodovichi sovrintende alla materiale organizzazione delle due manifestazioni che si svolgeranno in questi giorni: il XXIII Premio Guido Tarlati e il “7° Grand Chapitre”, per la Toscana, dei Discepoli di Escoffier.

Quella dei Discepoli di Escoffier è una prestigiosa Associazione che, nata in Francia nel 1954, su idea di Jean Ducroux, al quale si sono succeduti, nella carica di presidenti, altri allievi e seguaci di Escoffier (fra questi, Henri Ricottier, Jean-Claude Guillon, Jean-Pierre Biffi e, per ultimo, Régis Marcon), ha assunto ufficialmente, nel 2008, il nome di  “Ordre International des Disciples d’Auguste Escoffier”, essendosi ramificata, nel mondo, in numerose Delegazioni nazionali (Cina, Ungheria, Stati Uniti, Italia, Svizzera, Germania, Spagna, Giappone, Benelux, Canada, Messico, Oceano Indiano, Portogallo, Thailandia, Sudafrica, Brasile, Argentina, Vietnam e Russia) e contando, oggi, più di 25.000 iscritti.

Il rituale dell’intronizzazione, al quale assisteremo, prevede che il nuovo discepolo, ricevuto il distintivo e il diploma, indossi la fascia diagonale rossa con bordi dorati, a cui fa da pendant una padellina di rame, e riceva l’investitura con due tocchi di un mestolo di legno, alternati sulle spalle, mentre viene pronunciata la formula che richiama l’esprit Escoffier e l’impegno solenne di servire e onorare la cucina, la sua cultura e la sua continua evoluzione.

E la sera di lunedì 27 gennaio, come da programma, dopo l’esecuzione degli inni nazionali di Francia e Italia e alla presenza dello chef Philippe Onofri, tesoriere del Bureau internazionale dell’Ordine, giunto appositamente da Parigi, ha avuto luogo la cerimonia di intronizzazione dei nuovi affiliati, tutti professionisti della ristorazione con più di venti anni di onorato mestiere alle spalle.

Il presidente della Delegazione italiana Francesco Ammirati, assistito da Antonio Torcasso, segretario nazionale, ha nominato Discepoli di Escoffier nove chef di Arezzo (Marzia Burroni, Marialuisa Lovari, Erica Romani, Sara Guadagnoli, Ernesta Sandroni, Tiziana Papini, Titi Richard, Agostina Frivoli, Franca Senesi), quattro chef di Firenze (Marco Stabile, Maria Probst, Cristian Santandrea, Saverio Carmagnini), otto chef di Siena (Michele Vitale, Mario Neri, Pierini Stefano, Nicola Masiello, Giuseppe Ferraro, Gennaro Ferraro, Claudio Patella, Nicola Vizzarri), tre chef marchigiani (Marco Checcaccini, Mariano Piccolo, Igor Safonov) e un maestro della cucina marinara pugliese, Vito Angelo Guglielmi di Polignano a Mare (Ba), il quale – parliamo di ciò che sappiamo e tocchiamo – nella sua piccola “Trattoria dal Monaco” riesce ancora a metterti nel piatto pesce freschissimo, sapientemente cucinato, a prezzi da offerta speciale.

Mi ha inorgoglito, ovviamente, anche il riconoscimento che i Discepoli di Escoffier hanno ritenuto di dare, per i suoi meriti di giornalista e gastronomo e di divulgatore della buona cucina, a mio fratello Sandro, che ha ricevuto, durante il Capitolo aretino, la fascia bleu dell’Ordine insieme a Simone Fracassi, un signor macellaio che nella sua Ràssina (mezz’ora da Arezzo) prosegue una tradizione familiare, consegnando ai palati più esigenti, dovunque si trovino, eccellenti insaccati di carne di maiale e il superbo prosciutto Casentino.

Non è la notte di San Lorenzo, ma, alla fine, una stella è caduta ugualmente e si è appuntata sul petto di Mario Giorgio Lombardi; la Stella d’oro è il riconoscimento che i Discepoli di Escoffier hanno tributato al governatore dell’Accademia Italiana di Gastronomia Storica per i suoi “primi” 40 anni di attività al servizio di un’idea di cucina semplice e legata al territorio, da trasmettere, con buone pratiche di insegnamento ed efficace didattica, alle giovani generazioni.

"arezzo9"ESCOFFIER! CHI ERA COSTUI?

Dei Discepoli abbiamo detto. Ma Escoffier? Chi era costui?

Auguste Escoffier (1846 – 1935) nacque a Villeneuve-Loubet, dove oggi, nella sua casa natale, se non sbaglio, vi è la sede centrale dell’Ordine e il museo dedicato al Maestro. Contemporaneo e più prolifico del nostro Pellegrino Artusi, Escoffier è stato un grande cuoco francese, definito, non ricordo da chi, “cuoco dei re e re dei cuochi”, un vero modernizzatore, che, fra gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi trenta del Novecento, portò un’autentica rivoluzione in cucina, razionalizzando la successione delle portate a tavola attraverso la creazione del menu (definito “leccorniosa orchestrazione”) e codificando precise regole dell’arte culinaria e dell’organizzazione del lavoro in cucina e in sala, che imperniò sulla brigata, null’altro che un affiatato team. Le sue intuizioni, le sue regole, la sua filosofia, i suoi princìpi provvide a divulgare egli stesso attraverso numerose pubblicazioni (Le guide culinarie Le livre des menusvolendo fondare la gastronomia come un’arte basata sulla scienza, per dare, senza appesantimenti e stravolgimenti di qualsiasi tipo, il giusto valore al sapore e all’apporto nutrizionale dei cibi.

“La cucina – scrisse – si evolverà al passo della società, senza cessare di essere un’arte”. A lui si deve l’odierna preferenza per una cottura “più dolce” dei cibi, la nascita di una linguistica della cucina e l’uso di una terminologia per addetti ai lavori (chef, saucier, pâtissier, garde-manger, entremettier, rôtisseur sono termini, ad esempio, che delineano precise mansioni o specializzazioni).

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Chi, fra i suoi seguaci, lo conobbe direttamente ha descritto Auguste Escoffier come uomo di grande cuore e altruismo, un uomo che rispetta l’uomo; egli, infatti, nella temperie delle politiche sociali del primo Novecento, curò la formazione dei giovani, invitò a non sprecare, gettandolo nella spazzatura, il cibo che può essere, invece, donato a chi ne ha bisogno; organizzò, alla fine e durante la prima guerra mondiale, una rete di mutuo soccorso per le famiglie dei colleghi che erano al fronte o di lì non erano più tornati; intraprese iniziative filantropiche a favore di orfani e disabili.

Tutto questo fu Auguste Escoffier, il quale, a sua volta, nella ricerca della felicità attraverso il piacere, amava definirsi discepolo di Epicuro (buona vecchia e attuale filosofia passata nel mio abbattitore mentale!) e di Rabelais (l’autore di “Pantagruel e Gargantua”, con il quale ho affinità elettiva, che, con linguaggio colorito e spigliato, messi da parte i temi “alti” si dedicò a quelli “bassi”, ovvero corpo, cibo, vino e sesso, divenendo il maggior protagonista del c.d. Antirinascimento francese).

Non dimentichiamo, inoltre, che, se è comune acquisizione che la buona cucina regala felicità agli uomini (non era questo il tema del zulliano “Appuntamento con la Daunia” dello scorso ottobre, di cui ho riferito nella prima puntata del mio “Sogno”?), per gli Epicurei il mangiare è un piacere naturale necessario, che va assecondato, mentre il mangiare troppo è un piacere naturale non necessario, a cui ci si può concedere qualche volta.

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“Le vie di accesso all’immortalità sono imprevedibili” pare che abbia esclamato il Maestro, che morì a Montecarlo, prima di lasciare questa terra.

Oggi, di Escoffier, i profani ricordano, almeno, la celebre “pesca melba”? Un dessert, creato in onore della cantante lirica australiana Nellie Melba, alla quale il Maestro, grande ammiratore della diva (di cui conosceva i gusti), lo aveva – si dice – personalmente servito in una occasione d’incontro. Ed io, a questo punto, non mi lascio sfuggire l’occasione per dire ai profani golosi come si prepara questa dolcezza.

Occorrono pesche sane e mature, che si lasciano macerare in casseruola con sciroppo di zucchero e che, una volta raffreddate e pelate, si dividono in due, privandole del nocciolo, e si adagiano, dalla parte del taglio, in una coppa già riempita con gelato di vaniglia per poi ricoprirle con purea setacciata di lamponi e altri frutti di bosco (o marmellata) e guarnirle con panna montata o con scaglie di mandorle fresche (o tostate) oppure con caramello.

I Discepoli mi perdonino, ora, se sono incorso in qualche imprecisione e se, pur apprezzando i princìpi trasmessi dal Maestro (Eguaglianza, Trasmissione della conoscenza, Cultura e Innovazione, Generosità e Unità), mi trovo apertamente a dissentire quando colgo, in Escoffier, una nota stridente, ovvero la sua affermazione della “supremazia della Cucina francese”, retaggio dello sciovinismo dei cugini d’oltralpe. Né, d’altro canto, è mia intenzione aprire la strada alla sottile ironia contenuta in “Ratatouille”, bel film d’animazione girato nel 2007, che, variamente ammiccando, non fu molto tenero verso certi vezzi “francesi”. Per il mio modo di pensare, in ogni campo e per ogni cosa, è inopportuno e sbagliato parlare di supremazia, che considero l’anticamera dell’intolleranza, mentre devono aprirsi mente e cuore allo scambio, alla reciproca conoscenza e al rispetto delle culture e tradizioni altrui (per questo motivo, raccomando: scansate le isteriche e gli isterici foodbloggers integralisti e non correte troppo dietro al mito del Km 0, perché quando Maometto non può andare alla Montagna, non è male che la Montagna vada da Maometto).

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PENNE BRUCIATE E LA CUCINA-GIOCO RECITATA COME IN TV

De minimis. A proposito di “Ratatouille”, vi confesso che mi sono divertito moltissimo a calarmi nei panni del topo protagonista della pellicola, quando, preso a tradimento da Mario Giorgio Lombardi, sono stato coattivamente iscritto al Concorso “Penne Bruciate 2014”, presidente l’amico Claudio Zeni.

Zeni, valente giornalista (vincitore del Premio “Apicio” nel 2013), collaboratore del quotidiano La Nazione, esperto enogastronomo e ispettore per la Guida L’Espresso, l’ha pensata proprio bene. Insieme all’A.I.G.S. e all’Associazione Cuochi Arezzo, ha architettato questo Concorso per liberarsi della concorrenza. E che cosa ha pensato? Di costringere i colleghi giornalisti a sfidarsi ai fornelli nella preparazione di un piatto di penne in varie salse, secondo ricette, capacità ed estro personali. Per poi assegnare il Premio, secondo l’inappellabile giudizio di una eroica giuria tecnica da lui capeggiata (involontario masochismo), a chi dei concorrenti ha dato il peggio nella preparazione gastronomica. In questo modo ottiene due risultati o, meglio, prende due piccioni con una fava: brucia le penne dei giornalisti-concorrenti e mette K.O. gli esperti che fanno parte della giuria, bruciando inesorabilmente, per molto tempo, il loro palato.

Indovinate chi ha vinto. Naturalmente il peggiore, ne diamo atto alla giuria: Michelangelo Romano, l’autore di questo articolo, il quale, ricevendo un premio equivalente alla sua prestazione, si è portato a casa il papiro che lo marchia, per sempre, come “primo assoluto” (penna bruciata!), il già citato libro “Arezzo e le sue vallate” e una bottiglia di vino (etichetta O’Lillo Baracchi, igt Toscana, uvaggio di Merlot, Syrah, Cabernet e Sangiovese in parti uguali), che, per di più, dopo aver riposato in auto alcuni giorni a temperatura ottimale (freddo intenso e un accenno di neve) e aver percorso circa 600 chilometri, si è infranta, beneaugurante, sul cancello di casa.

Anche se, a dire il vero, guardando gli altri contendenti all’opera, non ero assolutamente certo di vincere, da parte mia ce l’ho messa tutta per trionfare, interpretando, alla lettera, il tema del Concorso, con una prestazione istrionesca e con un piatto improvvisato sul momento, a cui ho dato il nome di “Penne all’Unipol” perché ho spiegato, rispondendo al “bravo presentatore” Alex Revelli Sorini, che, prima di azzardarsi ad assaggiarlo, è d’obbligo sottoscrivere una polizza assicurativa sulla vita.

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Nonostante tutto, volete la ricetta? Non me la ricordo più bene, ma provo a descriverla. Dunque, innanzi tutto dimenticate o sovvertite qualsiasi regola gastronomica, poi buttate nella padella, a caso e senza un preciso ordine, quello che vi viene a tiro (io ho infilato piselli, salsiccia spezzettata, peperoncini piccantissimi e forse altro), versate olio, acqua e vino senza discernimento e lasciate fare al fuoco e al cuoco che è in voi. Prima che carbonizzi tutto ed evitando di chiedere aiuto ai pompieri (ne va del vostro onore), mi raccomando, aggiungete le penne (ma no, la pasta, non quelle usate come strumenti di scrittura), possibilmente non troppo scotte; per insaporire, fate saltellare il tutto nella padella o, se non siete tecnicamente allenati al corretto movimento di braccio, polso e mano, usate il cucchiaio. Aggiustate di sale e pepe e, cosa più importante, spegnete il fornello, altrimenti ottenete la ricetta di Zeni (penne bruciate). Il piatto, a questo punto, è pronto e può essere servito agli assaggiatori di professione, agli aspiranti suicidi, a chi sta per partire per lo Spazio, a chi del pericolo fa il suo mestiere, a tutti coloro che sono disposti a correre qualsiasi rischio, alle eroiche giurie tecniche.

Mi sembra doveroso riferire, infine, per la gloria, che al mio piatto, sponsorizzato da Unipol Assicurazioni e da altre primarie Compagnie, si sono interessate, proponendomi contratti che sto valutando, la Nasa americana, NaturHouse ed Herbalife International, in quanto una porzione di queste penne, appena la si tocca, tiene lontani dalla cucina per almeno 12 mesi, con benefici effetti sul controllo e sulla perdita del peso corporeo per vie che non ho bisogno di indicarvi e penso immaginiate. Non esagerate, però, perché una simile pratica, a lungo andare, nuoce gravemente alla salute (come il fumo delle sigarette), provoca varie forme di astinenza, può portare all’inedia e, nei casi più gravi, alla morte.

Chissà se, visti gli strabilianti risultati ed essendo già ambasciatore dell’Accademia Italiana di Gastronomia Storica, prima o poi non mi coopteranno anche i Discepoli di Escoffier.

Sono certo, invece, che non potrò mai aspirare alla vittoria (tanto vale non partecipare!) in un altro Concorso gastronomico per giornalisti che viene organizzato a Novoli, in occasione della “Fòcara”. Perché lì le Penne sono “al dente” e gli organizzatori molto rigorosi nel controllo del tesserino professionale. Una volta scoperto, mi sbatterebbero fuori perché io non faccio parte della corporazione dei giornalisti, ma sono semplicemente uno che scrive (e legge). Va anche evidenziato che lì vince, almeno così dovrebbe essere, chi fa meglio (non chi fa peggio), se pure con l’aiuto dello chef che gli viene accoppiato. E poi io, diciamola tutta, sono inguaribilmente solista.

"arezzo7"IL XXIII “PREMIO GUIDO TARLATI” E IL TARLO DEL GRIFO

Il Premio “Guido Tarlati” è stato istituito nel 1991 e viene conferito a chi abbia contribuito a promuovere la cucina tipica della terra aretina, in Italia e nel mondo. Quest’anno è andte, ma il premio le era stato già consegnato dal presidente Lodovichi dell’Associazione Cuochi di Arezzo, durante la diretta televisiva del 24 gennaio. Un giusto riconoscimento è stato tributato anche ad Augusto Tocci (lo gnomo della Prova del Cuoco), Susanna Badii e Michele Fracassi, aretini d.o.c., che della gastronomia aretina erano stati ambasciatori nel corso di numerose puntate del popolare programma televisivo.

Molti esponenti del mondo del giornalismo e dell’enogastronomia, fra i quali il campione mondiale dei sommelier Luca Martini, oltre alle autorità civili e religiose della Città e della Provincia di Arezzo, hanno preso parte alla cena di gala, preceduta dall’aperitivo, servito dal team di Cocktail in the Word, e da un pantagruelico buffet allestito dalle Macellerie Fracassi e Iacomoni, dallo chef Domenico Gregori del ristorante "Il sottobosco" di Badia Tedalda, da Giuliattini Catering, da "La Bottega di Nonna Tina" e da Emanuela Ghinazzi.

Circa 300 persone in giro e sedute ai tavoli. Faremmo un torto, allora, se non mettessimo in luce l’enorme e professionale lavoro svolto dal nuovo team femminile dell’Associazione Cuochi Arezzo composto da Susanna Del Cipolla, Sara Guadagnoli, Marialuisa Lovari, Enrica Romani ed Angelica Segatori con le quali hanno collaborato lo staff di sala e cucina Lodovichi e una bella squadra di allievi provenienti dagli Istituti Alberghieri di Caprese Michelangelo e Capezzine-Cortona. Non si sono tirati indietro, per la riuscita della serata, l’Associazione Italiana Sommeliers, le associazioni “Conoscere l’Olio Extravergine di Oliva” e “Strada del Vino Terre di Arezzo”, la locale delegazione Coldiretti, il Panificio Pierozzi e Dindalini Miele.

Grande soddisfazione per l’organizzazione del Premio hanno espresso, oltre a Lodovichi, che si è soffermato sull’appassionato lavoro di squadra, il presidente vicario della Federazione Italiana Cuochi Giuseppe Casale, Rocco Pozzuolo e Pietro Montone, rispettivamente responsabili degli eventi e delle p.r. della stessa Federazione. Per la valorizzazione dei sapori locali hanno meritato elogi e riconoscimenti anche Susanna del Cipolla del "Ristorante il Goccino" di Lucignano (Ar), per il suo costante ricorso alla “filiera corta”, e Giovanna Semoli della "Osteria da Giovanna" di Arezzo, mezzo secolo dedicato al far buona cucina secondo una tradizione che prosegue con la figlia Giuliana Mattesini e con un cocktail familiare ben riuscito, il nipote Luca Martini in cantina (dove può stare il n. 1 dei sommelier?) e il genero Paolo Martini alla griglia e agli spiedi (conoscendolo, è proprio il caso di dire: carni e funghi con i baffi).

La prossima volta che vengo ad Arezzo, lo giuro, mi fermo all’Osteria da Giovanna, via Anconetana, 164 (località La Pace), sperando di non capitare il martedì e la domenica sera, quando il ristorante è chiuso. E la domenica mattina, qui, per colazione, niente cappuccino, ma trippa, fegatelli e grifi cucinati all’aretina (!?!)

Che sono i grifi? Che sono i grifi? Un tarlo nella mia testa finché non ho avuto la possibilità di documentarmi: sono le parti magre e callose del muso della vitella chianina, che, secondo il ricettario aretino, vengono cotte in umido con cipolla, conserva di pomodoro, vino rosso, chiodi di garofano e timo.

Ho pensato e provato a suggerire: se facciamo in tempo, sulla strada del ritorno, passiamo all’Osteria, ce ne procuriamo una buona scorta e ce li portiamo fino in Puglia, chiusi nell’orcello (equivalente del nostro cugno). Di fantasia in fantasia (ma con quale concretezza!), per analogia mi torna anche in mente, richiamando viaggi lontani nel tempo, sollecitando assopiti languori e rimescolando i succhi gastrici, il morsello catanzarese con la pitta.

Altro che tramezzini nelle aree di servizio! Ma di questi, purtroppo, dobbiamo accontentarci.

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GUIDO TARLATI! CHI ERA COSTUI?

Se non sei aretino, difficilmente sai chi era il Tarlati, quello del Premio, per intenderci.

Guido Tarlati fu, nel 1300, il 61° vescovo di Arezzo, un bellicoso vescovo ghibellino (!), colpito da scomunica (ci pensò Papa Giovanni XXII). Divenuto a vita Signore della Città, fu sodale degli Ordelaffi di Forlì, di Uguccione della Faggiola, signore di Pisa e Lucca, e di Castruccio Castracani, tutti acerrimi nemici dei Fiorentini e dei Guelfi, e spietato avversario della famiglia guelfa dei conti Guidi di Romena, a cui sottrasse, fra i tanti castelli, nel 1324, dopo lungo assedio, anche la rocca di Caprese. Per dare la misura della sua potenza, si racconta che l’imperatore Ludovico il Bavaro volle ricevere dalle sue mani la corona ferrea. Alla sua morte, avvenuta all’età di circa cinquanta anni, dopo essersi riconciliato con il Papato, la Signoria passò nelle mani del fratello Pier Saccone, fino a che Arezzo non cadde sotto il dominio di Firenze, l’antica rivale.

Di un parente di Guido, forse lo zio paterno, tal Guccio o Ciacco dei Tarlati di Pietramala, scrive Dante nel VI Canto del Purgatorio, quando il Poeta (che, quale feditore aveva combattuto con l’esercito guelfo nella battaglia di Campaldino) è circondato da una turba di anime, morti per morte violenta, che lo implorano di ricordarle ai vivi.

Quiv’era l’Aretin che da le braccia / fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte / e l’altro ch’annegò correndo in caccia.

Dirò ancora, visto che ci sono, che l’Aretin è il giureconsulto Benincasa da Laterina, al quale un senese prepotente e smargiassone, quel brutto ceffo di Ghino di Tacco (a chi state pensando?), tagliò la testa per una sorta di faida familiare, e che l’altro ch’annegò è, per l’appunto, individuato come il Tarlati, il quale morì annegando nell’Arno, forse nella battaglia di Campaldino, mentre cercava di sfuggire ai suoi inseguitori dell’altrettanto potente casata guelfa aretina dei Bostoli.

Ma qualcuno, che non sia aretino, mi chiederà: ma che c’entra il Tarlati con questo Premio gastronomico che viene assegnato dal 1991? Ci spiegano che il Vescovo-Conte, oltre che lesto di mano, era pure lui un cultore della cucina ed “ha lasciato in eredità ai cuochi aretini” molte ricette, fra le quali spicca la “zuppa di pollo del Tarlati”, che non poteva mancare nel menu della cena di gala e che, comunque, ha originato un’altra aperta contesa per la primogenitura, con… i Francesi, i quali, figurati se non era così, chiamano la ricetta “Zuppa di pollo alla francese”.

Poiché la “zuppa di pollo del Tarlati” fu definita dispensatrice di felicità superrime, non possiamo esimerci dal riportare la ricetta, ripresa, alzo le mani, da Taccuini storici, testo di Shady Hasbun:

Ingredienti per 4 porzioni

1 pollo – 2 cipolle – 1 carota – 1 gambo di sedano – 100 ml di panna fresca – 60g di burro – 1 cucchiaio di farina – 2 chiodi di garofano – alloro – sale – pepe.

Preparazione

Maneggiare il burro con la farina e rosolarlo in una pentola. Unire circa due litri d’acqua lentamente per evitare grumi e aggiungere il pollo, con il sedano e la carota a pezzi, la cipolla picchettata con i chiodi di garofano, e l’alloro. Salare e pepare. Cuocere a lungo finché la carne non tende a staccarsi dalle ossa. Filtrare il brodo e spolpare il pollo eliminando la pelle e i tendini. Tagliare il petto a fiammifero e tritare finemente il resto della carne. Irrorare la carne con la panna e versare il brodo. Portare ad ebollizione la zuppa per cinque minuti e servirla ben calda con crostini di pane tostato e parmigiano.

Mah, il brodo non è il mio forte!

COL NASO IN ARIA PER AREZZO, IL CASENTINO E QUALCHE ALTRA"arezzo11" CURIOSITA’

Ci resta una mezza giornata. L’amico Zeni, che ci aveva promesso di farci da cicerone, si è imboscato. Giriamo più volte sulla piazza Guido Monaco alla ricerca di un parcheggio, il più possibile vicino al centro storico. Dal suo alto basamento ci sorveglia, con sguardo severo, l’effige marmorea di Guido d’Arezzo, a cui la piazza è intitolata. Il monaco benedettino fu l’ideatore, intorno all’anno 1000, della moderna notazione musicale, del primo solfeggio e del tetragramma e si dice che, forse a causa dell’invidia dei suoi confratelli, lasciò l’Abbazia di Pomposa per trasferirsi nella città toscana, che vantava una fiorente schola cantorum, legando ad essa, per sempre, il suo nome.

Ce ne andiamo da soli, col naso in aria per Arezzo. Un po’ a vanvera, un po’ seguendo i suggerimenti della guida cartacea che ci siamo portati dietro. Passiamo davanti alla Basilica di San Francesco, al cui interno, nella Cappella Bacci, è conservata la “Leggenda della Vera Croce”, forse il più famoso ciclo di affreschi di Piero della Francesca e dell’arte rinascimentale. Proseguiamo per corso Italia, dove si erge la facciata romanica e il colonnato della Pieve di Santa Maria, con la raffigurazione del ciclo dei Dodici Mesi. Arriviamo, infine, passando per il Canto de’ Bacci, nell’ariosa Piazza Grande, a cui fanno da corona il bel Loggiato del Vasari e il Palazzo della Fraternità dei Laici, che in una lunetta della facciata ospita la “Madonna della Misericordia” di Bernardo Rossellino. Non può che venirti in mente il film “La vita è bella” di Roberto Benigni e la musica dolce che accompagna la scena girata qui.

Non ce la facciamo a raggiungere il Duomo, dedicato a San Donato e le cui sette finestre cinquecentesche sono considerate un capolavoro dell’arte vetraria. Sappiamo che all’interno, oltre al sepolcro del Vescovo Tarlati, ci sono un altro affresco di Piero della Francesca (“La Maddalena”) e le celebri terrecotte policrome invetriate di Andrea della Robbia. Resta fuori del nostro itinerario anche la Casa di Vasari, da lui costruita nel 1540, in cui ricordo di essere entrato una ventina di anni fa.

In Piazza Grande, dove sostiamo, il penultimo sabato di giugno (in notturna) e la prima domenica di settembre, si svolge quello che ritengo il più suggestivo torneo cavalleresco d’Italia, la Giostra del Saracino, una rievocazione storica di antiche origini con consolidati rituali (giuramento dei capitani, sorteggio dell’ordine delle carriere), cortei in costume medievale, musici e sbandieratori. Per conquistare l’ambita “Lancia d’oro”, si affrontano, secondo regole codificate, i quartieri cittadini di Porta Crucifera, Porta del Foro, Porta S. Andrea e Porta S. Spirito; dopo la lettura della sfida a “Buratto, re delle Indie”, i quartieri mettono in campo, armati di tutto punto, due cavalieri ciascuno, i quali corrono, lancia in resta, le loro carriere contro il roteante simulacro del Saracino, cercando di colpirne lo scudo in modo tale da assicurarsi il maggior punteggio, senza subire penalizzazioni ed evitando di essere colpiti dal flagello del fantoccio.

Ci ripromettiamo di tornare, magari per assistere al certame, conoscere meglio la città e, perché no, esplorare tutti gli intatti borghi medievali intorno e la Valle del Casentino, luogo di grande spiritualità, dove hanno pregato San Romualdo (Camaldoli) e San Francesco (La Verna). Il Casentino è parte del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna, una distesa lussureggiante in cui fa da padrone l’abete bianco. In questa terra le tradizioni sono sempre state salvaguardate ed è, appunto, la cura degli uomini che ha permesso di tramandare fino ad oggi la lavorazione del panno Casentino, l’artigianato del legno, della pietra e del ferro battuto, la produzione della melata di abete o del miele di castagno, la preparazione di prodotti straordinari come il prosciutto del Casentino e il raviggiolo, un tipico formaggio, a pasta molle o semidura, di latte vaccino o ovicaprino, che viene avvolto in foglie di felce, fico o cavolo e si consuma fresco fra ottobre e marzo.

Affacciandoci su via Borg’unto, abbiamo solo il tempo di sbirciare nelle due affollate vetrine della piccola Bottega antiquaria di Gianni Rossi, dove trovate di tutto, dai rugginosi attrezzi e strumenti ai paioli di rame, al ferro battuto e alle palle di cannone o colubrina, dal giocattolo d’epoca alle vecchie riviste, dai fumetti ai libri antichi. Contrattiamo qualche acquisto e poi, è ora di pranzo, raggiungiamo il Ristorante “Antica Fonte” al n. 18 di via Porta Buia. Un desinare davvero appagante: gnocchi al tartufo ottimamente mantecati, pici al ragù di anatra in bianco, da farti uscire di testa, ossobuco dimenticato, peposo di gusto e naturalmente una bottiglia di Chianti, per l’esattezza “Lo Sterpo”, etichetta della Tenuta Vitereta, maturato 12 mesi in botte, un riflesso intenso di color rubino che si presenta al naso e al palato con una struttura pulita e armonica, in cui prevalgono nette note di marasca.

Non avevo mai assaggiato il peposo, una pietanza con una sua storia, creata dai fornacini (gli addetti alla cottura dei mattoni) che avevano pensato, per i loro appetiti robusti, di approntarsi il pasto mettendo a cuocere per lunghe ore, in un angolo della fornace, un tegame di coccio riempito con muscolo di chianina a pezzi, pepe nero macinato o a chicchi, spicchi d’aglio, fette di pane, salvia e rosmarino, il tutto affogato in un buon litro di Chianti. E il merito della buona riuscita della cupola della Cattedrale di Santa Maria in Fiore pare che vada, oltre al Brunelleschi, anche al peposo, di cui facevano quotidiano e largo consumo, fra abbondanti bevute di vino, le maestranze duramente impegnate nella mirabile costruzione.

Quanto ai pici, una specie di corti e larghi spaghetti fatti a mano (“appiciati”), non ne avevo mai mangiati di così buoni e non mi riferisco al superbo intingolo con cui erano conditi; la giovane e simpatica contitolare dell’Antica Fonte, sentiti i miei elogi, mi svela che li “appiccia” (impasta) lei con acqua e farina di qualità, aggiungendo un uovo, cosa che fanno in pochi, su un chilo di farina. Ma, con ferma cortesia, non cede alle mie insistenze di acquisto. Forse ha ragione, quei pici si mangiano qui e in nessun altro posto.

TRE ARTISTI PRESI A VOLO D’UCCELLO

Non mi sono neppure fatto mancare un giro per il salone dell’esposizione “Chimera Arte Arezzo”, allestita, negli stessi giorni, in Fiera. Arezzo è viva e stimolante, come tutta la Toscana, anche per la presenza di questi fermenti artistici mai assopiti e coltivati con veemenza.

Con il mio intuito ho subito selezionato, a volo d’uccello, tre interessanti artisti: Andrea Roggi, Sara Lovari e Laura Serafini.

Il primo è uno scultore di Castiglion Fiorentino (1962) che si è fatto promotore del movimento “Arte per i Giovani” e che, con Alessandro Neri, ha fondato, nel 1997, il “Parco della Creatività”, dove ha collocato il suo monumento al concittadino Roberto Benigni (nato a Manciano La Misericordia, frazione di Castiglion Fiorentino) ed altre sue voluminose sculture. Il bronzo, a cui conferisce particolari patine e colorazioni, e la fusione a cera persa non hanno segreti per lui. Si ingegna a modellare globi e sfere-groviglio-di-corpi, che, a volte, germogliano diventando olivi-simbolo, oppure a fondere snelle figure che si librano nell’aria, abbracciate o tenendosi strette per mano, appese a sottili fili o lingue di metallo. Aspirazione alla pace e alla pulizia del cielo; per gli uomini tutti testimonianza e affermazione delle comuni radici. Non di rado le sue opere, conquistato il baricentro, girano su se stesse per forza di inerzia, appena le si imprime il movimento di rotazione, riempiendo lo spazio in perfetto e miracoloso equilibrio.

Sara Lovari, nata a Poppi (1979), ha seguito un personale ed eterogeneo percorso di studi e, da autodidatta, nel 2007, ha avviato d’istinto sperimentazioni polimateriche, avvalendosi della tecnica dell’acrilico, della monocromia (bianchi, grigi, ocra) e del collage. Piega al suo racconto, che si svolge sul filo della memoria, degli affetti familiari e del viaggio, materiali e oggetti di recupero (scatole, cartone, stoffe, foglie), che, a volte, utilizza per creare situazioni e installazioni di stampo concettuale. Mi piace il suo modo fresco di narrare, di intessere un silenzioso dialogo fatto di segni e delicati ammiccamenti, di proporre, con originalità, il mondo degli affetti, affetti lontani, persi, smarriti.

Laura Serafini, nata in Casentino (1965), mi ha colpito per il suo pulito grafismo e, in qualche modo, chissà perché, mi ha ricordato l’opera del grande Eugen Dragutescu, l’amico scomparso nel 1997, che, da Maestro, disegnava e incideva con nervosa sensibilità. Un interminabile tracciato di linee e un viluppo grafico sorprendente, quello della Serafini, a comporre un labirinto segnico ed esoterico, che si combina con una figurazione preziosa e vibrante di corpi sui quali – è la mia lettura – il destino sembrerebbe aver già inciso i reticoli e i punti per i quali passa e, liquida, defluisce la nostra vita, fra tappe, soste, partenze, ripartenze, arrivi. La cifra stilistica dell’artista rimanda a un intimismo elegante e raffinato, certo non rappresentativo delle banalità della vita, ma ispiratore di rarefatta poesia, per cogliere il senso ultimo e i veri valori dell’esistenza, con esplorazioni profonde dell’animo umano e dei suoi turbamenti.

Mi porto via il suo biglietto da visita, a forma di segnalibro, con un bell’apologo stampato sul retro, e lo riporrò fra le pagine del libro che ho sottomano per ricordare a me stesso, ogni giorno, quello che davvero conta nella vita (un barattolo vuoto da riempire, nell’ordine, con palle da golf, palline di vetro, sabbia e caffè) e quali siano le priorità (ossia, le palle da golf), perché, come afferma il professore-filosofo dell’apologo, tutto lo spazio che resta (dentro il barattolo, dopo aver messo anche le palline di vetro) non è che sabbia, anche se c’è sempre posto… per un paio di caffè con un amico.

Michele Traversa

Direttore responsabile e Editore di LSDmagazine. Esperto di turismo, spettacolo, gastronomia e tecnologia. Attento alle strategie social media e preparato all'interazione tra gli strumenti che questi offrono e la diffusione dei loro contenuti. Collabora con le principali riviste del settore turistico, italiane e straniere, autore di libri e documentari di viaggio e di mostre fotografiche.