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"SimonettaNel 1979 Simonetta Agnello Hornby fondo’ Hornby & Levy , uno studio legale nel quartiere di Brixton che si specializzò nel diritto di famiglia e dei minori. Hornby & Levy fu il primo studio d’Inghilterra a creare un dipartimento riservato ai casi di violenza all’interno della famiglia.
Il romanzo d’esordio La Mennulara, bestseller tradotto in dodici lingue, ha ricevuto il 7 giugno 2003 il Premio Letterario Forte Village; nello stesso anno, ha vinto il Premio Stresa di Narrativa e il Premio Alassio 100 libri – Un autore per l’Europa, ed è stato finalista del Premio del Giovedì "Marisa Rusconi". Simonetta Agnello Hornby e’ membro onorario dell’Accademia Apulia UK.

Simonetta, in base alla sua esperienza in giustizia minorile, come si spiega il fatto che gli autori di gravi reati siano sempre più giovani?

La vita media si sta allungando, e quindi ci si aspetterebbe che alcuni eventi accadano più tardi nella vita, come ad esempio fare figli; ma esiste un paradosso in tutto questo: consentiamo ai giovani di conseguire determinati traguardi in eta’ sempre più giovane, come ad esempio il diritto di voto dato ai 18 anni, rendendoli più maturi, enfatizzando, così, i loro diritti e la loro indipendenza.
La vita diventa sempre più lunga e di conseguenza diventiamo vecchi molto più tardi, al punto che è offensivo dire a qualcuno “sei vecchio!”. Direi, quindi, che in questo contesto, gli adolescenti hanno più libertà di fare a quindici anni ciò che avrebbero fatto a vent’anni anni, e di conseguenza, anche commettere crimini. I bambini non commettono crimini, sono gli adolescenti che delinquono, e tanto più grandi pensano di essere, tanti più crimini commettono.

E per quanto riguarda il concetto di pena, può essere questa intesa come una riabilitazione?

Come posso definire la pena? La società deve proteggersi dai crimini della gente, e se qualcuno ruba, bisogna far sì che torni a rubare, quindi, esiste il deterrente della condanna, ma c’e’ anche la riabilitazione e l’incoraggiamento a non reiterare. L’equilibrio e’ difficile da mantenere, e ci sono correnti di pensiero discordanti. Io personalmente credo nella necessita’ di una condanna, anche se sono convinta che nessuna pena favorisca la società se questa non e’ direttamente collegata con la riabilitazione e l’insegnamento ad agire diversamente affinché i giovani non commettano di nuovo gli stessi errori. Deve esserci un connubio tra le due pratiche.

AI Hornby e Levy, fondato nel 1979, e’ stato il primo studio legale in UK che abbia istituito un dipartimento dedicato agli abusi intrafamiliari. Cosa ha ispirato questa decisione?

A quel tempo eravamo uno studio che offriva assistenza legale alle classi più povere della società in una varietà di vertenze: penali, civili, e di abusi intrafamiliari. Il mio lavoro si e’ concentrato su quest’ultimi. La mia collega, Marcia Levy, che adesso è il Giudice Levy, si e’ occupata delle cause penali e di una parte di quelle civili, ed e’ stata una sua idea quella di dedicare una sezione alle violenze domestiche. Siamo state le prime nel paese e ne eravamo entrambe orgogliose. E’ stato difficile, all’inizio, poiché dovevamo formare le persone con cui lavoravamo affinché potessero adempiere le nuove procedure. Ad esempio, abbiamo dovuto prendere accordi con i giudici in modo che, se avessimo telefonato prima delle 11:00, ci avrebbero concesso un’udienza in giornata. Abbiamo, anche trovato un accordo con i servizi sociali aiutando le persone che ci avrebbero mandato, se queste fossero venute prima di un certo orario. E siamo state orgogliose di ricevere tutti i clienti che venivano prima delle 11:00 e riuscire a portarli in tribunale alle 14:00. Infine, l’ironia della sorte ha voluto che quando abbiamo cercato un avvocato che si occupasse specificamente di questa parte del lavoro, il miglior candidato che si è presentato è stato un uomo e tutte le femministe sono state furiose con noi, ma lui era il migliore per questo lavoro.

Crede che, oggigiorno, esista un modo migliore per prevenire l’abuso minorile?

Credo che non esista nella storia una legislazione che abbia contrastrato appieno gli abusi minorili, e questi esistono da sempre. Credo, tuttavia, che si possano trovare dei modi migliori per gestirli. In Gran Bretagna, si è cominciato a renderli pubblici negli ultimi 50 anni, e in altri paesi, come l’Italia, sono stati manifestati addirittura dopo. Quindi, siamo pionieri in materia di prevenzione, accertamento e individuazione degli abusi sui bambini ma, i nostri metodi vanno migliorati. Ad esempio, penso che molto spesso puniamo duramente il partner di chi commette l’abuso, costringendolo ad accettare la colpevolezza di qualcuno che non e’ stato ancora condannato, come prerequisito per lasciare i bambini con quella persona. Penso che sia duro e crudele per i bambini.

Pensa che il sistema giuridico britannico protegga abbastanza i minori?

Credo che si faccia molto. In termini di assistenza e protezione dei bambini, almeno sulle carte, il nostro sistema e’ il migliore del mondo. Il “Children Act 1989” e’ una legge eccezionale. Devo pero’ dire che, attualmente, a causa dei tagli sulle spese e di un numero sostanzioso di problemi, fondamentalmente legati alla scarsa morale dei servizi sociali e all’aumento degli stessi assistiti , si sono generate delle inefficienze nel sistema. Ad esempio: uno dei compiti del tribunale sarebbe quello di nominare un tutore per ogni minore entro 4 settimane. Ma a volte capita che si arrivi a giudizio senza la presenza di un tutore. E’ inaccettabile. O ancora: in molti casi ci sono quattro, cinque, sei assistenti sociali che, nell’arco di un anno, si occupano di uno stesso bambino o di una stessa famiglia. Questo comporta che, ogni volta, le persone debbano ripetere al social worker di turno problemi spesso difficili da confidare. Così viene meno il tentativo di costruire un rapporto di fiducia che dovrebbe essere invece vitale nel lavoro di un assistente sociale. Le persone che hanno già una bassa autostima, così la perdono completamente. Non c’è dubbio, quindi, che esistono ancora delle falle nel sistema.

"SimonettaMa sono i finanziamenti il cuore del problema?

Non solo. Secondo me il vero problema è la professionalità. Ovviamente, i finanziamenti sono essenziali, ma non direi che sono il cuore del problema. Si possono investire un sacco di soldi ma se non hai persone competenti, che si dedicano completamente a ciò che fanno, è tutto inutile.

Dati i suoi successi letterari, pensa che un giorno potrebbe dedicarsi alla scrittura a tempo pieno?

Spero di no. Sono diventata scrittrice all’età di 55 anni, e scrivo da 10 anni. Mi piace scrivere, ma non piace ciò che gira intorno al mondo dell’editoria. Non mi piace lasciare Londra per viaggiare, perché lascio i miei amici, la mia famiglia e il mio lavoro.

Come madre e come avvocato, ci devono essere stati momenti critici con i clienti più giovani. Come fa a mantenere una distanza emotiva dai casi che segue? È possibile porre dei confini?

Non solo penso sia possibile, ma soprattutto necessario. Non ci sono differenze tra le emozioni che un individuo può provare, che sia madre o meno. Secondo me è un’idiozia che solo le madri capiscano i problemi dei figli. Secondo me, chiunque, pur non avendo figli ma con una preparazione e una sensibilità sufficiente, può provare empatia e capire i problemi altrui: non e’ affatto vero che per capire una vittima di stupro uno debba essere stato stuprato. Non ha senso. Può succedere, tuttavia, che come madre, tenda ad immedesimarmi nelle situazioni: ad esempio, mi capita di pensare ai miei figli quando discuto certi casi. Per esempio, uno dei miei figli si succhiava il pollice, lo fa ancora in verità. Ma quando mi e’ capitato, di andare in giudizio e di sentire uno psichiatra dire che questo e’ indice di infelicita’: ho immediatamente pensato, “Dio, cosa ho fatto ai miei figli”.
Penso che per essere un buon avvocato, si debba riuscire a capire i clienti senza entrare troppo in confidenza con loro, senza farsi prendere dai loro problemi. Mentre lavoro sono una professionista, sono pagata per quello che faccio e ho il dovere di farlo al meglio.
Non siamo pagati per essere simpatici e gentili. Il nostro lavoro implica l’essere comprensivi, ma senza mettersi allo stesso livello del cliente, non è il nostro ruolo. Dobbiamo essere comprensivi ma non siamo lì per diventare loro amici. Anche per questo, ai miei clienti do sempre del lei – giusto perché non abbiamo l’impressione che siamo amici, perché non lo siamo.

Nel romanzo “La Marchesa” si racconta la storia di sua zia che fu trattata come un’estranea dalla sua famiglia. Questo e’ un tema ricorrente nel suo lavoro d’avvocato – molti dei suoi clienti si sentono come stranieri. Quando dalla Sicilia e’ venuta a Londra ha provato emozioni simili?

No, affatto. E ne sono stata sorpresa. Non mi sarei mai aspettata di ambientarmi così facilmente qui in Gran Bretagna. A dire il vero, mi sentivo molto più straniera in Sicilia, a casa mia. Vengo da una famiglia borghese, il che significa che avevo 11 anni quando sono andata a scuola perché avevo un’insegnante privata che veniva a casa dalle 7.30 alle 8.30 del mattino, e questa è stata tutta la mia istruzione per 5 anni. Ero diversa dagli altri bambini, e non mi piaceva. Non che fossi infelice perché mia madre era adorabile: facevamo un sacco di cose, leggevamo, dipingevamo, ma mi sarebbe piaciuto essere come gli altri bambini. Ogni anno passavo 2 settimane in una scuola in modo da poter abituarmi ad incontrare gli altri bambini e prepararmi per gli esami che dovevo sostenere. È stato terribile voler essere come gli altri senza poterlo essere.

"SimonettaNei suoi libri ci sono spesso parole in siciliano che arricchiscono il racconto, ma pensa che la traduzione renda giustizia ai suoi libri?

Innanzitutto, non uso le parole in siciliano per ‘arricchire’ il racconto, ma solo perché non conosco il corrispondente italiano. È un problema d’ignoranza. Per esempio uso spesso la parola dialettale “taliata”, che significa più o meno “guardare”, perché non so come rendere in italiano il significato che io credo che questa parola abbia. Per quanto riguarda le traduzioni, il lavoro di traduzione spetta solo al traduttore. Ognuno ha il suo metodo, ma il testo originale resta tale. Nessuna traduzione può rendere completamente giustizia al testo originale agli occhi dello scrittore, ed è giusto che sia così. Quando studiavo latino e greco ho letto l’Iliade in greco, ma prima di allora l’avevo letta e studiata in italiano, nella traduzione di Monti. Leggendo i due testi mi accorgevo che erano diversi.

Camera Oscura e’ il suo nuovo romanzo. Cosa ha ispirato questo libro?

Si tratta di un racconto breve, più che di un romanzo. È il primo libro che scrivo senza una ispirazione personale. È successo che ho ricevuto una telefonata da Eileen Romano, l’editore di Skira. Mi disse che avevano appena iniziato una piccola collana di romanzi ispirati a ritrattisti, artisti, scultori e fotografi. Ha pensato a me per scrivere uno dei libri della collana. Si tratta di una storia che riguarda Charles Dodgson, alias Lewis Carroll l’autore di "Alice nel paese delle meraviglie". L’editore aveva alcune lettere scritte da Charles Dodgson ad una famiglia le cui figlie erano state fotografate dallo stesso Dodgson, sia vestite che nude.
Eileen Romano mi disse che pensava potessi essere interessata da questa storia e in effetti lo fui moltissimo. In un certo senso questo è il mio primo lavoro su commissione.

Finora ha scritto quattro libri di successo. Qual e’ stato il più difficile da scrivere?

Sicuramente La Marchesa perché era ispirato alla vita di una mia prozia. Ho reso pubblici degli aspetti negativi sia miei che della mia famiglia. Ho parlato del torto che le fu fatto, poiché era vista come “una” diversa da tutta la mia famiglia. Aveva i capelli rossi, non sappiamo se fosse gay o no, dicevano avesse un aspetto mascolino, era grossa e dicevano sembrasse una contadina. Cucinava, puliva e andava a cavallo. Mi ricordo che pensavo che fosse sbagliato che fosse trattata così male, anche perché veniva anche tradita dal marito. Lasciò persino tutti i suoi averi alla mia famiglia. Pensavo di no poter vivere con questa ingiustizia in famiglia, e poi è successo che un giorno e’ come se lei fosse tornata nella mia memoria e mi avesse chiesto “scrivi la mia storia.” E io l’ho fatto.

Quale dei suoi libri e’ più vicino al suo cuore?

Sempre La Marchesa. Le cose più difficili da portare a termine sono sempre quelle che alla fine si amano di più.

Quale dei suoi libri ritiene potrebbe essere proiettato sul grande schermo? E quale di questi vorrebbe vedere sul grande schermo?

Può sembrare una risposta scontata ma in realtà quando scrivo un libro, lo immagino sempre come un film. Non riesco a scriverlo se non lo visualizzo con le immagini. Quindi sono tutti film per me. Ad esempio, La Mennulara, era decisamente un film per me e solo dopo è diventato un libro. Quale mi piacerebbe vedere come la storia di un film? Onestamente non lo so. Forse l’ultimo che ho scritto, ma credo che questa scelta sia dettata più dal desiderio di condividere la mia idea sul libro con gli spettatori. In realtà, i diritti de “La Mennulara” sono stati venduti alla Darwin Productions, quindi è possibile che diventi un film.

Dott.ssa Agnello Hornby la ringrazio per averci dedicato il suo tempo. L’ultima domanda. Qual e’ il suo messaggio per i giovani che sono alla ricerca della loro strada?

Il lavoro e’ fondamentale: oggigiorno è difficile trovare lavoro ed è praticamente impossibile, seppure si trovi, mantenerlo per tutta la vita come avveniva in passato in Italia ma anche in Gran Bretagna. Penso che ci si debba avvicinare al mondo del lavoro pensando sempre a come trarne il meglio e mettendoci sempre il massimo impegno, anche se si è l’ultimo impiegato dell’azienda. Bisogna lavorare come se fosse la propria azienda. Bisogna lavorare duro. Sono stata impiegata 4 volte nella mia vita, e poi ho avviato una società mia, ma ho sempre agito come se fossi io il mio capo e come se l’azienda fosse la mia. Spesso sono stata anche molto sfrontata, tanto da andare dai miei capi a dire la mia su quello che pensavo fosse sbagliato, o che poteva essere fatto meglio etc. O a volte facevo presente che qualcuno si prendeva pause pranzo troppo lunghe e cose simili. Probabilmente i miei colleghi mi avranno odiata, ma ho sempre agito pensando che fosse la cosa migliore da fare sia per l’azienda che per me.
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Michele Traversa

Direttore responsabile e Editore di LSDmagazine. Esperto di turismo, spettacolo, gastronomia e tecnologia. Attento alle strategie social media e preparato all'interazione tra gli strumenti che questi offrono e la diffusione dei loro contenuti. Collabora con le principali riviste del settore turistico, italiane e straniere, autore di libri e documentari di viaggio e di mostre fotografiche.