Tempo di lettura: 8 minuti

"tommy_dibari1"La penna di Tommy Dibari si slega dalla longeva collaborazione con Fabio Di Credico, co-autore dei primi due romanzi (“La cambusa: storia d’amore e di altre malattie” – Rizzoli, 2007 e “Non ho tempo da perdere” – Cairo Editore, 2012), per dar voce, attraverso la scrittura, ad una vicenda personale ed intima, racchiusa fra le delicate pagine del suo ultimo libro “Sarò vostra figlia se non mi fate mangiare le zucchine”, edito da Cairo Publishing.

L’autore barlettano invita il lettore ad entrare in punta di piedi nella sua parabola d’amore più grande, quella che lo ha visto rinascere per tre volte a nuova vita: dapprima come figlio, poi come marito ed infine come padre. Ne ripercorre con grazia e tatto ogni passaggio, prendendo per mano il suo pubblico e accompagnandolo nei meandri del suo sentire, sino all’emozione più intensa: la paternità. Il sottotitolo del romanzo è “Storia di un’adozione” ma, sfogliando le sue pagine, risulta quasi inevitabile concludere che si tratti piuttosto della “Storia di un amore”, l’amore cieco e incondizionato che solo un genitore può nutrire nei confronti di un figlio. Tre donne nel libro che tessono le trame dei moti del cuore dell’autore: una madre che è un pilastro e un impareggiabile punto di riferimento e "tommy_dibari5"riparo, una moglie con cui condividere gioie e sofferenze come in un unico e solido flusso di emozioni sostenendosi a vicenda negli impervi sentieri che la vita ci riserva. Infine, ma non in ultimo, una figlia. Una bambina tanto attesa che arriva ad arricchire e a donare un nuovo senso alla propria esistenza. “Sarò vostra figlia se non mi fate mangiare le zucchine” si potrebbe azzardare a definirlo la gestazione di un amore, seguita passo dopo passo, in un sofferto peregrinare tra cliniche e tribunali, senza mai perdere la fede sino all’agognato arrivo della piccola Martina. All’interno del libro, fra le sue pagine, è possibile ritrovare e riconoscere il Tommy Dibari autore e uomo. Ad un impianto narrativo che ricorre all’utilizzo della forma diaristica ed epistolare, le due tecniche più intime di scrittura, corrisponde un contenuto trattato con delicatezza e leggerezza, che fluisce al ritmo dei sentimenti dei suoi personaggi, come è dovuto ad una storia che si concluda nel più felice dei modi. Un happy ending che, in realtà, coincide con l’inizio della narrazione stessa, procedendo poi a ritroso nel racconto della vicenda. Altrettanto felice anche l’accoglienza da parte dei lettori che con facilità si sono immedesimati nei panni dei protagonisti del libro in un empatico legame emozionale.

Abbiamo incontrato Tommy Dibari per porgli qualche domanda sul suo romanzo. Davanti a noi lo scrittore e l’uomo, due facce di una stessa medaglia che inevitabilmente tendono a confondersi. Tra le parole del professionista è difficile non riconoscere il calore dell’uomo che è dietro quelle pagine, con i suoi timori, il suo sentire e il viscerale legame che lo lega alla sua famiglia. La conferma di come “Sarò vostra figlia se non mi fate mangiare le zucchine” non sia solo un libro ma la accorata dichiarazione d’amore lasciata da un padre a sua figlia.

Quanto è difficile per un autore trovarsi a trattare di una storia che lo riguardi così da vicino?

"tommy_dibari3"Non lo so se sia stato difficile. So che però è successo. Una volta dissi a mia moglie una cosa importante: “se anche non dovessi riuscire a pubblicare questo libro, mi auguro solo di terminarlo. Tu prenditi l’impegno di stamparlo e consegnarlo a nostra figlia”. Questo perché voglio che resti per lei una testimonianza di come e quanto suo padre l’abbia amata e la ami. All’interno, però, c’è anche la mia professionalità da scrittore. Qualche giorno fa è stata pubblicata una recensione tecnica sul libro la cui autrice ne parlava come di un romanzo, riferendosi alla trama e ai personaggi. Per me è stato motivo di gioia perché significa che sono riusciti a vedere oltre l’autobiografismo di cui tutti noi possiamo essere capaci. Io sono uno scrittore e per quanto riguarda il lavoro del libro credo al suo interno ci sia anche tutta la mia professionalità, il mio modo di essere scalpellino e  il mio modo di piallare quel determinato pezzo di legno. È come quando nella favola di Pinocchio Mastro Ciliegia prende il pezzo di legno, sente la voce di Pinocchio e lo butta via spaventato. Ecco: quello è un approccio comune ad una cosa oggettivamente stupefacente. Poi c’è Geppetto che sente la voce che proviene dal ciocco, non si spaventa, si mette a lavorare e crede davvero che all’interno ci sia un bambino. Io sono un po’ Geppetto e meno Mastro Ciliegia.

Nel tuo libro scrivi: “questo ti chiederà l’amore: il coraggio della paura”. “Amore” e “paura” ricorrono spesso nel testo. Quali sono le tue paure più grandi, specie in quanto padre?

Ho avuto tante paure, un numero industriale di paure e non credo di averle superate ma di aver scelto di convivere con loro. Prima, quando mi trovavo difronte ai miei demoni, scappavo e, alle volte, la paura era così tanta che li vedevo anche dove non c’erano e scappavo comunque. L’approccio diciamo terapeutico e socratico, nel viaggio dentro di me che ho compiuto, mi ha permesso di smettere di vedere i demoni dove non c’erano e, quando li incontravo, di invitarli al bar a prendere un caffè, sino ad accettare che loro fossero oggettivamente diversi da me ma non fossero così spaventosi. Per quanto riguarda"tommy_dibari2" le paure di un padre, la situazione non cambia: la radice della paura è sempre la stessa. Non è tanto la proiezione della paura a contare ma come io reagisco alla stessa. Gli psicologi dicono: “c’è il ragazzo che non esce di casa perché teme di ricevere un morso dal cane e questo è irrazionale. Poi c’è invece il ragazzo che esce di casa, incontra un cane e ha paura che possa tirargli un morso, quello è razionale”. Fino a che punto questa paura ti congela, ti ingessa, ti atrofizza? Nel mio caso non mi congela, non mi ingessa e non mi atrofizza più. La vivo addosso e alle volte, quando la canalizzo, la trasformo al punto tale da dirti che della paura io ho bisogno proprio perché la esorcizzo in questa dimensione catartica. È come se celebrassi la paura, mi spavento e poi di quegli spauracchi faccio lava, se ci metti il dito rischi di fondertelo ma se la guardi da lontano è bellezza.

Altri concetti che ritornano con una certa frequenza sono il valore della fede, cristiana o buddista che sia, e la spiritualità. Come vivi fede e spiritualità?

Mi ritengo un anarchico cristiano, come ho sempre detto. Nel senso che credo di avere una fede molto profonda, ma tutta mia. Dentro questo libro c’è la misura della fede che ho appreso. Nel libro di Zavalloni, “La pedagogia della lumaca”, si racconta appunto della conquista millimetrica che ogni giorno facciamo. Per me la fede è stata apprendimento, al netto di tutte le cose che condanno. Credo, però, nella chiesa così come la intendevano Don Tonino Bello e David Maria Turoldo. La chiesa, cioè, come luogo di apprendimento e anche come rifugio. Adoro entrare in chiesa ad agosto perché mi piace mettere le spalle sui muri e sulle pietre ghiacciate ed è in quel silenzio, ma anche nel rumore, che mi piace farmi la mia “chiacchierata” con Gesù. Mi piace contaminare la cultura cristiana con tutte le altre matrici spirituali. Il buddismo, ad esempio, ha una radice meravigliosa, credo che quello che oggi insegni Sua Santità Il Dalai Lama sia straordinario e non penso che le religioni, tra loro, non possano vivere questa contaminazione. Quando parliamo poi di "tommy_dibari6"spiritualismo, mi piace trovare nello spiritualismo quella forza eccitante e segreta che io sento dentro di me e che alle volte ho la presunzione di sentire nell’altro. Ecco che cos’è per me la spiritualità. Poi ci sono i luoghi naturali, io sono junghiano, credo che esista un inconscio collettivo e che questa che ci circonda, magari, sia tutta una rappresentazione della nostra mente. Mi piace pensare che la natura ti consenta di vedere una parte segreta di noi stessi. Non è un fatto estetico, non è un fatto di quanto sia bella la natura, ma è un fatto proprio inconscio. Io, ad esempio, credo che l’anima mia sia con l’acqua, che le mie paure siano dentro al vento che lascia il segno sulla roccia e che il mio inconscio sia dentro le grotte del Gargano. Questo perché, da bambino, i miei genitori mi hanno sempre portato in vacanza lì ed io ci torno ogni anno con la mia famiglia, ma non lo faccio solo per mantenere la tradizione. Perché io vedo negli occhi di mia figlia due capperi in mezzo alle rocce? Perché se mi avvicino col naso agli occhi di mia figlia io sento il profumo del Gargano. In quell’inconscio c’è tutta la bellezza della spiritualità. Ed è lì in mezzo che forse c’è Dio.

Hai scelto di fare iniziare la narrazione da un luogo comune e semplice, una pizzeria in tipico “sud style” e hai scelto di farla cominciare proprio dall’happy ending, procedendo poi per flashback. Come mai questa scelta?

Ho cambiato il nome ma è un luogo che esiste veramente a Barletta ed è esattamente come l’ho descritto. Fummo invitati ad una cena sociale da parte dell’Ai.Bi, l’associazione che si occupa di adozioni a livello internazionale e andammo insieme a tante altre coppie. Non conoscevamo nessuno però era un’occasione da condividere con chi era in attesa di andare a prendere il proprio figlio in Congo o chi, magari, aspettava una risposta da parte del tribunale nazionale. Era una bella situazione in una dimensione folle. Ho iniziato da quel punto perché è una tecnica che io adoro, l’ho imparata da Niccolò Ammaniti, l’ho studiata nel tempo e credo che sia il miglior modo di comunicare col pubblico. È sicuramente uno strizzare l’occhio al lettore ma senza tradire la storia. C’è una parte di me dentro quelle pagine, che sono state scritte con una tale intensità, che supera qualunque capacità retorica o oratoria. La scrittura in questo caso è più forte della parola e, di solito, a me dicono sempre il contrario. Questa tecnica è vincente, lo farò ancora per il mio prossimo romanzo e l’ho fatto anche nei precedenti, pur lavorando con un’altra persona. In questo caso è particolarmente vincente perché è una storia vera, non è un romanzo inventato. “Storia di un’adozione”, recita il sottotitolo. Il lettore potrebbe pensare che si inizi dagli esami, dai tribunali sino all’arrivo della bambina, e invece no. Pagina prima: tua figlia è già a casa ed è tutto normale. Ma poi si torna indietro al 2008 e riprende la narrazione.

Come immagini il momento in cui tua figlia leggerà il libro e cosa vorresti che le venisse trasmesso, in particolare, da quelle pagine?

Ho una paura matta. Vorrei che le fosse trasmesso il senso di alcune lettere presenti nel "tommy_dibari4"testo. Potrebbe anche odiarmi per la mia scelta di scrivere questo libro, prendo in considerazione la condizione della paura più estrema. Ho paura che lei non capisca questa mia scelta, sebbene all’interno del libro io non racconti mai il suo vissuto. La lettera che scrivo quando me la immagino che passeggia ascoltando un brano musicale sul braccio del porto, quella lettera è la più significativa non rispetto alle altre ma rispetto all’immagine che ho di mia figlia quando leggerà il libro. Spero che mi sorrida e spero che abbia il diritto di ribellarsi in adolescenza. So che sarà una ribelle e che mi farà penare ma so anche che mi darà dei momenti di luce straordinaria. Me la immagino dopo una lite quando mi scrive una lettera. Non so perché ma io immagino sempre, e questa cosa mi commuove, lei che mi scrive una lettera quando i miei capelli saranno canuti e la barba sarà sale e pepe. Ecco come me la immagino: a 24, 25 anni quando troverà il tempo per ricambiarmi quella lettera.

 

Michele Traversa

Direttore responsabile e Editore di LSDmagazine. Esperto di turismo, spettacolo, gastronomia e tecnologia. Attento alle strategie social media e preparato all'interazione tra gli strumenti che questi offrono e la diffusione dei loro contenuti. Collabora con le principali riviste del settore turistico, italiane e straniere, autore di libri e documentari di viaggio e di mostre fotografiche.