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"non-chiamateli-brigantiIl contadino non ha casa, non ha campo, non ha vigna, non ha prato, non ha bosco, non ha armento, non possiede che un metro di terra in comune. Al camposanto. Tutto gli è stato rapito o dal prete al giaciglio di morte, o dal ladroneccio feodale, o dall’usura del proprietario, o dall’imposta del comune e dello stato: il contadino non conosce pan di grano, né vivanda di carne, ma divora una poltiglia innominata di spelta, segale o melgone, quando non si accomuna con le bestie a pascere le radici che gli dà la terra. Il contadino non possedendo nulla, nemmeno il credito, non avendo che portare all’usuraio o al monte dei pegni, allora (oh! io mentisco!) vende la merce umana: esausto l’infame mercato, piglia il fucile, e strugge, rapina, incendia, scanna, stupra e mangia. Il Brigantaggio non è che miseria, è miseria estrema, disperata.” (Francesco Saverio Sipari)

La storia del fenomeno del brigantaggio è tema ormai rivelato ed analizzato in ogni sua componente; sull’argomento possono recuperarsi talmente tanti autorevoli testi da far sì che ogni nostra appendice risulterebbe vana, se non vanesia. Quel che ci piace sottolineare qui è che la sua origine non può più essere ricercata esclusivamente nella atavica miseria dei nostri braccianti, ma anche, e forse soprattutto, nell’intensificarsi dei soprusi che il popolo doveva sopportare da parte di pochi ricchi padroni, mentre la ragione del suo prolungamento dopo l’unificazione nazionale andrebbe presumibilmente spiegato con il nuovo naufragio di una speranza di giustizia sociale a lungo accarezzata, allo sgretolamento delle illusioni che si erano andate nutrendo, definitivamente distrutte da una politica sabauda sorda alle giuste richieste del meridione d’Italia; quelle stesse inascoltate richieste furono certamente alla base delle successive ribellioni, che il governo pensò di poter affogare nel sangue della legge marziale, scelta che, al contrario, costrinse ribelli a organizzarsi, riunendosi in bande i cui capi divennero – nel bene o nel male – vere leggende (“i cafoni veggono nel brigante il vindice dei torti che la società loro infligge” dichiarava nel 1863 il Generale Govone), giunti ad essere talmente temuti da richiedere una violenta repressione militare, culminata nell’intervento dell’esercito, che, seppure portò a conclusione il periodo del brigantaggio, lasciò irrisolti i grandi problemi di un Meridione sempre più abbandonato ad una irrisolvibile arretratezza economica.

In questo quadro a tinte – ancora oggi – fosche, si inserisce la storia – tutta inventata? – degli ormai mitici fratelli Capitoni, i personaggi creati da Paolo De Vita e Mimmo Mancini che, di spettacolo in spettacolo, stanno mirabilmente ricostruendo una storia d’Italia, finalmente scevra da falsità, convenzionalismo ed ipocrisia. Dopo aver, negli anni scorsi, puntato i riflettori sulle attuali condizioni della nostra società, giungendo sino a fingersi albanesi pronti allo sbarco nella nostra penisola pur di sbarcare (ci si scusi per il gioco di parole) il lunario, oggi l’analisi dei due ottimi interpreti si fa ancora più pungente grazie a “Non chiamateli Briganti”, la pièce, di cui sono anche autori, prodotta dal Comune di Bitonto e da “La compagnia del Sole” di Bari con il sostegno del Teatro Pubblico Pugliese, che pure l’ha inserita nell’annuale cartellone del Teatro Traetta di Bitonto per tre affollatissime repliche.

Se elogiare l’arte recitativa dei due appare ormai superfluo, data anche l’affermazione degli stessi in produzioni cinematografiche che hanno valicato i confini nazionali (valga, per tutte, la partecipazione di De Vita allo splendido “Anonymous”), non possiamo non soffermarci sulla loro straordinaria scrittura, invero anch’essa già palesatasi in passato (pensiamo all’ottimo film “Ameluk” diretto da Mancini). Anche se sarebbe stato facile costruire una performance posata sulle loro indiscutibili capacità di coinvolgere il pubblico, facendo appello ad una innata simpatia e, nel contempo, ad una esperienza ormai più che consolidata, Mancini e De Vita hanno deciso di sottoporsi ad una nuova sfida, vinta a pieni voti, costruendo, grazie anche all’attenta regia di Marcello Cotugno, un’opera che affonda le sue radici nella ricerca, qualità certamente dovuta anche alla consulenza storica di Valentino Romano e Marino Pagano, che non si ferma ai soli testi ma che tracima anche nella strabiliante scelta musicale, una miscellanea di tutto rispetto che annovera Rosapaeda, Plastikman, sino alle registrazioni orali fatte in Salento da Alan Lomax e Diego Carpitella. Carlo e Cosimo Capitoni, uno contadino, l’altro pastore, pur restando la colonna portante dello spettacolo, diventano così un appiglio, un pre-testo, in cui trova posto anche una acuta dissertazione su di una nient’affatto improbabile teoria che ci accomunerebbe al viscido polpo, per dar modo ai due attori, una volta liberatisi degli stessi personaggi, di raccontare, in un davvero perfetto meccanismo che, nella consona scenografia creata da Sara Palmieri ed illuminata da Fabio Fornelli, mescola rappresentazione e narrazione, un’Italia così lontana eppure così vicina, in nulla dissimile da quella che è ancora oggi sotto i nostri occhi, come testimoniato dal finale sorprendentemente amaro e drammatico, che ha fatto riaffiorare alla nostra mente una moltitudine di figure storiche, anche contemporanee, che hanno dato lustro a quell’arte di arrangiarsi insita nel nostro DNA, a quel ripugnante trasformismo di convenienza che – purtroppo – sembra continuare a contraddistinguere il popolo italico tutto.

Michele Traversa

Direttore responsabile e Editore di LSDmagazine. Esperto di turismo, spettacolo, gastronomia e tecnologia. Attento alle strategie social media e preparato all'interazione tra gli strumenti che questi offrono e la diffusione dei loro contenuti. Collabora con le principali riviste del settore turistico, italiane e straniere, autore di libri e documentari di viaggio e di mostre fotografiche.